Ancora una democrazia bloccata. Dopo la fine della “Repubblica dell’antipolitica” succeduta a quella dei partiti, la nuova stagione scorre all’insegna di una fibrillazione permanente nel quadro di un sistema politico che non ha ancora trovato una sua stabilità. Dopo il tempo del bipolarismo muscolare e quello, rapidamente consumato del tripolarismo, ora siamo in presenza di un bipolarismo di costrizione, come esito di un esperimento fallito – il governo gialloverde – e non come sbocco, sul versante della maggioranza, di una strategia, di una condivisa idea di Paese da perseguire insieme, democratici, pentastellati, “liberi e eguali” e Italia viva. Non agisce come in passato una nuova conventio ad excludendum, a destra, nei confronti del Msi per incompatibilità costituzionale e condanna storica, a sinistra verso il Pci per la sua natura di partito non assimilabile ai valori occidentali. Piuttosto una impotentia gubernandi in cui domina la pratica del rinvio, dell‘ “urge procrastinare” – direbbe con la sua sottile ironia Mino Martinazzoli – sin quasi alla paralisi. Non una democrazia dell’alternanza, ma, come si annuncia in un libro di imminente pubblicazione, una democrazia dell’altalena, del pendolo con oscillazioni continue: due schieramenti che si contrappongono, in successione guidati dall’ “avvocato del popolo”, poi premier, non ancora leader, ma che non si configurano ancora come alleanze, capaci di condividere al proprio interno responsabilità, prospettive, visione. Ciò vale ancor più per l’attuale maggioranza, dato il suo ruolo di governo, che non per l’opposizione, per quanto essa pure sia attraversata da linee divisive. Una situazione che grava su di un Paese sottoposto alla prova sfiancante del coronavirus, con tutte le incognite ancora rappresentate dal rischio di un ritorno della pandemia, ed alle prese con la crisi più pesante dell’intera storia repubblicana.
La prospettiva del Paese “normale” resta, dunque, una chimera, l’aspirazione di politologi e la petizione di osservatori: la possibilità cioè che le forze politiche accomunate dalla condivisione di solidi capisaldi – il patriottismo della Costituzione, i valori democratici, l’ancoraggio all’Europa – competano tra loro in una limpida polarizzazione tra conservatori liberali e progressisti, tra moderati e riformisti, lasciando ai margini, in un ruolo testimoniale, le formazioni estreme ed antisistema. Del resto a passare in rassegna le dramatis personae si riscontra un deficit di identità, di cultura e di politica. Quest’ultima non solo intesa come capacità di iniziativa, risolutezza dell’azione, ma anche come statura e qualità della rappresentanza, di un personale politico i cui parametri di selezione sono progressivamente scaduti in una deriva al ribasso. Lo scarto tra attese, bisogni, sfide che il Paese deve reggere e le risposte attuate e da definire si va progressivamente ampliando.
Limitando la nostra disamina all’attuale maggioranza, restano al palo problemi ormai incancreniti – dai decreti “Sicurezza” alle concessioni autostradali, dall’Ilva alle questioni della giustizia, del fisco, dello ius soli, ius culturae , per citarne alcuni –; si aprono continuamente fronti di divisione, si approfondiscono fratture che non lasciano trasparire solo una fisiologica competizione tra aspirazioni dei protagonisti e volontà di affermazione dei singoli partiti, ma rimandano a nodi di fondo su di cui non si è posto mano e la cui mancata soluzione frena l’azione di governo, indebolisce la coalizione, peraltro progressivamente debilitata dalla fuga di parlamentari 5 Stelle con il rischio di una débacle al Senato.
