Un disegno di legge da riequilibrare e la salvezza di tante testate no profit. Per non compromettere la libertà di stampa nel nostro Paese
«Garantire la Costituzione significa garantire l’autonomia e il pluralismo dell’informazione, presidio di democrazia». Così, con autorevolezza, si è espresso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso d’insediamento fatto alle Camere.
Eppure l’Italia, secondo il recente Rapporto di Reporters Sans Frontières (criticato da alcuni, accolto con serietà da altri), è finita lo scorso anno in un poco onorevole 73.mo posto. Perché, cosa sta avvenendo nel mondo dell’informazione del nostro Paese? Utilizzando i dati dell’osservatorio “Ossigeno per l’informazione” si è rilevato che nel 2014 sono stati ben 506 i giornalisti italiani “minacciati” per la loro attività: 47 hanno subito aggressioni fisiche, 139 avvertimenti mafiosi, 22 danneggiamenti, e ci sono state ben 276 denunce e azioni legali chiaramente strumentali per un’intimidazione (nelle prime settimane del 2015 siamo già a 62). E, si può ipotizzare, chissà quanti altri hanno taciuto d’intimidazioni subite. In altri Paesi accade la stessa cosa, ma spesso non emerge, per cui l’Italia appare in condizioni più critiche in una graduatoria che, comunque, non è certo il caso (come ha fatto P.G. Battista sul Corsera) di irridere.
Invece in queste settimane stanno accadendo due cose che obbligano a dare il giusto peso alla dichiarazione del Presidente. E a reagire.
La prima. E’ in discussione in Parlamento una proposta di legge (“Modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale e al codice di procedura civile in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione …”) che – di fatto – inasprisce sanzioni e comportamenti contro i giornalisti – non solo quelli che nel loro operato avessero dolosamente colpito in maniera ingiusta soggetti a loro sgraditi – ma anche quelli che nel loro ordinario lavoro d’inchiesta possono incorrere in difetti oggettivi propri di qualsiasi lavoro d’informazione, seppure fatto con scrupolo e deontologia professionale. Sembra che il mondo politico – svelato più volte e spesso giustamente, nelle proprie malefatte – voglia rifarsi e vendicarsi.
Eppure basterebbe poco per ricalibrare il testo e considerarlo un giusto contrappeso a un’informazione che spesso ha lasciato il segno su soggetti ingiustamente colpiti. Come suggerisce l’avvocato Cristina Malavenda, esperta di diritto dell’informazione sul Corsera del 17 febbraio, basterebbe: “imporre al querelante che perde di pagare le spese processuali sostenute dall’imputato assolto con qualunque formula e di risarcire adeguatamente il danno arrecatogli, per averlo fatto processare ingiustamente; rendere obbligatoria la condanna al risarcimento, in sede civile, nei confronti di chi ha agito con colpa grave o peggio, con dolo; porre a carico di chi inizia una causa civile una sorta di cauzione, una somma di denaro, proporzionata al danno richiesto, che garantisca il pagamento delle spese all’avversario se vince e che adesso si tenta spesso inutilmente di recuperare”. Sono pochi, elementari principi di giustizia che potrebbero rendere più difficili le liti temerarie e le querele pretestuose, che, di fatto, minacciano il lavoro del giornalista. Ne terrà conto il legislatore?
Non sono richieste di categoria, sindacali, sono veri e propri puntelli che servono a mantenere efficace il principio cardine della libertà di espressione.
Ulteriormente messo in crisi, inoltre, da un secondo fatto. Circa 200 testate di giornali, gestite da cooperative e associazioni, tutte no profit, rischiano, se non interverranno il Governo e il Parlamento con misure urgenti e adeguate, la definitiva chiusura. Significherebbe la perdita di 3.000 posti di lavoro tra giornalisti e poligrafici, con una forte ricaduta negativa per l’indotto (tipografi, giornalai, distributori, trasportatori) e per le economie locali nel loro complesso; circa 300 milioni in meno di copie di giornali distribuite ogni anno in Italia; 500 mila pagine d’informazione in meno ogni anno; milioni di articoli, post, blog… in meno, ogni anno. Inoltre, per lo Stato: aumento dei costi per gli ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti; minori entrate fiscali.
“Senza questi giornali, – scrivono i promotori della campagna Meno giornali=Meno liberi – impegnati da sempre a narrare e confrontare con voce indipendente esperienze, testimonianze, inchieste connesse a specifiche aree di aggregazione sociale e culturale e ad affrontare con coraggio tematiche di particolare rilevanza a livello nazionale, l’informazione italiana perderebbe una parte indispensabile delle proprie esperienze plurali”. E’ l’annoso problema del finanziamento pubblico all’editoria, da molti messo in discussione e non solo per esigenze di bilancio, ma per principio, e che invece in molti altri Paesi (anche di tradizione liberale) è ben più sostanzioso del nostro. Non tenendo conto, infine, che in caso di chiusura di tante testate, sottolineano i promotori, “i costi per lo Stato sarebbero largamente superiori al valore delle somme necessarie per adeguare il Fondo per il contributo diretto all’Editoria al fabbisogno effettivo, individuabile per il 2015 in circa 90 milioni di euro”.
Per aderire alla campagna Meno giornali=meno liberi (promossa da Alleanza delle Cooperative Italiane Comunicazione, Articolo 21, Mediacoop, Fisc, File, Federazione Nazionale Stampa Italiana, Sindacato Lavoratori Comunicazione CGIL, Associazione Nazionale stampa online, Unione Stampa Periodica Italiana), per salvaguardare il pluralismo dell’informazione e per una riforma urgente dell’intero settore dell’Editoria, si può partecipare, tramite il blog www.menogiornalimenoliberi.it, unitamente alle proposte in discussione relative ad alcune linee fondamentali da suggerire al Governo e al Parlamento per la riforma del settore.