Lo scorso 15 dicembre si è tenuta a Roma l’assemblea programmatica di “Economia democratica”, un’associazione nata nel maggio di quest’anno per iniziativa di Raniero La Valle, con la collaborazione di alcuni amici, economisti e giuristi soprattutto, ma non solo. Ne abbiamo parlato qui sul portale. L’assemblea tenuta a Roma ha voluto essere un rilancio dell’iniziativa, con l’obiettivo di “promuovere un movimento che operi per riportare l’economia, sia pubblica che privata, a coordinarsi con i diritti fondamentali e i valori etici della democrazia e della Costituzione e per creare le premesse politiche e culturali per un’economia di liberazione” (così nell‘invito).
L’assemblea – il cui titolo poneva un interrogativo provocatorio “Solo un banchiere ci salverà?” – ha fatto registrare molte assenze (Lorenza Carlassare, Umberto Romagnoli, Rossana Rossanda…), ma è stata ricca nei contenuti. L’ha guidata, con grande garbo, Luigi Ferrajoli, che la rivista “Il Mulino”, che lo ha intervistato di recente, considera “forse oggi il maggiore teorico del diritto italiano” (Intervista a Luigi Ferrajoli, Il Mulino, n.3, 2011). Dopo aver fatto il magistrato e aver contribuito a fondare Magistratura democratica, è stato professore di Filosofia del diritto, prima a Camerino e poi a Roma Tre. E’ autore di importanti teorie del garantismo penale e della democrazia costituzionale. Dunque, la persona giusta per l’impresa che Raniero La Valle vorrebbe portare avanti. Ferrajoli ha aperto l’assemblea dicendo che per perseguire gli obiettivi di un’economia democratica bisogna fare incontrare giuristi ed economisti, gli uni affetti da analfabetismo economico e gli altri da analfabetismo giuridico. E questo è stato proprio il tentativo che si è fatto nell’assemblea romana di via dei Frentani.
Due le relazioni su cui ha poggiato l’assemblea: quella dell’economista Roberto Schiattarella, dell’Università di Camerino, sulla crisi economico-finanziaria, e quella dello stesso Ferrajoli sulla crisi della democrazia soprattutto per i suoi rapporti con la democrazia. Una terza relazione, di Nino Galloni, economista, funzionario ministeriale (figlio di Giovanni Galloni, uno dei padri della sinistra democristiana), è apparsa piuttosto tecnica e disorientante e non è stata ripresa nel corso dei lavori.
Roberto Schiattarella ha sostenuto che gli economisti di sinistra hanno ormai consolidato la propria analisi sulla crisi, come crisi di sistema, ma non si riesce a promuovere una cultura in grado di offrire una nuova interpretazione dello sviluppo umano. Il punto, secondo l’economista di Camerino, è che non si può più porsi la crescita del Pil come obiettivo di sviluppo, a cui magari aggiungere altri indicatori, più sociali. Il Pil è l’indicatore coerente e conseguente di un intero percorso, che nasce dall’utilitarismo. Per uscire dalla crisi di sistema bisogna “rifare il percorso”, cioè fare un altro percorso, che non parta dalla logica utilitarista e dunque che non abbia la crescita del Pil come obiettivo e il livello del Pil come indicatore dello sviluppo. Un percorso che metta i valori umani ed etici direttamente nell’impianto base dell’economia. Schiattarella ha posto, in sostanza, una questione antropologica, di una diversa idea delle relazioni umane. E, in questa direzione, ha indicato, come punti da cui provare a ripartire, autori come Sen e la Nussbaum, e – venendo a noi – la Costituzione italiana.
Ferrajoli ha centrato il suo intervento, per spiegare la crisi della democrazia, sul ribaltamento che si è andato compiendo nei rapporti tra politica e economia. La politica è diventata subalterna all’economia. Di fatto il mercato si autoregola, e ad avvantaggiarsene sono i più forti. La politica è rimasta a svolgere una funzione parassitaria. Con l’aggravante che, consentendo che a finanziare la politica ci siano anche i privati, si finisce per mandare in Parlamento i finanziatori stessi, o meglio i loro interessi. Eppure, lo Stato moderno, dice Ferrajoli, è nato proprio per sovraordinare l’economia, per imporle regole, limiti e controlli. Tutte le costituzioni moderne, e in prima linea quella italiana, hanno delineato un modello di Stato dirigista, capace cioè di assolvere questo ruolo nei confronti dell’economia. Dice l’art 41, terzo comma: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Poi però, dice ancora Ferrajoli, l’Unione europea, nei suoi trattati e regolamenti, ha disegnato un modello del tutto diverso, addirittura opposto, che vieta in sostanza allo Stato di esercitare la sua funzione di intervento nei confronti dell’economia. Con la legge costituzionale n. 3 del 2001,che ha riformato il Titolo V della Costituzione, il Parlamento italiano ha riformato anche il primo comma dell’art. 117, che da allora dispone che la potestà legislativa, sia statale sia regionale, debba essere esercitata nel rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Il risultato è che oggi i nostri governi rispondono più ai mercati che ai parlamenti. La politica si è trasformata in tecnocrazia, e la tecnocrazia – come Norberto Bobbio ha insegnato – è antitetica alla democrazia. Quello che Ferrajoli vede compiersi è il collasso dei poteri politici e un processo de-costituente, di fuoriuscita dalla Costituzione: cioè una politica sempre più antisociale e una progressiva riduzione dei diritti fondamentali. Paradigmatico, da questo punto di vista, è il nuovo art. 81 della Costituzione, che prescrive il pareggio di bilancio (anche se in realtà si parla di “equilibrio” e la procedura prevista per la sua attuazione è assai lunga e comlpessa e ancora non è stata avviata). I vincoli di bilancio sono infatti in contraddizione con i diritti da garantire. Ferrajoli porta l’esempio positivo del Brasile dove da qualche anno si è seguita una logica opposta: si sono posti i vincoli di una determinata spesa sociale per l’istruzione, la sanità, i sussidi al reddito. Si dovrebbe imparare dal Brasile, commenta; tanto più che è un Paese in crescita…
Anche Ferrajoli, come Schiattarella, pone l’esigenza di un profondo ripensamento culturale per la sinistra politica italiana. Si deve prendere coscienza che è necessario ribaltare la cultura economica che la sinistra stessa ha fatto propria. Considerare i diritti come il principale investimento produttivo. E riportare così la politica all’altezza dei problemi da affrontare.
