di Enzo Balboni
Esattamente 20 anni fa, il 25 Marzo 2004, il Senato aveva approvato in prima lettura una radicale riforma della Seconda parte della Costituzione, targata Berlusconi, che su 85 articoli proponeva la riscrittura o l’emendamento di ben 43, cioè della maggioranza assoluta.
Sono tra i 63 costituzionalisti che pubblicarono con ASTRID un volume contenente un parere scientifico, articolato e svolto in ben 680 pagine intitolato: Costituzione, una riforma sbagliata. Il più illustre tra noi, Leopoldo Elia, coniò in quella circostanza la felice formula riassuntiva del «premierato assoluto», mentre intitolò il suo saggio: Una forma di governo unica al mondo. Tornerò su Elia al termine del mio intervento.
La odierna riforma Meloni è più furba, più insidiosa e altrettanto pericolosa. Più astuta perché, chirurgicamente, interviene solo su quattro o 5 articoli, ma è come se a un paziente portassimo via metà polmone, metà fegato e un rene. Può sperare di sopravvivere, ma sarebbe ancora, fuor di metafora, una forma di governo democratica vitale?
L’elezione diretta del Capo del governo è un unicum al mondo, perché solo Israele l’ha sperimentata per un biennio. Poi l’ha ripudiata perché non in grado di dare risultati utili e convincenti; anzi, essa era meno dura dell’attuale nostra, perché fornita di minori autonomismi per lo scioglimento della Knesset e perché manteneva il metodo elettorale proporzionale. Un serio politologo ha voluto ringraziare Israele di avere fatto l’esperimento così da consentire a tutti gli altri di non ricadere nello stesso errore.
Vado subito al cuore della proposta. Il corpo elettorale è chiamato a votare contemporaneamente, nella stessa scheda, il premier e la sua maggioranza di governo. I parlamentari si pongono così a rimorchio del Premier che potrà sempre affermare che sono stati eletti per suo merito e si pongono pertanto al suo seguito. No question, allora, se la sfiducia votata contro di lui/lei trascina con sé lo scioglimento delle Camere e nuove elezioni: è il famoso simul stabunt aut simul cadent.
La riforma proposta è più insidiosa, perché viene veicolata con lo slogan: «Volete essere voi cittadini-elettori a scegliere chi vi governerà o preferite delegare questa decisione vitale ad altri soggetti lontani e inaffidabili quali sono i partiti politici?» Come si vede l’idea della democrazia decidente ne ha fatti di chilometri: dalla teoria della democrazia governante passando alla proposta spiazzante del Sindaco d’Italia firmata Mario Segni, Pera e Renzi. Finora, almeno, si è avuto il pudore di non coinvolgere nel sabba sloganistico la formula sintetica coniata da Roberto Ruffilli, ma con tutt’altri intenti, del «cittadino come arbitro». Con il che siamo già dentro il circuito culturale e propagandistico del Plebiscito, quando il quesito sottoposto agli elettori viene dall’alto, essendo bandite tutte le mediazioni considerate superflue e distorcenti: Napoleone III, dicembre 1851, insegna.
È evidente che nella nostra attuale forma di governo, la vittoria di questa brutale semplificazione del circuito della decisione farebbe una vittima: il Presidente della Repubblica. Questi, continuando ad essere scelto dal Parlamento in seduta comune con la presenza dei delegati regionali, dunque con una elezione indiretta rispetto a quella immediata del corpo elettorale, verrebbe ad avere fatalmente una legittimità politica nettamente inferiore a quella del Primo ministro. Infatti, non l’avrebbe scelto e nominato lui, bensì il popolo, sulla base del risultato elettorale, ma è a lui o a lei che il Presidente della Repubblica, come Capo dello Stato, porrebbe sulle spalle il manto del potere, come avveniva all’alba dell’Alto Medioevo ai tempi di papa Gregorio e dell’imperatore Enrico IV. Per questa ragione, nelle prime nelle righe della relazione di accompagnamento del disegno di legge n. 915 si chiarisce, con ribalda sincerità, che si tratta di una «democrazia di investitura».
Insisto su questo punto perché è quello centrale. Nel caso in cui la riforma presentata andasse in porto il Capo del partito, o meglio della coalizione vincente le elezioni, avendo avuto fra l’altro una legge elettorale favorevole che gli/le assicurava la maggioranza assoluta dei seggi [Nella prima versione è stata ipotizzato di scriverlo addirittura in Costituzione – e anche questo sarebbe un unicum – cioè la garanzia del 55% dei seggi]. In tal caso l’intero Parlamento andrebbe al traino del Premier, sapendo che un voto di sfiducia che fosse approvato porterebbe inevitabilmente, in via automatica, al suo scioglimento e a una nuova tornata elettorale.
Con quello che ho già detto avete capito che la revisione è pericolosa, sia per la democrazia considerata in senso formale, avendo riguardo a un sistema parlamentare e pluralista, sia per la democrazia in senso sostanziale, viste le relazioni ineludibili e necessarie tra la Seconda e la Prima parte della Costituzione: tra la sezione nella quale viene organizzato il potere e distribuito tra i diversi organi costituzionali e quella che designa i principi, i valori e determina i programmi e i compiti della Repubblica, della pubblica amministrazione e del sistema delle autonomie.