Paradigmatico il caso rappresentato dal Mes, il cosiddetto fondo salva Stati, che può essere assunto a cartina al tornasole di contraddizioni insuperate. A tal punto che lo schieramento oggi determinato a bocciarne l’adozione riproduce la maggioranza gialloverde. Evocare il Mes significa chiamare in causa l’Europa, il vero soggetto salva Italia sul quale contare, su cui puntare sia rispetto alle scadenze impellenti della fase tre – quella successiva al lockdown e alla riapertura delle attività – sia in relazione alla invalicabile linea di confine che separa dai populisti, dagli euroscettici, dagli anti Europa. Qui per altro una netta demarcazione, tanto in politica interna quanto in politica estera, due capisaldi per un Paese. Compete anzitutto a Giuseppe Conte tagliare di netto il nodo gordiano, forte del suo ruolo e oggi sorretto da una popolarità a rischio di declino, soprattutto in considerazione di una situazione economica che non lascia margine alcuno di ottimismo. Soprattutto forte del fatto che, al netto di possibili incidenti di percorso e al di là delle dichiarazioni propagandistiche di chi invoca nuove elezioni, referendum sul taglio dei parlamentari, legge di bilancio, prossimo semestre bianco, nonché il fondato timore di un probabile ridimensionamento dei 5 Stelle, non lasciano intravedere nuove e imminenti consultazioni. La stessa ipotesi di una sostituzione dell’attuale Governo da parte di una ipotetica maggioranza di unità nazionale risulta alquanto improbabile a motivo di insanabili divergenze programmatiche, di un solco profondo ormai scavato tra forze politiche, nonché di una differenziazione degli interessi rappresentati.
Conte può certamente esibire una gestione, seppure condotta con eccesso di protagonismo, sostanzialmente oculata del dramma della pandemia; soprattutto porta il merito della determinazione con cui ha inseguito il Recovey fund e il rapporto con l’Europa. E’ altresì riuscito a reggere l’offensiva che da più settori, e non solo politici, sorretti dalla più parte della stampa e dei mezzi d’informazione, è stata sferrata , spesso con argomenti pretestuosi, contro gli Stati generali – una sua ideazione –, ma ora deve impegnarsi ad aprire un secondo tempo della sua esperienza di capo del Governo, non accedendo alla tentazione di capeggiare i 5 Stelle o di dotarsi di una propria personale, ennesima, formazione politica. Piuttosto, più convincente il suo impegno a costituirsi in punto autonomo di sintesi, di equilibrio, di congiunzione tra le forze che lo sostengono, definendo una prospettiva strategica in vista delle scadenze prossime e di più lungo termine quali il ridisegno degli assetti bipolari di schieramento che ponga fine alla infinita transizione, il ripristino dell’autorevolezza e della funzionalità dello Stato, il rilancio di una rinnovata economia sociale di mercato, la valorizzazione dei corpi intermedi, la conferma del sistema delle alleanze con l’Occidente nel quadro di una politica estera avveduta e duttile, nonché, soprattutto, la scommessa europea per un Paese che ambisca a conquistare la leadership nell’area mediterranea. Conte deve insomma assumere un ruolo quasi demiurgico, non nel senso di un esercizio generativo del potere, ma da autentico leader, dimostrando di averne guadagnato la statura. Anche perché il panorama non offre presenze particolarmente competitive e le “riserve della Repubblica” sembrano largamente consumate ed esaurite.
