Giandiego Carastro
Questa intervista è stata realizzata prima della catastrofe in Ucraina, e quindi le domande e le risposte non tengono conto dei drammatici eventi. Ma si percepisce, tra le righe, il desiderio appassionato di una Chiesa che sia sempre più vicino a chi soffre. “Ogni generazione vive attese, illusioni e delusioni. Certamente non tutti i desideri e i sogni troveranno realizzazione con il Sinodo”, dice mons. Castellucci. “Ma farsi scettici fin dall’inizio, sicuramente, non serve a nulla.”
Partiamo da una breve biografia per capire chi è mons. Castellucci. Mons. Erio è Arcivescovo Abate di Modena–Nonantola-Vescovo di Carpi; Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana; nonché Consultore della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi e Consultore della Congregazione per il Clero. Nato a Forlì l’8 luglio 1960, ha compiuto gli studi al Pontificio Seminario Regionale Flaminio Benedetto XV di Bologna, conseguendo il Baccalaureato in Teologia nel 198. Ha conseguito il Dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 1988. Ordinato sacerdote il 5 maggio 1984, è stato Responsabile Diocesano della Pastorale giovanile; vicerettore del Seminario minore; preside della Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna; membro del Consiglio presbiterale e pastorale diocesano; assistente diocesano degli Scout AGESCI; vicario episcopale per la cultura, l’Università e scuola, la famiglia, i giovani e le vocazioni; è stato parroco di San Giovanni Apostolo ed Evangelista. È autore di numerose pubblicazioni ed articoli di teologia.
Innanzitutto, grazie per il Suo tempo e complimenti per la nomina a membro del Gruppo di coordinamento nazionale del cammino sinodale. Ci può spiegare che compito ha questo Gruppo di coordinamento nazionale del Cammino sinodale costituito qualche settimana fa?
Il suo compito è di proseguire il servizio svolto finora da una Commissione preparatoria, che avevamo scherzosamente chiamato “Commissione balneare” perché costituita a luglio scorso; si tratta di accompagnare i primi passi del Cammino sinodale italiano, che coincidono con la prima fase del Sinodo universale. L’intreccio fra le due proposte sinodali richiede un’attenzione particolare, per evitare sovrapposizioni e inutili appesantimenti. Di fatto il Gruppo sta incontrando tutti i referenti diocesani, che in Italia sono circa 400 (un paio per diocesi), i quali a loro volta coordinano i referenti sul territorio: parrocchie, associazioni, gruppi.
Come sta vivendo il Cammino sinodale? Cosa sta osservando di nuovo in giro e che potrebbe suscitare un miglioramento della qualità della nostra vita comunitaria nell’ottica della comunione, della partecipazione, della missione?
Sto vivendo il Cammino con realistico entusiasmo, perché vedo alcune cose nuove. Credo che papa Francesco, mettendo in Sinodo tutte le Chiese del mondo, voglia aiutarci a recuperare uno stile più evangelico. Non a caso Gesù operava “camminando con”, cioè appunto sinodalmente. E la metafora del percorso è la più adatta ad esprimere quello che il Signore fa con noi. Credo che sia proprio questo il “miglioramento” qualitativo che ci si può attendere. Non tanto un testo fantastico, e nemmeno un evento ben organizzato, ma uno stile più vicino alle persone. Sarà sicuramente necessario arrivare ad un testo, un documento finale da riconsegnare alle Chiese; e sarà importante organizzare bene degli eventi; ma quello che dovrà e potrà incidere è uno stile di prossimità alla gente. La capillarità della consultazione, che in Italia scandisce questo biennio, esprime proprio il desiderio di vicinanza.
“Dare spazio ai giovani e aiutarli a ritrovare la primavera”. Questo il cuore del messaggio che lei ha rivolto alla città di Modena in occasione della festa del Santo patrono, San Geminiano. Che ruolo ha il cammino sinodale in questa ricerca di una nuova primavera per i giovani? Come fare? Cosa proporre?
Il messaggio vuole essere in realtà un appello agli adulti perché ascoltino i giovani: sono proprio i giovani che ci aiuteranno a ritrovare la primavera. Non so se nel Cammino sinodale riusciremo a coinvolgere i giovani, anche al di là di quei pochi che partecipano attivamente alle attività comunitarie, ma credo che dovremo provarci: non però cominciando dal chiederci come parlare a loro, ma cominciando dall’ascolto di ciò che hanno da dirci. In questi due anni molti ragazzi hanno sofferto profondamente e ad alcuni la pandemia ha rubato la primavera: così ha scritto una ragazza. Perdere due o tre primavere a sedici anni non è come perderle a sessanta o settanta. Le primavere per gli adolescenti sono essenziali, perché hanno bisogno di aprirsi, uscire, stringere relazioni, “debuttare” nella società, fare sport, incontrarsi. Le pesanti limitazioni di questi anni rischiano di provocare lacerazioni profonde: e infatti il cosiddetto disagio adolescenziale è aumentato in modo consistente. Se ora noi adulti riuscissimo, con l’aiuto dei loro coetanei credenti e impegnati, a creare luoghi di ascolto, nei quali possano esprimersi liberamente – con parole, narrazioni, attività, espressioni artistiche o altro – credo che avrebbero molto da dirci e darebbero un contributo importante alla domanda di fondo del Sinodo: la Chiesa sta portando la gioia del Vangelo nel mondo?