Secondo punto: questa revisione è congiunturale, tesa a carpire l’utile sfruttando il momento politico favorevole, che può essere fuggente. Più ancora dei precedenti tentativi targati Berlusconi (20026) e Renzi (2014), non senza qualche responsabilità della riforma del Titolo quinto del 2001 approvata dal Centro-sinistra con una sorta di forzatura parlamentare e a strettissima maggioranza. Come quelle precedenti anche questa ipotesi di riforma è vistosamente opportunistica, collegata com’è all’attuale contingenza politica, ai rapporti tra le forze come si presentano ai rispettivi elettori. Per di più la congiuntura attuale è evidentemente spartitoria. In effetti, i tre partiti della maggioranza si scambiano i rispettivi e interessi e così si sostengono a vicenda.
Fratelli d’Italia ha in mente soprattutto questa riforma, che è stata efficacemente chiamata “capo-crazia”. La Lega porta avanti un disegno di autonomia differenziata, che si presenta in una versione penalizzante per le politiche sociali nel Sud: penso particolarmente alla tutela della salute e alla scuola-istruzione. Forza Italia, a sua volta, vuole una certa riforma della giustizia, con un più basso livello di autonomia e indipendenza della magistratura e punta alla separazione tra i procuratori inquirenti e la magistratura giudicante; ancora: l’obbligo di attivare l’azione penale verrebbe rivisto e graduato, mentre sulla modalità di svolgimento dei processi e sulle prescrizioni si finirebbe per andare a favore dei colletti bianchi, eccetera.
Tutto il contrario dello spirito e della pratica che all’Assemblea costituente i partiti di allora, che esistevano anche come forze culturali e sociali, avevano discusso nei loro programmi ed esibito nei loro comportamenti, così da arrivare ad un compromesso costituzionale, nel senso nobile di «cum promittere»: di fare promesse insieme, di adottare il metodo della mediazione e della negoziazione senza inutili forzature, mettendo a fattor comune ciò che li univa.
A tale proposito vi ripropongo sul nostro argomento odierno l’interpretazione di un grande costituente: Giuseppe Dossetti, che ritornò sulla scena politica nel 1994 proprio per contrastare i tentati di revisionare la Costituzione forzandone il metodo e i contenuti. In quella occasione affermò che la distribuzione del potere fra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati è «uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione italiana […]; ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile» [G. Dossetti, Discorso di Monteveglio, 16 settembre 1994 in I valori della Costituzione, a cura di F. Monaco, ed. San Lorenzo, p. 76].
II parte
Si è ripetuto in questi ultimi tempi che la proposta Meloni si porrebbe in un punto di mediazione tra eccessi del parlamentarismo e governabilità, ma essa risulta invece più estremista rispetto a quella del Presidenzialismo elettivo americano, perché ivi è rispettata rigorosamente la separazione dei poteri [Lo si vede attualmente, ogni giorno, dalla difficoltà che ha il Presidente Biden a far approvare dal Congresso – che alla Camera dei Rappresentanti ha una sia pur piccola maggioranza repubblicana – gli aiuti in armi all’Ucraina].
Infatti «il ddl. in esame si colloca al di fuori dei canoni ordinari che il costituzionalismo contemporaneo ha individuato come essenziali per la garanzia di democraticità del sistema e dei principi dello Stato di diritto» (ASTRID, Paper n. 93, Costituzione quale riforma? La proposta del Governo e la possibile alternativa, Passagli, ed. 2024).
Lo aveva espresso con icastica arguzia fiorentina il politologo prof. Sartori quando, scrivendo di Ingegneria costituzionale comparata, aveva sentenziato: «L’inserimento in un sistema parlamentare di un premier non rimuovibile eletto direttamente, è come mettere una pietra in un motore» [op. cit. VI ed. 2013, p. 131].
Detto ciò bastano adesso poche osservazioni sul tentativo della ultravolontaristica mediazione portata avanti da Libertà Eguale (Morando, Tonini e Ceccanti) e dalla Fondazione Magna Carta (Calderisi, Quagliariello e altri) che mira ad ottenere un testo condiviso, in quanto approvato dai 2/3 dei parlamentari, così da evitare il referendum costituzionale.
Su di esso, però, non tanto sul tentativo ma sulle premesse di queste avances, si è resa protagonista anche la ministra Casellati, che è andata al recente Seminario dove si discuteva sul da farsi, per ribadire che «dopo avere fatto tante concessioni all’altra parte [supposte concessioni dico io] resta però un punto ineludibile e non negoziabile, cioè l’elezione diretta del premier».
Ebbene se le cose stanno così, se il cuore della madre di tutte le riforme sta nell’elezione diretta della signora Meloni, allora il tavolo del negoziato non si apre neppure. Invece, se venisse rimossa questa pregiudiziale, si potrebbe intervenire a latere con poche modifiche mirate della Costituzione, che peraltro potrebbero essere veramente in numero minimo, anche perché gli elementi prevalenti sono senz’altro quelli di modifiche dell’assetto istituzionale con leggi ordinarie, a costituzione invariata.