Le possibilità che Governo e maggioranza possano produrre politiche efficaci e attribuire un senso alla loro navigazione non sta solo nell’adozione di scelte adeguate alle sofferenze in cui versano vasti settori del Paese e in grado di rilanciare produzione e consumi, ma, a monte, nel superamento dei fattori di condizionamento della prassi politica delle formazioni che portano la responsabilità di fuoriuscita dal tunnel dell’attuale crisi. In definitiva un problema di identità, di visione e pure di iniziativa, non ridotta ad affannosa ricerca di posizionamento o, come nel caso di alcune componenti dei 5 Stelle, ad uno sterile movimentismo segno di immaturità. Ma come capacità di rappresentanza, di insediamento sociale, di coesione politica, di trarre vantaggio dalle contraddizioni di un avversario rappresentato da una Destra agguerrita e favorita, stando ai sondaggi, da un più ampio consenso. Le prossime elezioni regionali sotto questo profilo costituiscono un banco di prova: come sopperire con l’iniziativa politica ad uno svantaggio di partenza – in sostanza la costituzione di un’alleanza a sostegno di una candidatura condivisa – laddove la Destra è potenzialmente maggioritaria e laddove lo può diventare grazie alle contese che lacerano i suoi contendenti e antagonisti? Per il Pd – va detto in tutta chiarezza – iniziativa politica significa anche un ruolo ed un peso maggiore da far valere rispetto ad una delegazione di Governo che al suo vertice vede una carenza di riconoscibilità e di presenza oggi prevalentemente giocata nelle retrovie. Significa, altresì, non subire una conduzione a dir poco inconcludente, quando non addirittura inadeguata, di taluni ministeri chiave quali quelli della scuola e del lavoro. Non aprire questo capitolo comporta infatti consegnarsi ad una rassegnazione perdente e ad una subalternità priva di sbocchi.
A prescindere tuttavia dalle scadenze più ravvicinate del calendario politico, resta per Pd e 5 Stelle la necessità di un chiarimento di fondo su quale soggetto politico essi aspirano ad essere, nonché di una elaborazione progettuale che seppure, con minor intensità, chiama in causa anche Leu e Italia viva. Procediamo con ordine.
Dopo il fallimento della stagione renziana e dei suoi presupposti – la rottamazione oltre che di un ceto politico delle culture di riferimento, un decisionismo direttista teso a saltare mediazioni istituzionali e forme consolidate di rappresentanza, un maggioritarismo retto sulla presunzione di autosufficienza con la revoca della cultura della coalizione propria dell’Ulivo, la marginalizzazione dei corpi intermedi, una personalizzazione della leadership in linea con la democrazia recitativa del pubblico, e ancora una lettura irenica della globalizzazione accompagnata ad un revival tardoblairiano e ad una narrazione improntata ad un populismo di governo – il Partito democratico non ha ancora provveduto ad elaborare attraverso occasioni di confronto e di dibattito e mediante opportune iniziative politiche una sua valutazione di quell’esperienza. Esperienza nei cui confronti attuali dirigenti e componenti del partito mantengono forme di dipendenza. Forte è la carenza, dunque, di una sintesi progettuale all’altezza delle trasformazioni in corso nell’ “epoca nuova”. Nonostante si possa riconoscere a Zingaretti di aver fronteggiato il rischio di una dissoluzione del Pd, raccogliendo un partito ai minimi termini elettorali, di essere animato da una vocazione inclusiva e da una tensione unitiva, di avere, persino contro i propri iniziali convincimenti, pilotato il Partito democratico ad un rapporto con i 5 Stelle conducendolo alla guida del Paese, ed ancora di aver restaurato uno stile di misura e compostezza, sostenendo con coerenza il governo Conte, resta il fatto che il Pd non ha ancora posto a tema l’obiettivo e la direzione del proprio cambiamento. Tra ritrosie e timidezze, continuità e trasformismi, illusioni e velleità. In una operazione egemonica, un cambiamento di sé stesso e dell’intero centro-sinistra, definendo profilo culturale, impianto organizzativo, radicamento sociale, insediamento territoriale, un paradigma espressivo in cui campeggino parole e valori della Sinistra riformulati in termini sintonizzati sui codici della contemporaneità. Una sorta di programma fondamentale da tradurre in un’agenda per il Paese che dia significato di respiro alle alleanze da costruire.
