Ha ragione Guido Formigoni ad affermare che saremmo di fronte alla crisi di un ordine sistemico, e perciò alla necessità di mettere le basi di un ordine sistemico diverso, con un grande sforzo di elaborazione cultural-politica collettiva. Giustamente Formigoni segnala i rischi di una siffatta operazione:“Cercare affannosamente il nuovo o essere pervicacemente attaccati al vecchio”.
Concordo che si riproponga il dilemma se si debba conservare il vecchio o cercare il nuovo. Secondo me, però, non ci si può soffermare agli aspetti esteriori del dilemma: è esatta la constatazione che la rete sostituisce in gran parte il dibattito de visu tra le persone, che tutto si risolve in twit, inviti alla “rottamazione”, slogan senza argomentazione, sfoghi umorali. E’ lampante che i partiti politici attraversino una profonda crisi, della quale il successo del movimento 5Stelle è un sintomo evidente. E’ innegabile infine che c’è un forte desiderio di nuovi protagonisti.
Ma questi sono secondo me solo epifenomeni. Occorre porsi preliminarmente due quesiti: da che cosa origina una siffatta crisi di sistema? E che cosa si deve intendere per “vecchio” e per “nuovo”?
In merito al primo quesito, occorre chiedersi se la crisi italiana possa esser causata solo da fattori interni. Ora appare evidente che ci si trova di fronte a un predominio del potere finanziario, che opera a livello transnazionale e condiziona pesantemente i regimi democratici dei singoli stati nazionali. E’ almeno dall’inizio del 2012 che si è aperto il dibattito tra economisti, sociologi e studiosi sulle conseguenze che l’azione delle concentrazioni finanziarie globalizzate e delle loro agenzie di rating fa gravare sui regimi democratici dei singoli paesi; ci si è chiesto se non si fosse alla vigilia di una crisi irreversibile dei regimi democratici, cioè dei sistemi che, nati dalla rivoluzione francese del 1889, si fondano sulla divisione dei poteri (esecutivo, legislativo e giudiziario) e sul ruolo di partiti politici, portatori di proprie culture e programmi, deputati alla raccolta del consenso e a fungere da tramite tra i cittadini e le istituzioni: una crisi segnata anche dall’emergere di derive plebiscitarie e populiste. Si è parlato di “postdemocrazia”, secondo il titolo del noto libro di Colin Crouch.
Persino un’istituzione sovranazionale quale l’Unione Europea sarebbe stata sottoposta a una torsione antidemocratica, alla perdita della sua originaria vocazione comunitaria: le regole di democrazia dell’Unione appaiono, infatti, lese nelle loro fondamenta e sostituite dalle prescrizioni della Banca Centrale Europea e, soprattutto, dalle imposizioni degli Stati economicamente più forti, con conseguenze deleterie per i paesi con economie più dissestate. Si pensi, ad esempio, alle misure di austerità e rigore adottate per fronteggiare la crisi (o per salvare gli istituti di credito?) dalla cosiddetta “troika” (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Esecutiva) che si sovrappongono alla volontà dei parlamenti e dei popoli dei paesi colpiti e sono giunte fino al quasi commissariamento degli Stati sovrani (il caso Grecia ne è un esempio lampante), misure giudicate da molti osservatori come terapie che aggravano la malattia anziché curarla. Appariva a molti studiosi irrimediabilmente spezzato quel “compromesso” tra capitalismo e democrazia che, orientato anche dalle teorie economiche di J.M. Keynes, aveva consentito, nel primo trentennio dopo la seconda guerra mondiale, la costruzione in Europa di sistemi di welfare e di inclusione.
Se queste sono le cause della crisi del sistema democratico, è chiaro che non possono essere combattute e superate solo all’interno dei singoli paesi colpiti, che sarebbe necessario un potere politico transnazionale in grado di tener testa al potere finanziario. Se è così, il problema di un’Europa diversa, regolata da principi effettivamente democratici, controllata da una reale partecipazione dei cittadini elettori, e non solo dagli Stati economicamente più forti, capace di agire come soggetto politico, diventa una priorità.