Ma, insieme a ciò, si dovrebbe fare ben altro, mi riferisco a una profonda riscrittura della legge elettorale, vigente – il c.d. Rosatellum – così da eliminare tante storture presenti in questo momento: dalle liste bloccate alle pluricandidature. Penso all’opzione possibile per un maggioritario a doppio turno oppure per un proporzionale corretto, così da ottenere quanto è indispensabile per la governabilità, ma non di più, non eccessivamente su questo piano. A tale proposito sia la legge elettorale tedesca e la connessa sfiducia costruttiva, sia la legge elettorale spagnola potrebbero andare bene per il nostro caso.
Si tratterebbe poi di intervenire, finalmente, con una legge sui partiti politici, di attuazione dell’articolo 49 Costituzione, compresa la loro democratizzazione interna ed incluso il finanziamento pubblico, possibilmente contribuendo alle loro spese di funzionamento. Sarebbe un sostegno, neppure troppo indiretto, alla vita democratica.
Si potrebbe, anzi si dovrebbe intervenire e si deve intervenire sul bicameralismo perfetto e paritario, non nel modo incerto e confusionario del progetto Renzi, ma in altro e diverso e modo, tenuto conto anche di una necessaria rivitalizzazione delle autonomie regionali e locali e di una effettiva crescita dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, ridando slancio anche al Terzo Settore e al protagonismo dei corpi sociali intermedi.
Si dovrebbe intervenire sui Regolamenti parlamentari, sullo statuto di garanzia per l’Opposizione, così come sulla disciplina dei decreti legge, maxi emendamenti e quant’altro. Ecco tutto questo si può fare con la legislazione ordinaria senza toccare la Costituzione e ricavando un beneficio di democraticità e di efficienza delle nostre istituzioni.
Da ultimo voglio terminare con due citazioni. La prima di Leopoldo Elia, nel testo prima citato, che dice così: «La nostra forma di governo può certo essere razionalizzata, ma non pervertita passando dalla delega ai vertici dei partiti, quale purtroppo c’è oggi, a quella illimitata ad un uomo o/a una donna soli; al contrario è necessario che la politica non sia sospesa, ma continui e perché con essa nessuno possa sottrarsi al principio di responsabilità» [Costituzione, una riforma sbagliata, cit., p. 367].
Da ultimo termino davvero con alcune riflessioni di una personalità importante, il cui nome vi dirò alla fine, e questo riguarda anche il punto toccato precedentemente del tentativo in corso di migliorare il testo e di addolcirlo in una seconda lettura. Ci ammonisce così questa autorità: «Alcuni esponenti della maggioranza parlamentare hanno affermato che il testo in via di approvazione verrà corretto o almeno migliorato, ma si tratta di un testo non migliorabile, che neppure si può correggere salvo una completa riscrittura estremamente difficile. I caratteri di fondo, il DNA, di questo testo sono identificabili in questi punti: un sistema di governo impraticabile, con forti rischi di paralisi istituzionale; un Primo ministro über alles; un significativo affievolimento del ruolo di arbitraggio del Presidente della Repubblica. Si tratta di caratteri che rendono il testo irrecuperabile, salvo a cancellare ogni cosa e a scriverlo daccapo, per intero.
Arrivo alla conclusione e che è questa: il testo così come oggi è, non è suscettibile di miglioramento. Si tratta di un testo il cui impianto è assolutamente da respingere. Va pertanto accolto il suggerimento di Leopoldo Elia volto a rappresentare alla pubblica opinione la gravità delle conseguenze di approvazione di questo testo. Non si tratta di un intento strumentale, perché realmente disastrosi sarebbero gli effetti di queste dissennate modifiche della Costituzione».
Adesso avrete la curiosità di sapere chi ha scritto parole così chiare e nette, tali da essere intitolate “Un testo dissennato e irrecuperabile”. L’autore che è stato da me fedelmente riportato si chiama Sergio Mattarella, (op. cit., pp. 213-215).
Concluderei dunque così: è opportuno – equum et salutare – restare nell’alveo della forma di governo parlamentare opportunamente razionalizzata e fondata sull’equilibrio tra i poteri, facendo tesoro delle migliori esperienze parlamentari dei Paesi europei, che non prevedono né l’elezione popolare né l’indicazione obbligatoria del Primo ministro.
Enzo Balboni
Milano, 23 maggio 2024
9 Aprile 2024 at 18:45
Aggiungerei una considerazione: la nostra vita politica tende fortemente alla divisione radicale fra le parti, ad una conflittualità sistematica senza possibilità di dialogo costruttivo fra le parti, senza possibilità di ragionevole compromesso e l’autorevole figura del Presidente della Repubblica, super partes, diventa indispensabile per garantire una sana vita democratica, per superare situazioni di crisi e di impasse.nella politica. Questa figura, anche se salvaguardata nella forma, sarebbe fortemente indebolita nella sostanza.