Reduce, senza rimpianti e ripensamenti, dei banchetti fatti per strada e delle firme raccolte in occasione del precedente referendum costituzionale sulla c.d. “devolution” , confesso che l’attuale dibattito su Senato sì, Senato no, svolta autoritaria sì, svolta autoritaria no, Renzi sì, Renzi no, ecc. mi ha creato uno stato di disagio misto ad insofferenza. Mi sono messo nei panni di un comune cittadino, a cui però gli arzigogoli procedurali e i distinguo in punto di diritto costituzionale, di sbarramenti, di collegi ridotti, di parlamentarismo razionalizzato, ecc., hanno suggerito ben poco: la retorica sui referendum come pratica solenne della democrazia diretta ha sempre fatto leva proprio sull’ignoranza dei quesiti da parte dell’elettore!
Ma andiamo a noi. Il fatto che Rodotà, Zagrebelsky, Spinelli, De Monticeli, Gallino, Urbinati ecc. (tutti studiosi rispettabili e indubitabili democratici) abbiano firmato un Manifesto contro il monocameralismo, e contro lo “stravolgimento della Costituzione” di dossettiana memoria, mi ha spinto a pensare che tutto il can can polemico che ne è seguito non abbia colto nel segno. E non ha avuto, agli effetti del futuro assetto democratico del nostro Paese e soprattutto della sua crescita economica, nessun significato. Rodotà era inizialmente favorevole, e assieme ai firmatari vede ora una deriva autoritaria? E vabbè, avrà i suoi buoni motivi. Che bisognerebbe però smontare con delle contro tesi. Argomentate e comprensibili. Anch’io ho intravisto leggendo il loro Manifesto alcune asserzioni apodittiche e molta autoreferenzialità. Ma sono state le risposte date dai difensori della Riforma, quando si sono aggrappati al costituzionalismo comparato, che hanno fatto riemergere un mio antico dubbio. La Spagna, l’Inghilterra,la Germania, la Francia, il Portogallo? In alcuni di questi paesi il monocameralismo funziona e i poteri sono meno dispersi, si risponde. E allora? Rimango nella convinzione che sino a quando non ci sarà una perfetta sintonia sul significato e sulla pratica della democrazia in Europa (e nel mondo), sino a quando non si raggiungeranno eguali livelli di sviluppo economico e di speranze sul futuro dei giovani, e sino a quando non si smonteranno i nazionalismi antieuropeisti con la loro esaltazione della piccola patria, del suolo, dell’acqua, del sangue, della superiorità culturale, ecc., fare confronti sulle regole fondamentali di uno Stato serva a ben poco. In attesa dell’Europa politica soprassedere sui contesti culturali, antropologici e storici può creare, a mio avviso, solo errori di valutazione. Il che non significa non tenere conto delle esperienze altrui, ma significa più semplicemente fare lo sforzo di comprendere le esperienze storiche proprie, la propria realtà, le proprie tradizioni, la propria cultura, i propri comportamenti, con un occhio naturalmente sempre rivolto all’Europa Unita che rimane l’obiettivo nostro, dei nostri figli e dei nostri nipoti. Fernand Braudel ha speso una vita cercando di convincerci che i popoli del Mediterraneo avessero delle cose in comune! Ed io da meridionale europeista persuaso ci avevo creduto. Ma visti poi gli esiti delle primavere arabe, mi sono reso conto che le “…onde lunghe” devono ancora arrivare.
Benché la cultura politica riformista – nella quale credo di riconoscermi – abbia fatto molti passi avanti, osservo allora che i nodi rimangono nodi. E che immergersi nella sterile polemica Senato sì, Senato no, autoritarismo sì autoritarismo no, ecc. ci distragga dai veri problemi sul tappeto. Alcune veloci constatazioni che non pretendono di essere originali: la crisi dello Stato nazionale con la conseguente (e pericolosa) confusione tra statalismo e Stato, e tra assistenzialismo e assistenza; la bergogliana povertà crescente con l’eclissi del ceto medio e della borghesia riflessiva; la crisi dei corpi intermedi e la scomparsa del Partito politico, ovvero la sua irrilevanza identitaria; le ipotesi sulla democrazia del pubblico e di quella 2.0, a cui è da aggiungere La democrazia dei referendum, e le suggestioni della post democrazia dei poteri economici; il rifiuto del voto e l’antipolitica; l’avvento del leader carismatico e del bravo comunicatore; la tecnologizzazione della politica e della stessa democrazia politica attraverso il ruolo sempre più preponderante delle telecomunicazioni (Radio, Tv, Internet). A cui è da aggiungere per il nostro contesto l’ideologia giovanilista o della “rottamazione” (altra cosa dal ricambio generazionale): …tutto ciò che è giovane è bello; l’ideologia della Società civile: …tutto ciò che è società civile è bello; e naturalmente l’ideologia esterofila:… tutto ciò che non è italiano è bello… E mi fermo qui senza toccare i macigni della globalizzazione e del ruolo crescente del capitalismo finanziario deregolamentato – unico potere invisibile che fa saltare il principio della sussidiarietà e della poliarchia – e il dibattito sulla crescita/decrescita avviato su questo sito da Vittorio Sammarco.
Ma perché ho fatto questa lista peraltro incompleta? Perché se una certa opinione pubblica e una certa classe politica sono convinti che questi enormi problemi si possano risolvere con un sovrappiù di governabilità e di decisionismo centralizzato; se ci si illude che la sola Riforma del Senato, delle Province e del Titolo V, abbandonando il Parlamento rivisitato al suo destino e tacendo sui nuovi equilibri dei poteri costituzionali, possa essere la strada vincente; se sembra che le sfide sopraccennate si possano estinguere con maggiori poteri dell’Esecutivo e del suo Capo (premierato forte, cancellierato forte, semipresidenzialismo ecc), e con l’efficienza supersonica governativa tutta giocata sul nuovo mantra del “Parlamento troppo lento” come se stessimo ogni giorno di fronte a una guerra, a un terremoto, a una invasione di Ufo, all’arrivo di un meteorite, guerre stellari, epidemie, evacuazioni, ecc, ebbene se sembra che queste siano le risposte, e si pensa che basti eleggere con le primarie un capo partito, futuro premier o futuro presidente, allora è molto probabile che ne pagheremo serie conseguenze. Le riforme occorrono e le semplificazioni delle procedure anche. Ma trasferire le virtù prepolitiche della pazienza, dell’incontro e confronto, del dialogo con le ragioni dell’altro, della capacità di ascolto, della collegialità fruttuosa, del gioco di squadra, della tolleranza, alla loro dimensione squisitamente politica non è un peccato.
Nino Labate
P.s. Queste stesse considerazioni le ho svolte in questi giorni, rispondendo a un Post di Armillei e a uno di Ceccanti sul sito Landino.