In merito al secondo quesito, cioè su che cosa si debba intendere per vecchio e per nuovo, resto dell’idea (forse per ragioni di età sono portata alla conservazione) che gli alberi non crescono se non hanno profonde radici. Insomma non sono tentata dal nuovismo. E’ evidente, ad esempio, che le teorie neoliberiste, l’esaltazione dell’individualismo, l’idea che tutto possa esser misurato dalle leggi del mercato sono quantomeno una delle cause della debolezza della politica nei confronti del prepotere della finanza. Robert Kennedy nel lontano 1968 aveva già affermato che “il PIL non misura la nostra arguzia, il nostro coraggio, la nostra saggezza, la nostra conoscenza, la nostra compassione, la devozione al nostro paese. Il PIL misura tutto eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”. Come mai, ancora oggi, malgrado sia evidente il fallimento delle politiche ispirate al neoliberismo, persiste la convinzione che il mercato sia capace, purché la mano pubblica non intervenga, di autoregolarsi e assicurare sempre la migliore soddisfazione dei bisogni?
E’ questo, è la subalternità e l’accettazione passiva delle teorie neoliberiste, secondo me, uno degli aspetti del “vecchio” che va rimosso. Libertà, giustizia sociale, eliminazione delle spaventose diseguaglianze tra ricchi e poveri, tra paesi sviluppati e paesi del cosiddetto terzo mondo, rivalutazione della cultura, tutela dell’ambiente, perseguimento della pace non sono cose “vecchie”: sono obiettivi da perseguire anche se antichi.
Non credo che i principi fondanti della democrazia iscritti nella nostra Costituzione vadano abbandonati né che sia venuto meno il ruolo di formazioni politiche che associno i cittadini e funzionino da tramite tra essi e le istituzioni pubbliche. Il problema casomai è di rileggere il vecchio con uno sguardo alla nuova realtà.
Se oggi, in Italia (e questo appare come un fenomeno tutto italiano), i partiti politici sono in crisi è perché non sono più impegnati a raccogliere consenso attorno a progetti, programmi, visioni della società; i partiti, quantomeno i più grandi – per non parlare della frammentazione di partitini, specialmente a sinistra, e del PDL, che partito non è -, sono diventati, o quantomeno appaiono, contenitori e strumenti per carriere individuali. Andrebbero “rifondati”. Utilizzando anche la “rete”, ma cercando di ricostruire sedi di dibattito, di partecipazione quotidiana, di possibilità per iscritti ed elettori di contribuire a determinare le scelte programmatiche e politiche attraverso la discussione prima e non solo dopo che tali scelte sono state adottate dai leader o da organismi dirigenti, anche se ampi. E’ un metodo tradizionale, ma oggi sarebbe “nuovo”: non sono certo le “primarie” per la scelta dei segretari o dei candidati alla guida del Governo che possono sostituire un effettivo dibattito democratico.
Quale ruolo dovrebbero avere i cattolici democratici?
Dovrebbero rileggere la loro storia, che ha tanti aspetti negativi, ma anche tanti esempi da rivendicare. Penso che valga l’esempio di S. Paolo, che fu un grande innovatore, ma non un nuovista: Paolo non rinnegò il vecchio testamento, ma lo rilesse alla luce dell’insegnamento di Gesù Cristo.
Concordo perciò che, come scrive Formigoni, “il senso della storia come processo, che prevede apertura continua al futuro, per cui è fondamentale la coltivazione della memoria e del patrimonio del passato, il senso critico delle mediazioni necessarie tra utopie e stabilità, tra valori assoluti e consenso sociale […]” siano risorse da utilizzare “per sciogliere positivamente il dilemma”.
Marisa Rodano*
*L’autrice è stata una dirigente del Pci. Dopo aver partecipato alla Resistenza è stata consigliere comunale a Roma dal 1946 al 1956; deputato dal 1948 al 1968; senatrice dal 1968 al 1972, parlamentare europea dal 1979 al 1989. Fu la prima donna a diventare vicepresidente della Camera, carica che ricoprì dal 1963 al 1968. E’ stata presidente dell’Udi dal 1956 al 1959. Nel 1944 ha sposato Franco Rodano, di cui è rimasta vedova nel 1983 e dal quale ha avuto cinque figli.