Il verbo “ascoltare” è una sorta di mantra del cammino sinodale. Se si sente il Papa o un facilitatore in diocesi, ci viene detto che la comunità si prende tempo per ascoltare veramente le persone. La Chiesa che ascolta diventa Chiesa che apprende, in un certo senso. In base alla sua esperienza, la Chiesa che è in Italia cosa deve essere disposta ad apprendere di più?
Sì, papa Francesco ha impostato sull’ascolto non solo il Sinodo, ma la pastorale della Chiesa, perché è convinto che noi cattolici siamo “in debito di ascolto” nei confronti della società. In effetti nei nostri incontri pastorali, a tutti i livelli, prevale la preoccupazione per l’annuncio: forme, metodi, strategie, linguaggi: tutto giusto. Però rischiamo di dare per scontato che noi credenti, prima di tutti, abbiamo bisogno di essere evangelizzati. Altrimenti trasmettiamo noi stessi e non il Vangelo di Gesù. C’è chi tema che questa insistenza sull’ascolto esprima un adeguamento al mondo e alle sue mentalità sbagliate, come se ascoltare implicasse necessariamente avallare. Tutt’altro: ascoltare significa mettersi in sintonia con le domande autentiche, lasciarsi interrogare e completare, farsi aiutare a mettere a fuoco meglio il proprio pensiero e le proprie azioni. Chi si abitua ad ascoltare davvero gli altri, si abitua anche ad ascoltare davvero il Signore.
Sempre rimanendo in questa dinamica di sviluppo, che passa dall’essere una “organizzazione che propone” ad essere una “organizzazione che apprende”, quale ruolo possono avere le donne? Sono maturi i tempi per rivedere il ruolo ed i compiti della donna all’interno della Chiesa?
Le donne nella Chiesa sono la stragrande maggioranza nelle nostre comunità; se scomparissero, potremmo chiudere le attività catechistiche ed educative, ridurre al lumicino quelle liturgiche, annullare molti servizi caritativi e assistenziali. Il paradosso è che spesso la loro effettiva incidenza sulle decisioni comunitarie è inversamente proporzionale alla loro effettiva presenza. Sarà necessario approfondire le rispettive peculiarità, tra uomini e donne, senza cadere nella facile schematizzazione: agli uomini l’istituzione e alle donne il carisma. Papa Francesco sta inserendo delle donne in alcuni ruoli importanti della curia, e già san Giovanni Paolo II chiedeva che nei seminari vi fossero delle donne con compiti formativi. Sono due ambiti ristretti, ma simbolicamente importanti. Capisco bene che non si tratta semplicemente di parificare i compiti o di riscattare delle posizioni – non è questa la logica ecclesiale – ma si tratta, valorizzando le peculiarità femminili, di impostare un’esperienza di Chiesa più capace di ascolto e di accoglienza, di maternità e di accompagnamento. Una Chiesa-grembo – più importante di una Chiesa-ufficio – nella quale le donne possano offrire tutta la loro sensibilità e competenza.
Cosa si sta facendo per comunicare l’importanza del cammino sinodale a quanti più battezzati possibile? Avete pensato qualche canale di comunicazione speciale con chi non va a Messa, pur sentendosi attratto dal Vangelo? E con chi non ha proprio idea di cosa sia un cammino sinodale?
Le vie per proporre gruppi di incontro e di ascolto sono tante, e molte comunità stanno attivando creatività e fantasia. Personalmente confido molto nelle “case”, pur sapendo che in questo periodo non è ancora possibile avvertire l’ambiente domestico come luogo di accoglienza, a causa delle mascherine e del distanziamento. Ho però una piccola esperienza che mi conforta. A metà degli anni Novanta, nella diocesi di Forlì da cui provengo, il vescovo Zarri indisse un Sinodo costruito proprio con lo stile di quello di oggi: due anni di ascolto della gente e solo alla fine uno “strumento di lavoro” sul quale confrontarsi tra delegati. Ci fu una risposta inattesa: più di 1.300 gruppi, su 126 parrocchie, e circa 17.000 persone complessivamente coinvolte, in buona parte non praticanti. Emersero tante domande, richieste, critiche, suggerimenti, che portarono ad un’impostazione diversa della vita pastorale, pur con tante resistenze. Si moltiplicarono proposte di coinvolgimento, anche attraverso strumenti “non convenzionali” per le nostre comunità cristiane, come sit-in, feste in piazza, spettacoli, dibattiti. E non c’era ancora internet…
Non c’è il rischio di confondersi tra cammino sinodale indetto dal Papa, il cammino sinodale delle Chiese italiane, i cammini sinodali o i “classici” sinodi attualmente in corso nelle Chiese particolari? Quali accorgimenti adottare per coordinare queste diverse espressioni di un unico momento ecclesiale di rinnovamento?