Quanto ai 5 Stelle oggi alle prese con spinte centrifughe, con linee strategiche incompatibili – la vocazione di governo, il terzismo di Di Maio, formazione né di destra né di sinistra, il ritorno alla purezza delle origini di Di Battista in un revival teatrale di antipolitica – il partito non partito di Grillo, dopo la sua istituzionalizzazione parlamentare e l’accesso alla guida del Paese, non può non prendere atto che la sua evoluzione verso la forma-partito, per quanto rinnovata e non convenzionale, è inevitabile. Che altro significa infatti il dibattito tra sostenitori del Direttorio e quanti propugnano l’indizione a tempi brevi di un congresso, se non accedere alle modalità organizzative e alle pratiche proprie di un partito in cui si confrontano democraticamente maggioranza e minoranza e dove la dialettica delle idee si misura con la rappresentanza degli interessi, con le sensibilità culturali, con la competenza rispetto ai problemi, con le responsabilità da assumere da parte di una classe dirigente che eviti fughe in avanti e nostalgie del passato, dismettendo il mito populista della democrazia istantanea dei “portavoce”? Un partito in grado di compiere una scelta di campo in cui riversare i temi delle sue battaglie a partire dalla transizione ambientale, dalla tutela e promozione dei beni comuni, dal contrasto alle rendite di potere, dall’impegno per il rinnovamento della vita pubblica, di lotta all’affarismo e alla “cattiva “politica. Un partito proposta, che ha sì un leader, ma non è del leader, che non insegue pulsioni demagogiche, ma seleziona le domande, le media e le incanala e alla fine, da partito adulto, le governa e le indirizza. Soprattutto i 5 Stelle non possono essere immemori della ragione costitutiva del Governo Conte in alleanza con le forze del centro-sinistra: il sostegno in Europa ad Ursula von der Leyen e la dissociazione dal sovranismo leghista, presupposto da cui dovrebbero derivare conseguenze coerenti tanto sul piano della politica interna quanto su quello della politica estera.
Infine Italia viva e Leu, la compagine dell’ “ego” da un lato, la sinistra di governo degli Speranza e dei Bersani dall’altro. A ben guardare le mosse di Renzi vanno lette in sequela e denotano un disegno. Ieri il sostegno alla maggioranza “giallo-rossa” per guadagnare tempo e garantire l’esistenza di un partitino senza elettori, privo di eletti che non fossero l’esito di una transumanza parlamentare con ministri che hanno cambiato repentinamente casacca dopo l’incarico. E così pure la condivisione di una prospettiva di riforma elettorale in chiave proporzionale dopo aver sostenuto la retorica di una democrazia di investitura, maggioritaria, tendenzialmente bipartitica, e in tempi più recenti, avanzando l’idea del “Sindaco d’Italia” che comporterebbe, con l’elezione diretta del premier, uno stravolgimento della forma di governo parlamentare. Dunque primum vivere, deinde philosophari. Oggi un rapido riposizionamento e un’ulteriore virata sia in tema di riforma elettorale che in rapporto al Governo Conte. Un procedere a zig zag con scatti repentini. Anche alla luce di ripetuti sondaggi, l’imperativo è di sopravvivere e quindi la necessità di terremotare governo e maggioranza per certificare la propria visibilità. Nel contempo candidandosi – un obiettivo dagli esiti assai improbabili – a successore di Berlusconi. Appunto il “royal baby”, come Giuliano Ferrara ha definito l’aspirante erede del Cavaliere. Poi un aggiornamento tattico e un allineamento alla ricerca di nuove opportunità. Sopravvivere: dunque movimentismo, ricerca di una ragion d’essere, enfasi della comunicazione, rapide incursioni e veloci ritirate. Come ha ben documentato in una serie di interventi Franco Monaco, così è avvenuto in tema di prescrizione: un Renzi garantista, immemore di quello giustizialista dai ben noti trascorsi. Così pure la parola d’ordine del “basta tasse”, anziché progressività della tassazione come discrimine tra Destra e Sinistra. E ancora: ieri il Pd nella famiglia dei socialisti europei, oggi Italia viva nell’orbita neocentrista di Macron; Matteo Salvini prima come pericolo dittatoriale e antieuropeo poi partner dell’attacco a Conte accusato nientemeno che di violazione costituzionale, e di seguito il leader leghista di nuovo come l’Orban italiano. In realtà il Renzi corsaro di sempre: manovriero quanto alla tattica, posizionato su di un terzismo neocentrista quanto alla strategia. Con un duplice obiettivo: creare problemi a Conte o sostenerlo a seconda del proprio tornaconto, e insieme indebolire il Pd, quale vero ostacolo al suo disegno, oppure dialogare con Zingaretti quando non si vedono alternative praticabili, salvo contare su esponenti del Pd che gli sono stati vicini per destabilizzarlo. Dunque Italia viva un’incognita, una mina vagante che invece potrebbe svolgere un positivo ruolo di raccordo con quei ceti temperati e pro Europa cui il Governo e la maggioranza dovrebbero indirizzare messaggi di rassicurazione quanto alle istanze di modernizzazione del Paese.
