L’intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per il 1° maggio 2012

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Il 1° maggio, il tradizionale incontro al Quirinale è stato concluso da Giorgio Napolitano con un intervento nel quale ha riassunto i termini della crisi e ha messo in luce i punti di forza del paese. Riproduciamo qui due annotazioni conclusive: come predisporsi al cambiamento necessario, la necessaria cooperazione tra le forse sociali e le forze politiche.

Desidero concludere su due punti che mi sembrano fondamentali. Il primo è quello del predisporsi al cambiamento. Penso innanzitutto, certamente, al cambiamento che si deve esigere da quanti hanno tratto benefici illeciti dal dilatarsi della spesa pubblica e sono venuti meno – o vengono oggi spinti a venir meno – ad obblighi di lealtà verso lo Stato e la comunità come quello fiscale. Cambiamento che si deve esigere anche da quanti hanno tratto vantaggio da un contesto di crescenti disuguaglianze sociali. Ma penso nello stesso tempo a quanti nel mondo del lavoro pure fanno quotidianamente i conti con pesanti doveri e con difficoltà materiali, derivanti ad esempio, sul piano finanziario, da una condizione di salari reali tra i più bassi in Europa.

Anche ai lavoratori, dunque, e ai giovani che bussano alle porte del mercato del lavoro, non può sfuggire che la realtà con la quale occorre misurarsi  non è più quella di un decennio o di alcuni decenni fa, e non può essere affrontata  arroccandosi nelle conquiste del passato ma riformulando le proprie ragioni – insieme con istanze  perenni di equità e di giustizia –  in modo da farle valere in un contesto nuovo : nuovo dal punto di vista tecnologico, produttivo, competitivo. Basti riflettere su quanto ci si debba predisporre a cambiare nella qualità della formazione e del lavoro, perché il nostro paese possa disporre di un capitale umano all’altezza delle sfide del XXI secolo. In tempi di crisi come quelli che stiamo attraversando e ancora attraverseremo nei prossimi anni, ogni posizione puramente difensiva o nostalgica è perdente. Occorre, non già con rassegnazione ma con passione – torno alle parole di questo Primo Maggio – mirare ad un benessere diversamente concepito e misurato rispetto al modello dello scorso secolo : un benessere ben più riferito a componenti ambientali, sociali, culturali, ovvero di qualità della vita, che non ai tradizionali parametri quantitativi.

In una visione più ampia, è l’Europa, sono le sue classi dirigenti, i suoi ceti popolari, i suoi cittadini che debbono predisporsi al cambiamento, perché il peso demografico ed economico del nostro continente si è ridotto nel mondo, e non sarà consentito agli europei di vivere al di sopra delle loro possibilità. Saremo come europei spinti ad affinare le nostre potenzialità, facendo leva sul nostro peculiare patrimonio storico-culturale, a cercare nuove strade per competere con successo e per contare nel mondo d’oggi e di domani, saremo spinti soprattutto a unire fino in fondo le nostre forze. Se la “rivolta contro l’austerità” di cui oggi si parla in rapporto a un quadro politico europeo in affanno e in transizione, dovesse significare difesa disperata di  posizioni acquisite in epoche precedenti, secondo una chiusa e illusoria ottica nazionale, l’Europa davvero rischierebbe di scivolare ai margini della storia.

E l’altro punto su cui desidero concludere è quello della cooperazione che si impone tra le forze sociali così come tra le forze politiche, in modo particolare nel nostro paese. Cooperazione nella misura e nelle forme necessarie per salvaguardare l’interesse generale, l’interesse comune dell’Italia e il suo futuro. Non è questione di formule di alleanza politica e di governo ; è questione di clima, è questione di spirito pubblico, è questione di consapevolezza diffusa e di condivisa assunzione di responsabilità. Abbiamo conosciuto tempi di divisione troppo acuta per potervi riuscire ?  Ma quelli di oggi sono a tal punto tempi di crisi, che non possono essere più tempi di contrapposizione lacerante e paralizzante, di dissociazione e frammentazione in un dedalo di interessi e pretese particolari. E d’altronde in questi mesi ho sentito diffondersi tra gli italiani – ed è segno di confortante maturità – una seria comprensione delle difficoltà e degli sforzi di rinnovamento di cui occorre farsi tutti carico.

Non è peraltro retorico o improprio il richiamo ad altri tempi di crisi, e davvero durissimi, che abbiamo vissuto, quando il paese era ancora da ricostruire materialmente e moralmente : era l’Italia delle mondine che abbiamo visto e sentito poco fa. In alcuni giorni di metà febbraio del 1950 ero nel Teatro delle Arti in Roma per seguire da giovane, attento spettatore i lavori della Conferenza economica nazionale della CGIL sul “piano del lavoro” da essa proposto. Meno di due anni prima le elezioni generali dell’aprile 1948 avevano segnato un drastico spartiacque tra una coalizione di governo guidata dalla Democrazia Cristiana e un’opposizione imperniata sui partiti della sinistra, ai quali era politicamente legata la CGIL dopo la scissione intervenuta nel suo seno. E apparve dunque stupefacente che a quella Conferenza aperta da una relazione di Giuseppe Di Vittorio, intervenissero due tra i più autorevoli ministri di allora, personalità di primo piano dei partiti di governo, rappresentanti di un ampio universo sociale, culturale e tecnico. Ci fu grande attenzione reciproca, grande rispetto anche per i contributi di studiosi di alta competenza sui complessi problemi del finanziamento del “piano del lavoro” e su molti altri temi specifici e rilevanti. E ci fu misura nei giudizi, pur essendo in quel periodo assai viva la dialettica e la tensione tra le parti politiche di maggioranza e di opposizione. Quella Conferenza produsse risultati, ebbe proiezioni nello stesso successivo svolgimento dell’azione di governo. Non scomparvero certo le asprezze della lotta politica e sociale ; il paese avrebbe poi conosciuto complesse e contraddittorie vicissitudini ; ma in quel momento era scattato precisamente un clima di consapevolezza diffusa e di condivisa assunzione di responsabilità di fronte alle incognite che circondavano il futuro del paese. E fu un bene per l’Italia. Confido che quanto fu possibile allora sia egualmente possibile oggi.

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