Esce mercoledì 8 febbraio “Non so se don Lorenzo”, un libro di Adele Corradi, che di don Milani, a Barbiana, nei suoi ultimi quattro anni di impegno e di vita, fu strettissima collaboratrice e amica. Il libro, che esce per le edizioni Feltrinelli (pp. 176, 14 euro), rivela con sincerità e freschezza aspetti inediti del prete toscano. Su “Avvenire” presentano il libro, con accenti commossi e grati, Roberto Beretta e Goffredo Fofi. “Il don Lorenzo della Corradi – scrive Fofi – è così vivo e presente in ogni suo gesto o parola da fare di questo libro il resoconto, credo, più complesso e più libero nel raccontare gli ultimi anni del prete toscano”. Riproduciamo di seguito le due recensioni.
Don Milani e la professoressa buona
di Roberto Beretta, in “Avvenire” del 5 febbraio 2012
Ci ha fatto un gran regalo, Adele Corradi, a scrivere questo librino che sembra una raccolta di aneddoti, e invece è un testo importantissimo per capire chi fu don Lorenzo Milani. Possibile?! Dopo una letteratura persino sterminata sul Priore del Mugello, sulle sue opere e la sua scuola; dopo mezzo secolo di giornalismo e saggistica dedicati al racconto e all’analisi di ogni aspetto del sacerdote di Barbiana, sembra incredibile non solo che ci sia qualcosa di nuovo da dire in materia, ma soprattutto che questo qualcosa sia decisivo. Invece è così. È così perché la professoressa Corradi – che finora non aveva mai pubblicato nulla – è stata vicinissima a don Milani negli ultimi 4 anni di vita, passando giorni a far scuola ai ragazzi di Barbiana (era lei che li preparava agli esami di Stato: anche i due che poi vennero bocciati e generarono – loro malgrado – la Lettera a una professoressa ). Ma è così soprattutto perché Adele Corradi ha vissuto quell’esperienza con amore e libertà: gli unici ingredienti che permettono di capire davvero, nel profondo. Dunque Non so se don Lorenzo, in uscita mercoledì per Feltrinelli (pp. 176, euro 14), risulta libro commovente e capitale. L’autrice d’altronde si presenta in regola: classe 1924 (un anno meno del Priore), «l’Adele» – così don Milani la cita molto spesso nelle lettere alla mamma – è stata una fiduciaria assoluta di Barbiana dal 1963 alla morte del sacerdote toscano nel 1967; innumerevoli i servizi a lei affidati, oltre la scuola: era incaricata di telefonare (a Barbiana non c’era apparecchio) per tenere i più vari contatti, portava al Priore le medicine per la sua grave malattia, accompagnava lassù la mamma di don Milani da Firenze, prestava la macchina a don Lorenzo e anche al primo dei suoi ragazzi, Michele Gesualdi (ci scappò pure un incidente…), fece da ambasciatrice presso il cardinale Florit – il quale la definì nel suo diario «una nevrastenica professoressa»…
Fu lei a salvare l’originale del Catechismo, che don Milani voleva distruggere prima di morire; così come, da una discussione con le ragazze della sua terza media che avevano organizzato una festa da ballo a scuola, nacque il pamphlet milaniano Anche le oche sanno sgambettare. Non per nulla, quando nel gennaio 1966 il Priore (dopo l’ennesima incomprensione) dichiarò il «blocco continentale» delle visite al suo capezzale per tutti eccetto «contadini, operai, persone che non abbiano fatto più della terza media, preti», la Corradi non ebbe bisogno di lasciapassare: «Lei no perché è barbianese, non le occorre». Ma in che modo la professoressa fiorentina si era meritata di entrare nella ristretta «nostra strana famiglia» (definizione di don Milani per designare il nucleo costituito da se stesso, dalla fedelissima perpetua Eda e da Adele)? Nel libro lei lo racconta così: «Sono andata a Barbiana il 29 settembre 1963, festa di san Michele, perché era domenica. Sapevo infatti che quella che volevo conoscere era la scuola di un prete e mi pareva che di domenica me ne sarei fatta un’idea più completa. Una collega mi aveva detto che quella scuola dava risultati straordinari, volevo perciò vederla in funzione, giacché funzionava anche nei giorni di festa… Delle lezioni di quella domenica non ricordo però quasi niente. Ricordo bene invece che lo capii subito: dovevo tornare lì al più presto». Comincia un rapporto che diventa subito strettissimo: la Corradi, che all’epoca insegnava a 40 km di distanza, ritorna già il martedì successivo (anche perché quel prete le sembrava talmente malridotto che – pensava – «sarebbe morto in due o tre mesi»…), e poi due giorni la settimana, dalle 8 del mattino spesso fino a dopo cena; dall’estate 1964 chiede addirittura il trasferimento nella scuola media della vicina Borgo San Lorenzo e va ad abitare in una cascina abbandonata presso Barbiana: non sembrava infatti decoroso che una donna vivesse in canonica. Lo spunto fu dunque la curiosità: «Ero lì per sapere come facevano per imparare a scrivere in italiano. Era il problema che mi assillava di più, fra i tanti che mi si presentavano a scuola – scrive oggi Corradi – Don Lorenzo non mostrò meraviglia e mi rispose che ero fortunata. Stavano iniziando proprio quel giorno un esercizio molto particolare: la “scrittura collettiva”». Il metodo con cui più tardi sarebbe stata stesa la Lettera a una professoressa, della quale Adele ebbe modo di seguire in diretta la lunga gestazione e il cui esemplare librario meritò con una dedica dolcissima di don Milani, ormai prossimo alla fine: «Parte quarta: poi finalmente trovammo una professoressa diversa da tutte le altre che ci ha fatto tanto del bene». Era «diversa» sì, la Corradi, anche se nel risvolto di copertina del volume precisa di essere stata «un’insegnante identica alla destinataria della Lettera. I rimproveri che i ragazzi di Barbiana rivolgono a quell’insegnante me li meritavo tutti». Il Priore evidentemente doveva pensarla in modo diverso, se già il primo giorno l’aveva invitata a tornare (un segno di enorme fiducia, per chi conosce la brusca e talvolta violenta diffidenza con cui il prete toscano allontanava invece chiunque non gli garbasse) e quindi le aveva affidato un compito: «Per favore, vuole insegnare a questi ragazzi quelle stupidaggini che chiedete voi agli esami?». Lei si conquista il suo posto con discrezione («Cercavo di disturbare il meno possibile»), perché quella scuola le piace: «Mi trovavo come un pesce nell’acqua e non c’è stato mai un momento, in tutti gli anni che ho passato a Barbiana, in cui possa dire di essermi annoiata. Magari si soffriva, ma non ci si annoiava». E ancora: «Nulla passava inosservato a Barbiana. Mi vien fatto di dire che lassù si viveva ‘nell’attenzione’. E il più attento di tutti era il Priore»; parole che non contrastano affatto con gli scontri e le baruffe di cui lo stesso – e il libro ne dà conto – era sovente protagonista. La Corradi prende don Milani anche come direttore spirituale; sale da lui la mattina presto a confessarsi: «Ogni volta che non ero contenta di me, don Lorenzo trovava sempre la strada per farmi ritrovare la pace. Sempre. Era liberante. Dopo che è morto, questo soprattutto mi è mancato». I due si danno del «lei», e lo faranno fino all’ultimo, anche se il rapporto è davvero strettissimo.
A poco a poco la professoressa apprende «la teologia di Barbiana». Il premio eterno secondo don Milani: «Così sarà quando arriveremo in Paradiso. Lasceremo giù tutta la nebbia e tutto il grigio rimarrà dietro di noi». A proposito dell’ingordigia del capitalismo: «Bisognerebbe dire una cosa che non è di moda… Bisognerebbe parlare del diavolo». La preghiera: «Diceva che non dovevamo prendere esempio da lui, che pregava troppo poco: un Padre Nostro la mattina e un’Ave Maria la sera». A chi però tentava di indurgli scrupoli: «A furia di esami di coscienza trasformano in cura di sé perfino il cristianesimo». Gioielli inediti che illuminano sfaccettature poco note del Priore, per esempio sul dibattuto tema dei rapporti di don Milani con le donne. Ecco come la Corradi descrive il suo ultimo colloquio: «Mi domandò se avevo mai avuto il dubbio “di aver amato un sacerdote oltre i limiti”. La risposta fu immediata: “Con lei? Mai!”. Ero sicurissima. Lui, non capii perché, fece la faccia di un bambino che vede un bel regalo e disse: “Son contento!”». E quando tuttavia lei riprese: «Le confesso che l’abbraccerei volentieri», lui «non si meravigliò di quel che gli dicevo. Fece un sorriso e disse: “Lo faremo nell’ultimo giorno”». E infatti, dopo la morte di don Lorenzo, Adele Corradi restò fedele a quella che era stata «la nostra strana famiglia»; rimase ancora due anni a Barbiana, prendendo in affido tre fratellini con difficoltà psichiche, tra cui Marcello: un bambino che a 5 anni non sapeva ancora parlare e per questo era stato l’ultimo ‘figlio’, il più amato, di don Lorenzo Milani.
