Può sembrare per alcuni aspetti strano – sul finire di una campagna condizionata da una legge elettorale che poco ha a che fare con la democrazia sostanziale e mentre alcuni dei partiti in lizza promettono un profondo cambiamento istituzionale destinato a modificare l’impianto costituzionale senza peraltro precisare come – lasciare da parte tutto questo per entrare in sintonia con l’articolo di Sandro Antoniazzi (scritto a nome della rete c3dem) che ci propone quesiti inerenti aspetti fondamentali della democrazia scegliendo però una prospettiva ben diversa. Un articolo che, non condividendo l’idea di una democrazia solo procedurale e istituzionale, alza lo sguardo proponendoci anzitutto una domanda non banale: in un quadro ricco di limiti, nonostante la si dia per scontata, è possibile pensare a un progresso della democrazia, una realtà sempre da promuovere e realizzare ?
Non solo perché lo afferma la Carta costituzionale ma anche per il senso comune, una società è tanto più democratica quanto più consente la partecipazione dei cittadini, direttamente o indirettamente, alle decisioni che li riguardano, ne garantisce i diritti fondamentali e propugna valori comunemente riconosciuti alla base di quella comunità.
Verificando l’attuazione di tutto questo nella esperienza concreta di ogni Paese ci si rende conto quanto sia spesso una questione sia di forma che di sostanza. La democrazia è tanto più compiuta quando la forma favorisce la sostanza; viceversa, quando la sostituisce fino a poterne prescindere, la democrazia viene meno. Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha condannato l’Ungheria per i passi indietro della sua società in termini di democrazia sostanziale; chi la difende tra i partiti italiani e si candida a guidare il Paese dissente da tale posizione perché – sostiene – “in Ungheria ci sono le elezioni”. Per il Parlamento europeo in questo caso la forma prevale sulla sostanza e ciò non basta a garantire ai cittadini ungheresi i livelli di democrazia sostanziale consolidatisi in Europa dopo la 2a guerra mondiale. Forma e sostanza sono due dimensioni dell’esperienza democratica costantemente in tensione; un equilibrio che non dobbiamo dare mai per scontato se abbiamo cara la democrazia. Non vale solo per il governo di un Paese o di un Comune ma più in generale per l’intera realtà sociale e le relazioni che viviamo.
L’involuzione della partecipazione popolare negli ultimi decenni
Quando si pensa al passato siamo abituati a ripeterci che allora funzionavano i partiti e i cittadini trovavano in essi uno strumento di partecipazione. E’ vero, naturalmente, ma forse può aiutare la nostra riflessione provare ad arricchire con qualche altro spunto tale affermazione.
Non possiamo infatti dimenticare lo stimolo alla partecipazione democratica che nella seconda metà del secolo scorso è venuta dall’iniziativa dei sindacati, dell’associazionismo, di realtà ecclesiali, e più in generale dal desiderio dei singoli di partecipare alle vicende delle realtà che li coinvolgevano anche attraverso forme molto spontanee. Non è un caso che in quel periodo si sia ricominciato a mobilitarsi per i beni comuni.
Una spinta alla partecipazione che ha coinvolto modelli di gestione e di decisione in molte realtà della nostra vita sociale; che ha visto nascere gli organismi di partecipazione nella scuola come nelle parrocchie; che ha ispirato la normativa di settori dell’economia, come quella relativa al sistema delle autorizzazioni in campo ambientale, o le forme di decentramento amministrativo nelle grandi città.
Tutti conosciamo l’evoluzione di tale processo: dapprima la domanda di partecipazione di iniziativa popolare, quindi riforme che hanno portato necessariamente a istituzionalizzarla, poi il progressivo venir meno della sostanza e dell’interesse alla partecipazione in molti degli organismi così prodotti. Persino l’istituto referendario ha vissuto lo stesso ciclo.
Non è questa la sede per approfondire le cause di tale involuzione cui non sono di certo estranei fenomeni culturali di massa, come lo spiccato individualismo e il concentrarsi dei più nel privato, che hanno progressivamente pervaso negli ultimi decenni anche la nostra realtà sociale, nonostante lo sviluppo dell’associazionismo e i richiami al bene comune. Tra le altre, non è certo da dimenticare la percezione di inutilità in molti casi registrata circa gli effetti concreti della partecipazione popolare; sempre più spesso sostituita dal moltiplicarsi delle occasioni di condivisione della decisione tra i diversi livelli delle istituzioni la cui occupazione sembra essere ormai l’unico obiettivo dell’attività dei partiti, emblematicamente riflessa nella campagna elettorale.