Il gruppo di coordinamento sta monitorando le diverse situazioni, in modo da evitare intrecci troppo pesanti. Intanto la Cei ha scelto, ancora a maggio scorso, di far coincidere questo primo anno del Cammino sinodale italiano con il Sinodo universale. Se il Sinodo fosse un treno, si potrebbe dire che gli italiani – fedeli alla loro fama di “furbi” – in questo primo anno sono saliti su un vagone già preparato: ritmi, domande, proposte, celebrazioni e strumenti sono quelli predisposti dalla Segreteria del Sinodo mondiale. Poi a maggio scenderemo dal treno e, pur continuando ovviamente a collaborare con la Segreteria generale (ci sarà una fase continentale e poi una celebrazione a Roma), trasferiremo il nostro vagone su un altro binario: un secondo anno di ascolto “narrativo”, concentrato su alcune delle priorità che stanno emergendo in questi mesi, poi almeno un anno di discernimento (“fase sapienziale”) su quanto sarà venuto fuori nel biennio e infine una convocazione assembleare, in coincidenza con il Giubileo del 2025, in cui assumere anche decisioni audaci (“fase profetica”), per poi avviare un quinquennio di recezione nelle Chiese. Le diocesi che stanno già celebrando un Sinodo, o lo hanno appena concluso, non devono ovviamente ripartire, ma possono mettere a disposizione esperienze, idee e proposte.
Amici e amiche, che hanno vissuto una giovinezza ecclesiale ricca, piena, sulla scia dell’attuazione del Concilio Vaticano II, mi hanno espresso remore e disillusioni verso il Cammino sinodale perché nulla cambierà: il clericalismo non morirà mai… Cosa possiamo rispondere loro? È vero che stiamo vivendo un periodo di “raffreddamento” nelle relazioni comuni tra battezzati?
Ogni generazione vive attese, illusioni e delusioni. Certamente non tutti i desideri e i sogni troveranno realizzazione con il Sinodo, anche perché sono differenti tra loro e a volte contrastanti. Ripeto che il Cammino non va vissuto mirando solo alla meta, ma assaporando la bellezza del percorso stesso. Se un escursionista percorresse un sentiero puntando solo sull’arrivo al rifugio, e non anche sulla bellezza della via, si perderebbe la parte più densa dell’esperienza stessa. Non so cosa cambierà e se il clericalismo – di preti e laici – morirà mai; spero tuttavia che l’esperienza di ascolto reciproco, non solo tra cattolici e non solo tra battezzati, porti ad una crescita della fraternità: che sarebbe già un bel risultato. Farsi scettici fin dall’inizio, sicuramente, non serve a nulla.
Un mio amico consacrato mi rivolge una domanda che Le porgo: a fronte delle ultime pubblicazioni sulla vita consacrata, quale valore ha la vita consacrata nel cammino sinodale che è in Italia? Solo come supplenza ai parroci? Oppure possiamo intravvedere un valore carismatico aggiunto? Come lo potremmo prospettare?
Concepire la vita consacrata come supplenza dei parroci sarebbe una delle forme più gravi di clericalismo, che a volte affligge anche il ministero dei diaconi permanenti. Ci possono essere, nella Chiesa come dappertutto, momenti e fasi nelle quali uno “supplisce” la mancanza del titolare: avviene anche nella scuola, nello sport o nelle amministrazioni. Ma è un servizio temporaneo, che non può diventare definitivo e sistematico. Se non riusciamo a dare alle espressioni carismatiche un credito loro proprio, senza inserirle necessariamente nell’assetto istituzionale, significa che abbiamo un’’idea di Chiesa più organizzativa che spirituale. E forse è uno dei problemi del cristianesimo occidentale; in Oriente mi sembra che vi sia maggior respiro carismatico.
Io mi sono formato nel Movimento Studenti di Azione cattolica. La peculiarità del Msac è quella di aggregare gli adolescenti in base alla condizione di studenti. Si è sinora trattato di una realtà luminosa, ma liminare, perché la base aggregativa è stata quella delle parrocchie, che negli ultimi decenni sono sempre meno frequentate dagli adolescenti. È possibile che il Cammino sinodale recuperi esperienze marginali come quella del MSAC che avrebbero qualcosa da offrire, visto il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo?
Sicuramente: però ho l’impressione che non debba essere il Cammino sinodale a recuperare esperienze come quella del Msac, ma che debbano essere gli studenti, con l’aiuto di qualche guida, a recuperare una soggettività che si inserisce anche nel Cammino sinodale. Il Sinodo, cioè, non è tanto un’entità che viaggia per forza propria, in grado di attivare automaticamente dei percorsi – qualcosa certo potrà fare – ma è una proposta che vorrebbe mettere in rete tante esperienze, sia personali sia aggregate, e aiutarle a respirare insieme a tutta la Chiesa. Tornerei comunque sull’appello, rivolto agli adulti, per creare luoghi di ascolto dei giovani, studenti compresi.
A cura di Giandiego Carastro