Il dibattito che è seguito è stato ricco di spunti. Talora appassionato, come nel caso di Paolo Maddalena, giudice emerito della Corte costituzionale, il quale, da quando ha lasciato la Consulta per raggiunti limiti di età, poco più di un anno fa, si è dedicato in pieno allo studio dei problemi dell’economia, convinto che la finanziarizzazione del mercato stia creando una crisi gravissima che miete vittime sia nei paesi più poveri sia nel ceto medio dei paesi ricchi. “Ci vuole eguaglianza – ha detto -, che è il contrappeso della libertà”. Maddalena ha lanciato un vero e proprio grido di allarme, soprattutto contro la svendita ai privati del patrimonio pubblico, e ha anche lui posto l’esigenza di un ribaltamento: prima la proprietà pubblica, i beni di tutti, poi la proprietà privata. E’ la prima che conta di più, che va salvaguardata, e che ha il compito di mettere i limiti alla proprietà privata. “Fermiamoci! – ha detto -. Ripartiamo non dall’utile, ma dalla persona”.
Su una prospettiva non dissimile si sono mossi anche gli altri interventi: di Mario Pianta (sbilanciamoci.org), di Antonio Lettieri, Domenico Gallo, Bianca Pomeranzi, Giovanni Russo Spena, Rita Sanlorenzo, Mario Agostinelli, Antonia Sani, Livia Campagnano, e alcuni altri.
Nelle sue conclusioni Raniero La Valle ha preso le mosse dal titolo del convegno – “Solo un banchiere ci salverà?” – e ha subito risposto che no, non ci salva “e non ci ha salvato”. Non ha nominato Monti ma certo a lui si è riferito quando ha detto che certo non poteva salvarci, togliendoci la libertà come ha fatto, l’uomo che è stato mandato dai piani alti dell’Europa… Ha citato Dossetti, che in una sua lettera ai comitati nati nel suo nome, nel 1996, aveva mostrato scarsa fiducia che l’intenzione dell’allora capo di Stato di dare l’incarico di formare il governo ad Antonio Maccanico avrebbe potuto raggiungere qualche risultato, e aveva aggiunto, con qualche malizia, che poi non sarebbe stato facile “congedarlo”. No, non un banchiere, ma solo il popolo può salvare una nazione. Così La Valle. Il popolo, attraverso i suoi partiti, i suoi movimenti, i suoi rappresentanti. La Valle ha ricordato il pensiero di Claudio Napoleoni, che già qualche decennio fa era convinto che la crisi che si profilava non era solo del mondo economico ma riguardava la direzione stessa dello sviluppo storico, e sosteneva (contro Franco Rodano) che non era possibile una via d’uscita solo politica; ci voleva una nuova comprensione antropologica. La Valle è d’accordo solo in parte con Napoleoni. E’ d’accordo che dalla crisi non si esce all’interno dei parametri del capitalismo vigente. Però gli uomini e le donne del nostro tempo possono farcela a trovare la strada per uscire dalla crisi. Anche nell’età della tecnica – dice La Valle – la democrazia è possibile. Il problema è prendere consapevolezza delle cose come sono. Rendersi conto che, insieme alla crescita della destra, in questi anni si è avuto un cambio di paradigma: lo scettro del sovrano è passato dalla politica all’economia, il denaro è diventato il metro del potere e la leva del comando. Rendersi conto che la Costituzione non la si può difendere solo cercando di bloccare riforme insulse, ma aggredendo quella riforma silenziosa che è in corso e che punta a snaturare le nozioni di lavoro e di economia. Il punto centrale è il rapporto tra lo Stato e l’economia. Bisogna tenere fermo il “dover essere” dell’economia secondo la Costituzione. E qui di nuovo La Valle cita Dossetti e il suo discorso ai giuristi cattolici del 1951 in cui sostenne, contro Carnelutti, che lo Stato non solo doveva assicurare il diritto, ma doveva anche promuovere la felicità. Anche allora, negli anni ’50, l’economia era pensata in termini utilitaristici, ma allora la politica contava. Oggi non più. E sembra che sia contenti di vedere i partiti in difficoltà, e li si invita a sciogliersi.
Due le strade che La Valle suggerisce. La prima è una potente ripresa della politica, attraverso una rigenerazione non solo morale ma anche culturale e strategica. La seconda, una robusta rifondazione antropologica che cambi criteri e paradigmi, per una economia che sostenga non solo la nuda vita ma la buona vita, perché sia fatto salvo il diritto degli esseri umani di cercare la felicità. Cercarla, perlomeno. Tutte e due le strade sono da intraprendere. Con una consapevolezza conclusiva – che è poi, ha detto La Valle, “lo specifico” di questa assemblea -, quella di avere in mano uno strumento che non è meno pitente della pretesa sovranità economica: il diritto. Pertanto, “non siamo a mani nude”. “La Costituzione – ha concluso – ci rende oggi fiduciosi e capaci di pensare che da questa crisi si possa uscire”.