La crisi attuale del Pd non sembra solo la crisi di un partito. Mi pare non si comprenda la dinamica che si è messa in gioco se si guarda solo al comportamento dei singoli attori e alle loro scelte (o non scelte). Il Pd appare il punto di catalizzazione di una crisi sistemica molto più profonda e generale. Che è l’implosione di un certo modello di transizione della democrazia italiana fuori dalle secche che si erano aperte negli anni Novanta.
L’esaurimento della prima fase della storia repubblicana aveva avuto come punto di evidenza la consunzione del ruolo dei grandi partiti di massa, ideologicamente costruiti e capaci di radicamento sociale forte (senza discutere qui meriti e limiti di quella stagione). È un dato di fatto che a un certo punto quei partiti erano parsi inadeguati a rispondere ai cambiamenti sociali e alle urgenze internazionali, tanto che sono scomparsi o si sono modificati, perdendo presa in modi addirittura subitanei e quasi incomprensibili. Con che cosa li si è sostituiti? Per anni la retorica della riforma politica innovatrice e modernizzante, iniziatasi fin dalla polemica sulle riforme istituzionali o dal movimento referendario sulla legge elettorale, ha puntato sul concetto della «democrazia governante» o «di investitura». Fondamentalmente, su un rapporto più diretto dei cittadini elettori con una proposta politica (incarnata in un programma e in un leader) in grado di essere riconosciuta come plausibile guida del governo. La teoria prevedeva che in una democrazia matura e post-ideologica, questo spazio di competizione elettorale bastasse per legittimare la politica di fronte ai cittadini. Su questa linea molti passi sono stati compiuti in vent’anni. Per citarne uno: non so se vi ricordate le discussioni infinite sulla possibilità di mettere i nomi dei leader delle coalizioni sulla scheda elettorale, che era una evidente forzatura del modello costituzionale di democrazia parlamentare, secondo cui si elegge un parlamento, che darà poi la fiducia al governo. Nel Porcellum, alla fine, si era materializzato il concetto di «capo della coalizione», quindi candidato presidente del Consiglio.
Naturalmente, tutto ciò ha poco per volta eroso lo spazio della rappresentanza e quindi ha ridotto e ridimensionato quello dei partiti, o di qualsiasi altra organizzazione che li sostituisse. La politica tra una campagna elettorale e l’altra tendeva a divenire un ostacolo, oppure una preparazione lunga alla prossima campagna, un affare comunque di élites professionali. È nato il «partito di plastica» di Berlusconi, rapidamente assemblato sulla base dei promotori di Publitalia, e costruito come evidente struttura di mobilitazione elettorale attorno al leader. Sull’altro fronte, si è tentata una più complessa transizione degli eredi del cattolicesimo democratico, del socialismo, del liberalismo progressista, del comunismo ripensato, in quell’esperimento originale che è stato l’Ulivo. Per quello che qui ci interessa, però, va notato che tale progetto ha oscillato a lungo tra la forma dell’alleanza di partiti attorno a un «amministratore delegato» a guidare il governo e la forma di un nuovo partito plurale e programmaticamente definito. Una volta che questa seconda modalità è precipitata tra decennali discussioni e difficoltà fino a costituire il Pd, si sono sempre meglio delineate alcune dinamiche del modello. Si può richiamare qui l’illusione di Veltroni del «partito maggioritario», capace di raccogliere in sé tutto un arco di rappresentanza del centro-sinistra, senza attenzione alla mediazione e alle ricomposizioni di un orizzonte di opinioni e di realtà, che nel paese erano certo più complesse. Anche l’Italia, si teorizzava, poteva ormai essere vicina alla presunta fisiologia del bipartitismo anglosassone. Naturalmente il suicidio di una certa sinistra bertinottiana ci mise del suo, ma il problema non era così risolto: lo sospettavamo, ma lo scopriamo definitivamente ora. Si è poi nel contempo delineata una serie di regole interne che hanno fatto del Pd un partito perfetto per pratiche interne leaderistiche e plebiscitarie (primarie aperte per il segretario – anomalia italiana nel mondo, ancorché giustificata con la foglia di fico che così si eleggeva anche il candidato premier – assemblea pletorica e quindi non certo luogo di discussione politica, spazi per il confronto interno ridotto). Alla fine, quindi il Pd si è adattato al modello del partito «leggero», cioè evanescente, che non esiste realmente sul territorio e che – per dirla con una metafora – prende più voti nei centri cittadini che nelle oscure periferie delle metropoli dove abitano coloro che prima erano l’ovvia base elettorale di un partito di centro-sinistra. Si è per forza professionalizzato e si è reso più élitario.
È in questo orizzonte che il fenomeno Renzi ha contribuito molto a portare a compimento un modello, e nello stesso tempo ha posto le premesse far deflagrare il sistema, evidenziandone paradossalmente per contrasto certi limiti. Indubbiamente lui si è assunto responsabilità non da poco nel radicalizzare certi schemi mentali e certi comportamenti («con me o contro di me», «arrivo io che faccio, mentre prima di me nessun governo è stato capace di fare», «gufi e rosiconi coloro che non mi sostengono»). Il che ha reso indubbiamente problematica la convivenza interna al partito e ha singolarmente polarizzato la pubblica opinione attorno a sé stesso. Possiamo tralasciare qui alcune incoerenze, come l’andare al governo per un colpo di mano partitico e non per quell’investitura elettorale, che a parole aveva sempre detto di cercare. Quello che conta è che con il giovane toscano il modello sembrava compiuto, e anche sulla cresta dell’onda: difficile peraltro sostenere la sua responsabilità esclusiva in questa evoluzione.
