L’urlo della solitudine precaria, tra lavoro e sfruttamento

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«”Io non ho tradito, io mi sento tradito” sono le parole di un ragazzo, appena trentenne, che decide di abbandonarsi al suicidio denunciando una condizione di precarietà, un sentimento di estrema frustrazione. Non è l’urlo di chi si ferma al primo ostacolo, di chi capricciosamente non vede riconosciuta la propria ‘specialità’. È l’urlo di chi è rimasto solo. Di precariato si muore. Tutto questo ha a che fare con le trasformazioni della nostra società, a partire dai diritti universali, dal lavoro, dall’umanità e dalla solidarietà negate.

Quelle cose che si è deciso di escludere dalle nostre vite, non potendogli dare un prezzo. C’è più di una generazione a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l’impegno per essere felici. Quella di chi si è affacciato al mondo del lavoro cresciuto a pane e ipocrite promesse, e quella di chi si affaccia oggi, quando la promessa assume il volto di un’ipocrisia manifesta. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c’è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce».

Le parole di Marta Fana, PhD in Economics a Sciences Po Paris, attualmente ricercatrice presso il Joint Research Center (Institute for Prospective Technological Studies) della Commissione Europea a Siviglia e membro del board della rivista Jacobin Italia, sono altamente significative per comprendere la temperie che produce il libro “Non è lavoro, è sfruttamento”, edito da Laterza nel 2017 e soggetto ad una seconda edizione nel 2019.

L’opera richiama una serie di ritratti della solitudine precaria del nostro tempo, offrendo al contempo una raffigurazione delle disuguaglianze socio-economiche nelle forme affermatesi nel contesto dell’ultima crisi ed una serie di dati macro-economici che inquadrano la situazione del lavoro in Italia.

Il gruppo di Pisa della Rosa Bianca si è impegnato in una serie di letture collettive che, oltre ad esprimere una dinamica relazionale e di confronto a partire dal testo, ha costituito la base per l’incontro pubblico con l’autrice, svoltosi nel pomeriggio di domenica 6 ottobre presso la sala convegni della Stazione Leopolda nella nostra città.

A discutere con Marta Fana, oltre ai presenti, sono stati i due relatori selezionati dal gruppo: la sociologa Sandra Burchi (autrice di Ripartire da casa. Lavori e reti dallo spazio domestico nel 2014 e Come un paesaggio. Pensieri e pratiche fra lavoro e non lavoro nel 2013) e l’economista Mario Morroni (autore di What Is the Truth About the Great Recession and Increasing Inequality? nel 2018). Due approcci e due tagli interpretativi differenti per comprendere gli aspetti complessi di un testo dal tono volutamente divulgativo ma dalle implicazioni cangianti, poiché cangiante è stata la legislazione sul lavoro in Italia tra la data di prima e seconda edizione del testo. L’incontro è stato arricchito dalla partecipazione di Marta Fana al dibattito con l’economista Andrea Roventini (Sant’Anna), il sociologo Lorenzo Zamponi (Scuola Normale), coordinato dalla dott.ssa Armanda Cetrulo (Sant’Anna) svoltosi il 7 ottobre nei locali del circolo ARCI Rinascita di Pisa, nostra sede per incontri e casa comune di relazione sociale, interamente dedicato alla presentazione della nuova uscita della rivista Jacobin Italia: Apocalypse NO, un contributo sui movimenti ambientalisti e sulle nuove mobilitazioni giovanili.

Tesi centrale del libro “Non è lavoro, è sfruttamento”, preso in esame in una decina di incontri del nostro gruppo locale, è quella per cui le tipologie contrattuali o di mero rapporto subordinato gratuito – si veda il ricco capitolo su volontariato e lavoro gratuito – adottate dalla fine degli anni Novanta ad oggi abbiano legittimato una formula di relazioni lavorative sempre più precaria e con impatti economici mai positivi nel quadro generale del Paese e nel contesto peculiare delle esistenze dei soggetti analizzati. Se la radice etimologica di precarietà è nel latino prex, precis (preghiera), si definisce un rapporto tremendamente orante del subalterno, fattispecie che inaridisce la ricchezza immateriale e materiale che lo stesso lavoro dovrebbe creare.

Esiste, nella riflessione di Fana, la coscienza di un rapporto di forza persistente e sempre più forte di tipo classista – circostanza che le letture collettive hanno sottolineato – e che definisce una identità del soggetto “classe lavoratrice”. Una identità costruita a partire da formule relazionali che si ritenevano “passate” – il cottimo – e che l’autrice riscontra nelle conseguenze della legislazione post legge Biagi-Maroni (2003). Il testo affronta dati che fanno impressione, come le assunzioni per un solo giorno o il volontariato sostitutivo del lavoro nella funzione pubblica, o ancora la quantità di categorie che funzionano in tal modo, moltiplicando la frammentazione del mondo del lavoro e smantellando una possibilità di contrattazione minimale. L’esempio “classico” e assunto dai media nell’ultimo anno è certamente quello dei riders, uniti in forme “sempre antiche e sempre nuove” di sindacalizzazione (basti pensare a Riders Union Bologna) e oggetto di ben due dispositivi di legge nell’ultimo anno e mezzo – “decreto dignità” e quello “per la tutela del lavoro e la risoluzione delle crisi aziendali” firmato da Mattarella all’inizio di settembre – oltre ad un numero cospicuo di sentenze della magistratura, che nel gennaio ha definito per la vicenda torinese la dimensione non scontata di un rapporto subordinato rispetto al player Foodora, come riportato dal Sole 24 Ore.

Esiste, come rilevato nell’incontro pubblico del 6 ottobre, la difficoltà – specie per la parte sindacale, oltre che per quella politica – nel costruire una unitarietà di intenti tra mondo del lavoro dipendente contrattualizzato e mondi precari: se le lavoratrici e i lavoratori si rivolgono contro i loro stessi simili o approdano a forma individualizzanti del rapporto col datore di manodopera, come è possibile immaginare di risolvere la frantumazione e le solitudini? Forme come il coworking per le partite IVA e gli autonomi, pur utili, sembrano meri palliativi che non risolvono una precipitazione individuale, specie nel tempo in cui – come detto da papa Francesco nel giugno 2017 ai sindacalisti – il tema dell’innovazione nel lavoro si lega al bisogno di essere “profetici” in quel campo.

Il bisogno di una visione d’insieme e nuovi strumenti risolutivi (la questione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, la revisione al rialzo degli strumenti salariali, le forme più ampie ed unitarie di contrattazione, la proprietà pubblica degli algoritmi e dei robot che trasformano la vita lavorativa sempre di più) è quindi lo spunto generale che offre il pamphlet di Marta Fana e che rilancia una discussione che non ha solo taglio economicista o di rappresentazione sociale, ma che abbraccia l’ubi consistam complessivo e l’identità del lavoro – e della classe lavoratrice – nel nostro tempo. Con un taglio ideale o ideologico, forse? Perché no, se è un taglio che non banalizza gli elementi di complessità ma prova ad inscriversi in una cornice non forzata né demagogica, dinamica ma unitaria? Se la disarticolazione dei corpi sociali, a partire dal contesto del lavoro nel quadro delle conseguenze della crisi, ha prodotto una escalation di demagogia ed una messa in crisi dello stesso quadro di relazioni democratiche, non è proprio dalla ricostruzione di identità diverse e da un’analisi dei rapporti di forza che potrebbe tornare a rafforzarsi la democrazia in Italia ed in Europa?

 

Ettore Bucci

 

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