in “Il Fatto quotidiano”, 2 febbraio
di Nicola Tranfaglia
Ci sono, nella storia dell’Italia, problemi che gran parte degli storici e dei mezzi di comunicazione di massa evitano con molta cura di affrontare. Tra di essi, a mio avviso, ha un posto di rilievo una questione che si incontra più volte se si ha a che fare con il Novecento, quello che lo storico inglese Eric Hobsbawm volle definire, nel 1989, il secolo breve. E, se si affrontano in particolare, le vicende che riguardano nello stesso secolo l’Italia meridionale e le isole maggiori della Penisola. Stiamo parlando, per chi non lo avesse ancora capito, dei rapporti che la Chiesa cattolica ha intessuto da molto tempo con le associazioni mafiose. In un saggio apparso presso le edizioni Baldini, Castoldi, Dalai (I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica, pagg. 367, euro 18.50) Isaia Sales ripercorre – sulla base di fonti tratte dalla stampa nazionale e locale, ma anche relative a processi penali – una storia tormentata che gli italiani (o la maggior parte di loro) sembrano aver dimenticato e che pone ancora oggi problemi di difficile soluzione.
Padre Bartolomeo Sorge, che più volte è intervenuto su questioni ardue della politica italiana, disse una volta: “Mi sono chiesto perché questo sia potuto accadere: il silenzio della Chiesa sulla mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo e delle beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni”. E Gian Carlo Caselli, procuratore della Repubblica a Palermo nei primi anni Novanta, dopo le stragi di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, ha di recente aggiunto: “Se Falcone, Borsellino, don Puglisi sono morti è perché lo Stato, la Chiesa, tutti noi non siamo stati ciò che dovevamo essere”.
L’affermazione del magistrato torinese non contrappone la Chiesa cattolica, istituzione di grande rilievo nella società italiana, allo Stato nazionale, ma mette in luce, senza ipocrisia, i problemi che l’esistenza, e addirittura l’espansione delle associazioni mafiose (la ‘ndrangheta calabrese, anzitutto negli ultimi anni, ma anche la mafia siciliana e la camorra campana) ha provocato nel nostro paese.
Gli esempi che Sales nel suo libro riferisce, traendoli da una casistica solo in parte nota alla pubblica opinione, sono molto numerosi e paiono in certi casi addirittura incredibili a chi non si sia mai avvicinato al tema della presenza mafiosa nella nostra vita economica e sociale. Il primo aspetto impressionante è costituito dalla fervida fede cattolica che mostrano di avere alcuni tra i più noti boss delle maggiori associazioni mafiose: nei covi di Bernardo Provenzano, catturato dopo 43 anni di latitanza, di Michele Greco, noto come il “papa” della cupola palermitana, di Pietro Aglieri e di Benedetto Santapaola o ancora di Raffaele Cutolo, re della nuova camorra, o di Momo Piromalli, sono stati ritrovati Bibbie, libri religiosi, immagini di Santi e di madonne, addirittura altari su cui celebrare la messa.
Come si spiega un simile atteggiamento e quale significato ha una vicinanza così grande tra quelle associazioni e la Chiesa meridionale, che pure ha avuto anche frati e sacerdoti che si sono spesi con generosità fino al martirio nella lotta contro le mafie? A un simile interrogativo, nel suo libro, l’autore cerca più volte di rispondere indicando “la lunga sedimentazione degli insegnamenti della Chiesa meridionale sul costume, sulla mentalità, sul senso civico, sui valori privati e pubblici della società meridionale. La Chiesa non ha fatto da argine alle mafie e ai mafiosi sia perché essa è stata parte fondamentale delle classi dirigenti meridionali, condividendone tutti i limiti e le compromissioni in quanto coinvolta pienamente nelle proprietà e nel controllo della terra. E questo sia perché la sua teologia morale ha permesso a degli assassini di sentirsi quasi dei privilegiati, essendo le pecorelle da recuperare e non avendo l’obbligo di legare la propria confessione dei delitti a una espansione sociale, pubblica, riparatrice dei danni provocati al singolo e alla società”.
È una spiegazione quella di Sales che attribuisce alle classi dirigenti italiane, e a quelle meridionali non meno che alle altre, le responsabilità maggiori per un problema storico che nel Ventunesimo secolo, a quanto pare, non siamo ancora riusciti a eliminare (e neppure a circoscrivere) insistendo esclusivamente sulla pur indispensabile repressione e non attivando invece per nulla il pedale fondamentale della lotta culturale e politica contro i metodi delle associazioni mafiose. C’è da sperare che gli italiani ritrovino (come è successo altre volte nella loro storia) l’energia e la forza per rovesciare il processo e liberarsi finalmente di un cancro che rischierebbe persino di distruggere la nostra giovane democrazia.