Note sulle pagine introduttive di “Fratelli tutti”

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Quando Bergoglio si affacciò al balcone della basilica di S. Pietro e ci fu detto che aveva scelto di chiamarsi Francesco ricordo che pensai che ci voleva del fegato per fare quella scelta. Forse anche un po’ di presunzione… Era una scelta molto forte. Come pensare di poter essere coerente ad essa?

Molti gesti compiuti da papa Francesco sono poi andati in quella direzione. C’è stata una visibile, significativa presa di distanza da molti formalismi vaticani. Era difficile dare segni di semplicità francescana dovendo assumere il ruolo di pontefice, ma Bergoglio ha dato prova, con la sua spontaneità, di saperlo fare, e di farlo in modo autentico. Nel primo dei suoi principali documenti, da papa, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium – a mio avviso il più genuino e intenso, capace di rigenerare davvero il cammino della chiesa -, al santo di Assisi non ci sono che un paio di riferimenti espliciti, non cruciali. Poi, con la Laudato si’, Francesco viene in primo piano, e Bergoglio spiega di aver preso il suo nome “come guida e come ispirazione”, perché ritiene che Francesco “sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole”, e dunque per quella che Bergoglio, in quell’enciclica, chiama “una ecologia integrale”. “In lui – aggiunge – si riscontra fino a che punto sono inseperabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore”.

Ora, in Fratelli tutti, Bergoglio torna a Francesco. Riparte da lì. Evidenzia uno degli ammonimenti che Francesco rivolgeva ai suoi amici: quello che beato è colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui”. Cioè al di là di tutti i confini. Perché qui è l’essenziale: “riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita”. E così fu per il santo di Assisi: “Dappertutto – scrive Bergoglio – seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi”.

Si tratta, dunque, per il papa, di fare come Francesco. Farlo sul serio.

Poi ricorda un episodio della vita di Francesco, quando, in tempo di crociate, andò fino in Egitto per visitare il Sultano e stabilire una relazione fraterna con il mondo musulmano. Bergoglio commenta così: “Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio”, avendo compreso (e qui cita la seconda lettera di san Giovanni) che “Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui”. Dunque, non dottrine da imporre ma amore da comunicare. E, a questo proposito, Bergoglio fa una bella (e insolita) citazione da un libro del francescano francese Eloi Leclerc, morto recentemente.  Il libro si intitola Esilio e tenerezza (un termine, tenerezza, che papa Bergoglio, fin dall’inizio del suo pontificato ha usato molto spesso). La citazione Bergoglio la fa per indicare come debba essere intesa, e vissuta, la paternità (nella chiesa e non soltanto nella chiesa): “Solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente se stesse, si fa realmente padre”. E’ così che la paternità è feconda. E si potrebbe dire, allo stesso modo, per la fraternità. Così fu per Francesco. E così Bergoglio cerca di fare.

 

Colpisce, nelle pagine introduttive dell’enciclica, la semplicità e la franchezza con cui Bergoglio spiega come l’enciclica è nata. Dice che le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le sue preoccupazioni, e che negli ultimi anni ne ha fatto riferimento in più occasioni. Egli, dunque, ha voluto raccogliere questi suoi interventi, sparsi qua e là, in questa enciclica. Quindi non cose nuove, ma cose raccolte e collocate “in un contesto più ampio di riflessione”. E, forse, si deve a questo genere letterario particolare – un testo pieno di citazioni di interventi precedenti, fatti in contesti diversi – se la lettura dell’enciclica è, qua e là, un po’ faticosa e non ha la freschezza e l’unità interna di un testo autenticamente originale, redatto in una stessa unità di tempo. Ma non è il caso, ad esempio, delle pagine introduttive.

Semplicità e franchezza colpiscono anche nelle parole con cui Bergoglio rivela gli stimoli che ha ricevuto e che ha raccolto nello stendere l’enciclica. Racconta che, se per la Laudato sì la fonte di ispirazione era stata il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, uomo assai sensibile alla spiritualità ecologica e “che ha proposto con molta forza la cura del creato”, ora l’ispirazione, lo stimolo sono venuti dal Grande Imam Ahmad Al-Tayeb. Perché lui? Perché, dice Bergoglio, con lui nel febbraio del 2019 si era incontrato ad Abu Dhabi per ricordare insieme che “Dio ha creato tutti gli uomini uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro”. E questa è, per l’appunto, una citazione dal “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”, che entrambi firmarono in quell’occasione. Non fu un atto diplomatico, sottolinea Bergoglio, ma un dialogo da cui è scaturito “un impegno congiunto”. E l’enciclica, dunque, raccoglie e sviluppa temi che sono esposti in quel documento comune.

Con uguale franchezza Bergoglio dice di aver recepito anche suggerimenti contenuti in lettere e documenti che ha ricevuto da ogni parte del mondo, Ma, certo, dice, l’ho fatto “con il mio linguaggio”.

 

Che “valore” dà Bergoglio a questa enciclica? “Le pagine che seguono – scrive – non pretendono di riassumere la dottrina sull’amore fraterno”, perché il punto su cui insistono è la dimensione universale di questo amore, la sua “apertura a tutti”. Queste pagine vanno intese – e lui così le intende – “come un umile apporto alla riflessione”. Ciò cui il papa tiene è che noi, “di fronte ai diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri”, si sia “in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità (nuovo dopo quello che animò Francesco, ndr) e di amicizia sociale che non si limiti alle parole”. Questo, sì, sta davvero a cuore a Bergoglio: che non si facciano solo parole. E, di nuovo con una sorta di candore, spiega che questa lettera ha cercato di scriverla in modo che la riflessione potesse aprirsi al dialogo con tutti. “pur avendola scritta – dice – a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono”.

 

Le poche pagine di premessa all’enciclica (che si sviluppa in otto capitoli) si concludono con un cenno all’epidemia in corso. Il Covid-19 ha fatto irruzione, dice, “mentre stavo scrivendo questa lettera”; e aggiunge che il virus “ha messo in luce le nostre false sicurezze”, come pure l’incapacità dei paesi di reagire insieme “malgrado – annota – si sia iperconnessi”. Bergoglio ha una convinzione netta: adesso non si tratta solo e tanto di “far funzionare meglio quello che già facevamo”. “E’ il tempo – dice – di far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità”. Dobbiamo cercare di farlo, aggiunge, “in questo tempo che ci è dato di vivere”; e lo si può fare solo “riconoscendo la dignità di ogni persona umana”.

La dignità di ognuno è davvero la chiave.

Il sogno cui Francesco ci invita, fatto non solo di parole, è a riconoscersi “come viandanti fatti della stessa carne umana”, “come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la sua ricchezza, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!”.

Ciascuno. Ognuno. E’ il filo conduttore dell’enciclica.

 

Giampiero Forcesi

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