La coincidenza sempre più stretta tra partiti ed istituzioni non è priva di conseguenze anche sul piano dei comportamenti attribuibili ai singoli protagonisti. Il partito visto come canale per avere un ruolo nell’istituzione. Chi vive l’istituzione non si pone quindi il problema di rendere conto a chi partecipa attivamente nella realtà sociale, neanche a quella parte con cui collabora per la realizzazione dei propri servizi, perché chi viene eletto a farne parte sente di dover rendere conto solo al vertice di partito che glielo consente. Quindi, è vero quanto osserva Sandro Antoniazzi scrivendo che i partiti non sono più un ponte tra il potere centrale e la gente; anche se un tempo ciò legittimava forme di clientelismo o una gestione di parte delle istituzioni, non solo la partecipazione democratica. Ma direi di più: anche laddove la partecipazione popolare si traduce in impegno per il bene comune (le tante forme di associazionismo per esempio) questo impegno non è motivo di partecipazione democratica alla decisione pubblica perché la relazione con le istituzioni trova altre motivazioni: l’organizzazione di un servizio, la provvista finanziaria, la concessione del patrocinio o di una sala.
Il paradosso di parrocchie in cui sembra vietato parlare di politica
L’esaurirsi dell’esperienza dei partiti di massa con i relativi e ben riconoscibili “mondi” di riferimento ha comportato anche il rifiuto progressivo del collateralismo nel senso comune. Basta pensare alla vicenda della Chiesa italiana, che ben conoscono i cattolici democratici, passata lungo l’arco temporale di una vita dal concepire un sistema complesso di relazioni a tutti i livelli quale fu il mondo cattolico, tra cui in primo piano le organizzazioni della politica, ad un contesto come l’attuale in cui nelle parrocchie anche i laici più impegnati si guardano bene da qualsiasi iniziativa riguardo argomenti che anche vagamente richiamino il dibattito politico, a maggiore ragione in campagna elettorale.
E’ un vero paradosso. Il magistero sottolinea l’importanza della politica nella vita di un cristiano fino ad esaltarla idealisticamente come un’alta forma di carità perché consente di cercare il bene comune, ma nelle comunità cristiane ci si rifiuta di parlarne nel timore che possa alimentare spaccature e divisioni tra le diverse appartenenze partitiche. Può un processo di per sè positivo come fu il superamento del collateralismo essere alla base della paralisi di un popolo nella sua esperienza democratica? D’altro canto, se non ci si abitua a confrontarsi sulle questioni attinenti la vita civile in un contesto di relazioni apparentemente favorevole perché basato su motivazioni forti e condivise, dove si può immaginare possa avvenire la maturazione necessaria a partecipare democraticamente nel perseguire il bene comune anziché consegnarsi inermi alla propaganda?
Non manca talk show in cui non si lamenti il distacco dei cittadini dalla politica nella forma dei partiti sempre più percepiti come comitati elettorali finalizzati alla conquista delle istituzioni; e persino un leader di una certa età come Berlusconi si butta su Tik Tok per parlare ai giovani; ma questo serve solo alla propaganda.
Anche l’introduzione della tecnologia, su cui tanto hanno puntato i Cinquestelle estendendo la prassi referendaria alle decisioni di partito, non sembra sia servita a favorire passi avanti sostanziali nella prospettiva democratica. Ma forse questa è un’esperienza che andrebbe approfondita meglio prima di consegnarla semplicemente ai casi in cui la forma ha prevalso sulla sostanza o alle vicende interne di un solo partito.
La partecipazione democratica è impegnativa. Implica la fatica del discernimento e della ricerca di soluzioni ai problemi intercettati fino al formarsi di un punto di vista, se non anche di proposte, a partire dai valori in cui ci si riconosce; e poi l’impegno che richiede il confronto democratico con le idee o le ricette altrui. Non può ridursi semplicemente a riempire una sala allo scopo di ascoltare le proposte dei diversi esponenti di partito alimentando l’equidistanza, con la medesima passività che siamo abituati ad assumere di fronte alla TV, quasi che partecipare fosse sinonimo di informarsi.