Don Milani, l’educazione come «ultima frontiera»
di Goffredo Fofi
in “Avvenire” del 5 febbraio 2012
A 88 anni Adele Corradi, insegnante che negli ultimi anni di vita di don Milani fu sua strettissima collaboratrice a Barbiana, si è decisa finalmente a scrivere le sue memorie di un’amicizia invero straordinaria. Il mito di don Milani è andato crescendo, invece che spegnersi nel tempo trascorso dalla sua morte, nel 1967, prima che la Lettera a una professoressa stesa diventasse uno dei pochissimi testi di riferimento per la generazione degli studenti del ’68. Essi l’ebbero come unico punto di riferimento forte nella loro azione per il rinnovamento della nostra scuola, perché la scuola trattasse i figli dei proletari e dei poveri così come trattava quelli di chi se la passava meglio, prima di scordarsene per passare alla politica con la kappa rinverdendo il mito del leninismo, peggio che defunto. Da questi sintetici ricordi, stesi forse al caso della memoria – situazioni, battute, personaggi, incontri… – non esce un don Milani diverso da quello che già conosciamo dai suoi lavori e dalla testimonianza di tanti.
La bibliografia sul prete toscano è impressionante, probabilmente più fitta di quella riguardante ogni altro prete o educatore del nostro Novecento, ma il don Lorenzo della Corradi è così vivo e presente in ogni suo gesto o parola da fare di questo libro il resoconto, credo, più complesso e più libero nel raccontare gli ultimi anni del prete toscano, il periodo in cui don Milani era già don Milani, e attirava, ben vivo, grandi simpatie quanto grandi antipatie nella cultura italiana, principalmente nella sua parte cattolica. Non era il solo prete «di frontiera» degli anni Cinquanta e Sessanta: come non ricordare nella stessa Toscana il più dimenticato di tutti, il grande Vannucci, e poi Borghi, il prete-operaio che don Milani considerava un maestro, e lo stesso Balducci? Di essi si parla spesso nel libro, così come si parla di quelli più timorati e meno amici, o delle gerarchie, e don Milani non ha peli sulla lingua (come non ne ha la Corradi, scrupolosamente ma meno aspramente sincera) anche se ribadisce, l’autore di L’obbedienza non è più una virtù, che era una lettera ai cappellani militari che riguardava un altro tipo di obbedienza, l’obbedienza alla Chiesa. (Ed è sempre curioso registrare la sorpresa dei non cattolici di fronte a quella che a loro appare come una contraddizione.)
Ma Adele Corradi parla soprattutto della vita quotidiana, dei ragazzi e dell’insegnamento, e più di ogni altra cosa, forse, dei rapporti tra don Milani e le donne, le due che gli furono più vicine, la Eda governante contadina e l’autrice, collaboratrice instancabile e amorosa ma – e ci tiene a dirlo – non innamorata, ma anche la madre, e la ‘fidanzata’ di don Milani, la ragazza al cui amore egli aveva rinunciato per seguire la sua vocazione, una donna che, dice la Corradi, ha conosciuto un’altra persona, il Lorenzo Milani di un altro tempo. Forse le notazioni più sorprendenti sono, in questo libro, proprio quelle che gettano luce sul ‘maschilismo’ di cui qualcuno ha accusato don Milani, certamente coerente alla cultura del tempo e della sua in particolare, ma che risulta di una complessità maggiore, e infine più limpida, di quanto altri non ne abbiano detto, per esempio l’amico di gioventù Michele Ranchetti, eccezionale figura di poeta e studioso. Ma è soprattutto la figura del don Milani educatore a uscire arricchita da queste pagine, un educatore che si mette decisamente dalla parte dei diseducati dalla scuola e dalla società, dei deboli sottoposti ai ricatti culturali dei potenti, dei ragazzi sottoposti al pregiudizio delle ‘professoresse’ – una categoria a cui la Corradi riesce a sfuggire senza sforzo ponendosi anche lei, con decisa ripulsa delle idee e convenzioni del suo ceto e della sua professione (le «vestali delle classi medie», le chiamò acutamente una celebre inchiesta sugli insegnanti) dalla parte dei ragazzi.
Anche se racconta che non sempre condivise certe durezze di un don Milani sempre preoccupato dalle distrazioni devianti dai problemi reali (e ci pare perfino ovvio che egli dicesse, a un certo punto, che di Esperienze pastorali avrebbe salvato soltanto il capitolo, durissimo ma eccezionalmente preveggente, su «La ricreazione»). Poco tempo prima di morire – racconta Adele Corradi in queste memorie di un’onestà e sincerità che ci sembrano assolute e che sono destinate a restare per il loro valore di testimonianza, per il bellissimo ritratto che ne scaturisce di un italiano come non ce ne sono più. ma anche per la loro austera bellezza – don Lorenzo le «fece un discorso che, riassumendo, somigliava a quello di san Paolo quando dice: ‘Ho combattuto la buona battaglia’. (…) Di esso ricordo solo le ultime parole: ‘Ora tocca a voi!’».