Mai come in questo momento, la nuova offerta politica si muove nella prospettiva di voler conquistare l’elettore moderato, che tradizionalmente è un elettore di centro. Dopo il partito di Renzi e quello di Calenda, va in questa direzione anche l’iniziativa politica – di esplicita ispirazione cattolica – che muove dal cosiddetto Manifesto dei cinquecento, ispirato tra gli altri, da Zamagni e Becchetti, entrambi espressione di quella corrente del pensiero economico nota come “economia civile” che, coniugando l’umanesimo con il mercato, scorge nella comunità l’altro soggetto generatore di relazioni economiche.
La corsa al centro non è nuova. Ciclicamente, specialmente nelle fasi di maggiore personalizzazione della politica come è quella attuale, riemerge il mantra della conquista del centro. Ma cosa è il centro in politica? Si è sempre definito il centro lungo l’asse destra–sinistra, quale spazio equidistante sia dalla destra che dalla sinistra. In Italia questo spazio si è sempre identificato con la DC, anche se da De Gasperi a da Moro il centro non è mai stato considerato come idea statica, immobile nella sua fissità, ma come idea in continuo movimento: un centro che ha voluto sempre guardare verso le istanze della sinistra. Il centro pensato dalla parte più idealista della DC alludeva ad un modo d’essere della politica fatto di educazione e rispetto per tutti e non di odio o di risentimento; di ragionamento e non di semplificazioni o di slogan. Un modo d’essere della politica che assumeva la moderazione come categoria morale e non tanto come cifra timida delle soluzioni ai problemi della comunità, e che assumeva la mediazione come metodo per la composizione degli interessi in gioco, nella prospettiva della ricerca del bene comune. In definitiva, il modo d’essere di una politica popolare e non populista, attento a tener conto dei sentimenti della maggioranza, ma con la capacità di ascoltarli, leggerli ed interpretarli e non di farsi guidare, e al tempo stesso attento a preservare l’importante funzione pedagogica all’esercizio della responsabilità politica.
Un grande storico della DC, Gianni Baget Bozzo, ha osservato che questa mediazione, soprattutto nella versione che ne diede Moro, è stata possibile grazie alla assunzione di un punto di vista circolare: in quest’ottica, la politica esercita il suo dovere collocandosi non in un centro definito lungo l’asse destra-sinistra ma assumendo una posizione centrale rispetto ad un cerchio. Il rapporto tra i punti della circonferenza e quello centrale è ciò che Baget Bozzo vede in termini dinamici, come mediazione. Tenere unito il molteplice, rallentare, accelerare, comporre: questo è il dovere di una politica, più che centrista, centrale. Un dovere dal quale traspare una spiritualità in grado di discernere – secondo il ritmo dell’Ecclesiaste – un tempo per accelerare, un tempo per rallentare, un tempo per comporre.
Dopo la caduta del muro di Berlino, l’asse destra-sinistra, nei suoi termini tradizionali, non ha più alcun significato. Sostenere che il centro più che geometria sia un’identità, quasi un’ideologia, significa correre il rischio di continuare a considerarlo un luogo fisso, immobile. Significa, paradossalmente, ammettere che il centro continui a definirsi in rapporto ad una destra e ad una sinistra, anziché riconoscerlo come un punto di vista “mobile”.
Se il centro allora non esiste “in natura” ma si modella grazie alle domande che la maggioranza dei cittadini esprime in un tempo determinato, il dovere della politica, e specialmente di una politica democratica che fa della persona e delle sue domande il perno della propria strategia, è quello di ascoltare quelle domande e se necessario conciliarle con i valori democratici. L’esercizio di questo dovere rende una forza politica democratica forza centrale. E il Pd, se vuole essere tale, cioè una forza non di centro in senso tradizionale ma centrale, dovrebbe finalmente liberarsi una volta per tutte dai sempre rinascenti rigurgiti tipici di una sinistra retrograda, come sta accadendo in questa fase, che le impediscono di essere forza popolare.
In quest’ottica dovrebbe essere affrontata anche la cosiddetta questione cattolica, ritornata di attualità.
Se il centro non è dato una volta per tutte, se non esiste in natura come spazio fisso ma prende consistenza in forme e in contenuti mutevoli, pretendere di rappresentarlo – come esplicitamente vorrebbero i cattolici del Manifesto Zamagni – è l’ennesimo tentativo di piegare la realtà ai propri desideri e come tale destinato a fallire. Per non dire, poi, che riaffermare in ambito politico l’autonomia dei laici credenti dalle posizioni della gerarchia, dopo la lunga stagione clericale imposta dal cardinale Ruini, significa fare i conti anche con il grado di consapevolezza politica del laicato impegnato e dei cattolici anonimi praticanti che non è direttamente proporzionale al grado di maturità della fede.
Se la questione cattolica non fosse anche e soprattutto una questione religiosa non si capirebbero le parole pronunciate dal Papa a Firenze nel 2015. Francesco dice soprattutto due cose: “Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio.” Cioè, dice il Papa, liberatevi da ogni sovrastruttura che ha trasformato la fede in ideologia e riscoprite l’essenziale, il kerigma declinato in due passaggi del Vangelo: il discorso delle beatitudini e le parole del giudizio finale (…avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere …). Una volta tornati all’essenziale della fede, gli abiti virtuosi che ne derivano devono essere spesi nella storia, nella politica grazie al dialogo e “il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà…. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo….. Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.”
La vera sfida oggi, per i cattolici non è quella di “occupare uno spazio” ma, vincendo la nostalgia di un partito di ispirazione cristiana, “promuovere processi” innovativi, investendo la propria cultura personalista nella più ampia piazza democratica.
Luigi Lochi