Le stragi di Parigi hanno scosso le coscienze. Dopo i giorni del lutto condiviso e della fierezza della risposta collettiva alla violenza insensata (niente può giustificare l’uccisione di esseri umani, tantomeno in nome di qualsiasi religione! ), si sono aperte questioni che riguardano il futuro dell’Europa e delle democrazie. Tra queste, spicca quella del diritto di satira e del rispetto delle religioni. Quali nessi, quali limiti, quali regole? Papa Francesco ha affermato con forza il tema del rispetto dovuto alle coscienze: la metafora del “pugno” a chi offende ha scosso, ma il suo discorso alludeva con chiarezza non tanto alla giustificazione di qualsiasi violenza, ma a mettere in gioco la durezza delle provocazioni. La risposta di chi ha detto: «siamo tutti Charlie» è arrivata a sostenere non solo che non si possono mettere limiti alla satira, ma addirittura che tutti gli organi di stampa avrebbero dovuto far proprie, ripubblicandole, le vignette provocatorie del settimanale francese. Come orientarsi tra questi opposti pensieri? Sono temi complessi, difficili da tagliare con l’accetta. Sottolineerei qui due questioni per avviare un dibattito.
La prima è che è del tutto vano e contraddittorio teorizzare l’assolutezza della tolleranza e la necessità di non porre limiti alla libertà. La tolleranza non può coprire, almeno, l’intolleranza: non copre e non dovrebbe coprire l’istigazione all’odio, la diffusione di pensieri violenti, l’insulto contro la dignità delle persone. Non a caso, si sviluppano continuamente nelle democrazie dibattiti e iniziative legislative e amministrative per tutelarsi da questi rischi. Qual è però il confine preciso – legislativamente e quindi processualmente identificabile – tra pensieri insultanti e divertimenti dileggianti, tra istigazione all’odio e provocazione dell’odio? Non dimentichiamo che stiamo discutendo di leggi che istituiscano il reato di negazionismo su una questione apparentemente soltanto storica, come la Shoah. Non dimentichiamo che stiamo discutendo di leggi contro l’omofobia, che potrebbero opportunamente reprimere opinioni ed espressioni ritenute insultanti e discriminatorie verso l’identità sessuale altrui. Abbiamo quasi ovunque, e giustamente, leggi piuttosto severe contro le opinioni e i pensieri razzisti. Non rischiamo quindi di cadere nelle classiche situazioni in cui si pesano diversamente le questioni? Perché mai le minoranze religiose possono essere considerate meno degne di tutela della loro sensibilità e dignità, rispetto alle minoranze etniche o a quelle di genere? Perché le leggi sul «vilipendio della religione» (non parliamo qui della laicissima Francia) sono ormai del tutto desuete? Solo perché scontano l’eredità negativa di un’epoca in cui erano imposte in quanto espressione di una maggioranza dotata di potere? E’ allora una questione di potere o una questione di sostanza? Una riflessione sul nesso tra libertà e divieti legislativi è insomma più che necessaria, con mente sgombra e serena, a tutto campo.
La seconda riflessione è che la legge ha dei limiti evidenti, in questo argomento così delicato. Le democrazie non possono vivere primariamente di ossessione per la regolazione legislativa: è piuttosto opportuno che vivano di comportamenti collettivi virtuosi. E in questo sta sicuramente l’ampliamento dei margini di tolleranza, anche verso quei provocatori che intendono sfatare ogni tabù: verrebbe da dire, lasciamo che restino al margine della società, in cui a volte li confinano le loro ossessioni. Ma in parallelo dovrebbe stare anche la capacità delle istituzioni, delle agenzie educative, dei poteri sociali più solidi e riconosciuti, di promuovere un senso di riconoscimento reciproco tra tutte le soggettività e le minoranze che compongono le nostre pluralistiche società, in un orizzonte di cittadinanza condivisa. In cui quindi la logica del dialogo prenda il posto della logica dell’esclusione, proprio per applicare una bene intesa laicità. Laicità non è emarginare le religioni in uno spazio totalmente privato, ma riconoscere le coscienze religiose dei cittadini e le loro comunità come soggetti reali con cui le istituzioni – libere ed eguali, senza privilegi per nessuno – devono entrare in un dialogo esistenziale continuo. Come tutte le altre culture, opinioni, soggettività. Questo atteggiamento può costruire progressivamente climi più sereni, più comprensivi, meno aspri. E quindi una società di questo tipo può permettersi di chiedere semplicemente più responsabilità e maggiore rispetto a chi esprime opinioni e giudizi, o a chi esercita satira, che ogni giorno è di fronte al dilemma etico del senso del proprio lavoro, se non è un puro teorizzatore nichilista dell’eccesso per l’eccesso. Può permettersi di chiedere più pazienza e meno reazioni ansiogene in chi si sente dileggiato o colpito dalle opinioni altrui. Mi pare chiaro allora che i vertici democratici delle istituzioni, con i loro comportamenti e le loro parole, abbiano a questo proposito un’enorme responsabilità, non solo giuridica e politica, ma anche e soprattutto morale ed educativa.
Guido Formigoni
22 Gennaio 2015 at 15:39
Sulla questione del rispetto per le religioni e cioè per la fede religiosa di ciascuno, è assai giusto, secondo me, porre la questione e fare il paragone con le differenze etniche e di espressione sessuale. Certo si tocca appena la questione di quanto il sacro abbia avuto potere e ne abbia abusato, e quanto dunque abbia finito con lo sprigionare la voglia di desacralizzare e di mettere alla berlina. Ma la strada che indicatai mi sembra la via maestra. Certo, resta ai margini la questione più politica del rapporto con l’islam, ai vari livelli, ma è davvero questione altra, benché vi si intrecci.
25 Gennaio 2015 at 18:10
Mi sembra che il dibattito sia così bene impostato. Rimane una questione, che è specifica per la satira. Questa per sua natura è “dissacrante”. L’aggettivo fa riferimento non solo alle religioni, ma a tutto ciò che può essere “sacro” per la persona umana, anche la meno credente. L’esempio di papa Francesco per la “mamma” è calzante. Però si può fare satira anche sulla mamma (e tanto se ne è fatta sul mammismo!). Ma allora si può toccare anche ciò che è sacro, ma solo in generale e non scendendo a casi specifici? O si può dissacrare anche il sentimento personale? Io direi che si può fare anche questo, ma allora la satira ha il dovere di essere alta, intelligente, a suo modo morale e moralizzatrice. Altrimenti diventa pura offesa, denigrazione e magari anche menzogna!