Note a margine del varo dell’Italicum

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Ho votato la fiducia al governo che inopinatamente l’ha posta sull’Italicum, ma non ho partecipato al voto finale sulla legge. Per ragioni di metodo e di merito, ma non voglio tornarci su. Solo un cenno. Da vecchio ulivista impenitente non posso derogare a due principi: a) che le regole si scrivono insieme; b) che un premio alla lista, a dispetto della retorica bipartitica, rischia di affossare il bipolarismo e di spingere il PD ad assumere i contorni di partito della nazione pigliatutti e non già di partito di centrosinistra alternativo al centrodestra appunto nel solco dell’Ulivo. Un processo già in corso, al centro (alludo alle transumanze parlamentari) e in periferia, con fenomeni di opportunismo/trasformismo che certo non giovano a restituire credibilità alla politica. Ma già si sono spese molte parole, ciascuno ha avuto modo di svolgere i propri argomenti. Sia gli apologeti, sia i critici della nuova legge elettorale. Mi preme piuttosto, ex post, fare qualche considerazione a margine.

Primo: bene che si disponga di una legge elettorale. Se necessario, si può finalmente andare al voto. Anche se ragionevolmente si dovrà attendere il completamento della riforma del bicameralismo. Applicandosi l’Italicum alla sola Camera. L’interruzione delle legislature dovrebbe essere l’eccezione. Ma male sarebbe non potere andare a elezioni a motivo dell’assenza di una legge elettorale. Stante il carattere palesemente surrogatorio e transitorio del Consultellum, sortito dalla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il Porcellum.

Secondo. Con Renzi sono saltati tutti i paradigmi della vecchia (buona?) politica, costringendo un po’ tutti a scontare qualche contraddizione: vedi la fiducia apposta dal governo sulla legge elettorale, materia genuinamente parlamentare. Uno strappo, un azzardo, una bestemmia in chiesa cui non vorrei ci abituassimo. Specularmente, in reazione a tale forzatura, un pezzo del partito guida del governo che nega la fiducia, ma poi non ne trae le naturali conseguenze. Chi non vota la fiducia si mette fuori da un gruppo parlamentare. E invece gli uni, i dissidenti, e gli altri, cioè gruppo e partito….fischiettano e procedono quasi esorcizzando il problema di un decisivo chiarimento.

Terzo. La disciplina, se benintesa, è un valore. Nei partiti ci si sta conformandosi alle deliberazioni assunte a maggioranza, salvo circoscritte e tipizzate eccezioni. Ma i partiti sono un mezzo, non un fine. Non ci si sta a dispetto dei santi e dell’evidenza. Non capisco perciò espressioni del tipo “mai e poi mai lascerò il partito” o “questa è la mia casa” o ancora “la parola scissione è esclusa dal mio vocabolario”, da parte di chi ne denuncia deviazioni che si spingerebbero sino allo snaturamento dello statuto ideale e identitario del PD. Insomma: o più disciplina o più laica nettezza nel separare il proprio destino politico.

Quarto. Sembrava fosse sincero e non revocabile il solenne impegno a scrivere insieme le regole, a che mai più si sarebbe ceduto alla tentazione di imporre le regole del gioco politico a colpi di maggioranza. E invece ci si è puntualmente ricascati. L’ennesimo, deprecabile vulnus, che non promette lunga durata alla nuova legge elettorale. E che invece dovrebbe esserne un requisito, in modo che gli attori politici possano adeguarsi e persino conformare ad essa identità e strategie di lunga lena. Anche questo è un profilo della decantata stabilità: non solo dei governi, ma anche del sistema politico.

Quinto: la sordità della politica ai cultori del diritto. Diciamo la verità: a parte qualche eccezione, la parte più cospicua e autorevole della comunità dei costituzionalisti ha espresso giudizi molto critici sull’Italicum. Ma la politica se n’è fatta un baffo. Solo una minoranza e non la più qualificata di essa (politologi o più semplicemente politici travestiti da costituzionalisti) ha fatto da corifeo al governo. Con uno zelo e talvolta persino un conformismo che non depone a favore di studiosi che dovrebbero dare mostra di un certo distacco intellettuale. Al confronto impallidisce la vecchia e non virtuosa figura di “intellettuale organico”. A ben riflettere non sorprende – ed è persino una dialettica feconda connessa alle rispettive competenze-discipline espressive di punti di vista diversi e complementari – la circostanza che, distinguendosi dagli attori politici, i costituzionalisti più autorevoli siano critici con soluzioni elettorali che portano il segno dello strappo. Le Costituzioni, per natura, sono fattore e presidio di stabilità del patto di convivenza. Giustamente più sensibili all’esigenza del cambiamento sono invece i politologi e i politici. Meno apprezzabile che si spacci per ragioni attinenti alla dottrina e al diritto ciò che  più semplicemente è oggetto delle proprie preferenze personali e politiche.

 

Franco Monaco

 

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