Il punto è che il modello «portato a sistema» non ha funzionato su alcuni aspetti non banali. Il primo e fondamentale è che non ha sviluppato energie sufficienti a sanare la crescente divaricazione tra società e classe politica. Anzi, questa incrinatura, già esplosa negli anni Novanta ed enfatizzata dagli elementi di incertezza innescati dalla crisi economica del 2008, è continuata sottotraccia a peggiorare. Certo, in parte perché enfatizzata ad arte dai polemisti contro la «casta» ben incistati in molti settori dell’establishment. Ma soprattutto perché, finite più o meno tutte le grandi identità collettive, la società si è dispersa in un individualismo massificato alla ricerca di una precaria identità, e disponibile a costruirsene di rancorose e arrabbiate. E anche la migliore politica ha colpevolmente sottovalutato questo problema. Fino all’emersione del fenomeno Grillo, che ha sfruttato politicamente questo senso diffuso di radicale disprezzo e lontananza verso la classe politica, che non poteva essere esorcizzato da una periodica mobilitazione elettorale. Il grillismo ha tanti difetti, ma certo per ora ha reinserito in un gioco parlamentare e istituzionale una protesta diffusa che rischiava di tracimare per altre vie. Ha però distrutto il giochino del modello bipolare ed europeo, ragionevole ed edulcorato, del conflitto politico italiano.
Il consolidamento grillino ha anche contribuito a scoprire il bluff che stava sotto la progressiva radicalizzazione delle regole elettorali in senso maggioritario: dal Mattarellum al Porcellum, fino all’Italicum. La Corte costituzionale non ha potuto che evidenziare il limite di questo percorso: non si poteva forzare la rappresentanza oltre un certo limite. Il «tacòn» dell’Italicum era evidentemente peggiore del «buso» aperto dalla sentenza che aveva delegittimato il Porcellum: il ballottaggio che trasformava in maggioranza di governo una forza che poteva anche partire da livelli di consenso piuttosto bassi è stato cancellato. D’altro canto, Renzi ha mostrato di non aver colto i segnali di difficoltà già presenti e ha proceduto con la forzatura sulla riforma costituzionale come riforma «del governo», il che gli ha coalizzato contro molteplici resistenze e opposizioni, fino al redde rationem del 4 dicembre. Invece che rafforzare trionfante la leadership del governo, si è dimesso, dividendo nuovamente il ruolo di segretario del partito da quello di presidente del Consiglio.
Insomma, nel breve volgere di alcuni mesi, sono svaniti alcuni dei capisaldi decisivi del modello della «democrazia governante». Non per scelta alternativa, ma per consunzione interna, quasi per una rivelazione di limiti che erano stati volutamente esorcizzati. E ora ci si trova con legioni di commentatori che assistono attoniti a una sorta di non voluto e inintenzionale «ritorno alla prima repubblica». Con la tregua garantita da Gentiloni, ha preso forza la tesi che forse sarebbe bene tener distinti la responsabilità del governo da quella dei partiti. Si è diffusa la convinzione che ormai ci si dovrà attenere a una legge elettorale a prevalente base proporzionale. E infine, last but not least, si è rilanciato un pluralismo politico-partitico che si accentua invece che ridursi. La scissione del Pd sarà maturata alla fine in un modo piuttosto politicista e poco comunicabile, sarà stata prodotta da un personale politico che ha le sue colpe nel trascinare con sé modelli di vecchia politica, ma ha a mio parere le sue buone ragioni nell’intuizione embrionale che nel nuovo orizzonte occorre costruire qualcosa che sia capace di allargare l’offerta politica, per interpretare pezzi di paese che rischiano di essere allontanati dalle istituzioni.
Naturalmente, ci sono tutte premesse di un possibile impasse politico-istituzionale. Soprattutto perché al momento tali processi sembrano ancora vissuti in modo piuttosto passivo da gran parte dei protagonisti, e quindi si enfatizza l’aspetto della crisi del vecchio modello. Troppo rapidi, gli eventi non hanno ancora prodotto la capacità politico-culturale di essere reinterpretati e rilanciati in una sintesi credibile che guardi al futuro. Ma potrebbero anche essere ormai apparsi gli elementi per un ripensamento profondo della politica, che guardi di più alla sua capacità di interpretare, accompagnare, sostenere una società fragile e spezzettata, costruendo le ragioni dello stare insieme attraverso opera di convincimento e paziente costruzione del consenso più che non a colpi di leader telegenici. Facendo i conti insomma con la delicata questione dell’«identità», pericolosissima ma anche ineludibile. Aiutando a costruire dei «noi»: plurali, dialogici, aperti e meticci quanto si voglia, ma comunque dei «noi». Opponendosi quindi ai profeti dello scontro e ai populismi antieuropei e portati al conflitto di civiltà, con una capillare opera di ricostruzione dell’esperienza «orizzontale» del convivere democratico tra diversi. Chissà se scopriremo le risorse e le energie per provarci!
Guido Formigoni
15 Marzo 2017 at 10:34
Analisi assolutamente condivisibile. Solo mancante nella ricostruzione: l’esperienza politica renziana è successiva all’esito delle elezioni del 2013 che hanno sancito il fallimento del sistema bipolare. Dunque si è trattato di una risposta adattiva ad una realtà fattuale. La stessa riforma costituzionale deriva in effetti dal fallimento politico decretato da quelle elezioni. Questa chiave sposta l’ordine è il significato della catena causa-effetto.