Alcune esperienze di partecipazione democratica
Non si tratta di grandi novità, ma possiamo tentare una risposta alla domanda di Sandro Antoniazzi se sia possibile pensare a un progresso della democrazia riflettendo brevemente sulla possibilità di fare esperienze di vera partecipazione democratica in alcuni ambiti riscontrabili nella realtà milanese che meglio conosco; solo alcuni spunti nell’economia di questo articolo, naturalmente, ma sarebbe interessante poi approfondirli per capire come forma e sostanza potrebbero aiutare a fare passi avanti attraverso la possibilità di sperimentazioni. Più che dibattere concettualmente sulle aspettative che una riforma, in questo o quel settore, possa comportare in termini di partecipazione democratica credo infatti molto all’utilità di generare situazioni sulla cui esperienza si possa poi basare la proposta.
Riguardo il settore economico sono note le idee promosse da sempre dal sindacalismo cattolico circa la necessità d’introdurre forme di partecipazione dei lavoratori. Non credo che lo stile di gestione aziendale si risolva solo attraverso l’inserimento tout-court di un rappresentante dei lavoratori nell’ambito di un CdA, ma sono convinto che sarebbe un passo avanti se per esempio le aziende interessate a comunicare la propria responsabilità sociale sul mercato e nel territorio o a sviluppare politiche di welfare a favore dei propri dipendenti, per esempio le B-Corp, dovessero istituire un organismo di rappresentanza di tutte le componenti aziendali, periodicamente eletto dai dipendenti, cui delegare la gestione dei budget dedicati.
Un altro ambito di economia reale è il Terzo Settore, pur molto variegato nella sua composizione e tipologia aziendale. Ma se si considera che l’articolo 1 del nuovo codice si propone il suo riordino al fine di sostenere l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono …a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e di protezione sociale, favorendo la partecipazione…. come non pensare agli Ets per valorizzare forme di partecipazione attiva dei lavoratori, esistenti o da sperimentare, anche nel caso di aziende strutturate diventando così un modello per il profit?
Passando dal mondo dell’economia alle Istituzioni il livello più vicino alla vita sociale in una città come Milano, colpevolmente privo di responsabilità reali, è l’organismo di decentramento amministrativo o municipio. E’ un vecchio discorso, certamente, ma dotare il municipio di competenze reali riguardo l’organizzazione urbana e la vita civica nel territorio locale e prevedere forme di coinvolgimento sostanziale degli abitanti dei quartieri che ne fanno parte nelle decisioni inerenti la loro realtà di vita sarebbe un modo per sperimentare utilmente forme di democrazia diretta, quali si è tentato di attuare con difficoltà maggiori su scala nazionale attraverso la tecnologia.
Dal Territorio alla Parrocchia il percorso è breve. Nonostante le considerazioni possibili circa le contraddizioni che vivono le comunità cristiane nella formazione all’esperienza democratica, può essere utile ai nostri fini riflettere sul fatto che, rimanendo su Milano e nella diocesi ambrosiana, un esperimento non riuscito nell’ultimo decennio è stato il tentativo d’innestare un insegnamento del magistero teso ad accreditare una Chiesa “in uscita”, orientata a testimoniare la fede condividendo i bisogni sociali dove le persone vivono le difficoltà reali, su un impianto organizzativo ottocentesco incentrato sul modello parrocchiale che ha retto anche ai pur forti venti di riforma introdotti dal Concilio. E’ in corso un difficile tentativo d’introdurre nuove forme organizzative attraverso la riforma dei Decanati per favorire un diverso modello di Chiesa diocesana nel Territorio che nelle aspirazioni vorrebbe favorire una maggior coinvolgimento del laicato cristiano nel testimoniare la propria fede entrando in relazione con altre realtà e i bisogni sociali emergenti. Prescindendo da ogni giudizio su come procede in generale questa esperienza, è un’apertura. Potrebbe offrire un terreno fertile per un’iniziativa dei cattolici democratici che, partendo da un decanato o da un municipio, si proponesse di stimolare la Chiesa milanese a vivere esperienze di partecipazione democratica nel territorio contribuendo ad affrontare i problemi sociali emergenti.
Elio Savi
(presidente dell’Associazione “Reagire” – Milano)