A sua volta Leu con il ministro Speranza, con il suo operato in grado di contemperare, a fronte del coronavirus, politica e scienza, di trovare un equilibrio tra esigenze di difficile compatibilità – il Paese che lavora a produce e il Paese che esige tutela della salute – ha dato prova di apprezzabile responsabilità, sollecitando e incalzando il Governo per sostenerlo, senza creare divaricazioni e proponendo un’agenda programmatica non di pura testimonianza nel segno di quel concretismo bersaniano e riformismo pragmatico di matrice emiliana ancorato ad una fede nelle ragioni storiche della Sinistra, nel contempo consapevole dei suoi limiti.
Per concludere: la necessità di una correzione e di una svolta nell’accidentato percorso del Governo Conte sta tutta nella delineazione di un progetto inclusivo di società che consenta progresso e sviluppo, stabilizzazione della maggioranza e recupero delle energie morali indispensabili ad un nuovo inizio della vita del Paese. Non c’è, infatti, oggi alternativa possibile, in tempi investiti, per dirla con Gramsci, da “fenomeni morbosi”, evidentemente non solo perché ammorbati dal coronavirus.
Paolo Corsini
7 Luglio 2020 at 12:04
Corsini parte dalla constatazione che il governo giallorosso è l’espressione di un “bipolarismo di costrizione”, e non l’espressione di un’idea condivisa di paese da perseguire insieme. Poi però, fatta una valutazione che mi pare eccessivamente ottimista sul ruolo presente, e soprattutto futuro, del premier Conte, “un ruolo quasi demiurgico”, sembra indicare che l’attuale alleanza Pd-M5S non solo non abbia alternative nell’attuale legislatura ma abbia un futuro davanti su cui il Pd debba impegnarsi, a cominciare dal voto alle prossime regionali e amministrative. Corsini, giustamente, chiede al Pd di avere più iniziativa politica e di non essere subalterno al M5S nelle scelte di governo, e propone l’istanza di un chiarimento di fondo su ciò che il Pd vuole davvero essere sulla scena della politica italiana, a partire da una valutazione critica dell’esperienza renziana; ma sembra indicare che vi sia una effettiva compatibilità tra il programma politico del Pd (una volta che lo si sia chiarificato ed espresso) e la proposta politica del M5S, del quale elenca i temi principali, senza alcun cenno critico, concludendo che da questo governo può venire, correggendo il tiro, “un progetto inclusivo di società che consenta progresso e sviluppo”. Io ho l’impressione che questa esperienza di governo, un governo di necessità nato per non rischiare di dare il paese in mano ai populisti di Salvini (e qui, poi, bisognerebbe, per coerenza, riconoscere a Renzi un merito), renda molto difficile al Pd di portare a compimento quella riflessione sincera su se stesso che sarebbe necessaria e renda molto difficile al Pd di fare al paese il discorso di verità che andrebbe fatto e sul quale impostare con coraggio quella politica di riforme (alcune anche impopolari) che sarebbe necessaria. Penso, dunque, che un conto sia la mediazione leale necessaria per portare avanti nel modo più fruttuoso possibile questa alleanza di governo e un altro conto, da non perseguire, sia prefigurare un’alleanza strategica tra Pd e M5S e immaginare un progetto di società da costruire insieme, nei territori e a livello nazionale.