Riprendiamo dal bel sito www.finesettimana.org dell’associazione culturale “Don G. Giacomini” di Verbania Pallanza, un articolo, pubblicato su “Europa”, di Massimo Faggioli, professore di Storia del cristianesimo alla St. Thomas del Minnesota e autore di Breve storia dei movimenti cattolici (Carocci). La “guerra culturale” dei repubblicani contro il presidente Obama per “riprendersi l’America” – scrive Faggioli -, sembra giovarsi di uno “spirito del tempo” teologico che, per qualche aspetto, pare a loro favorevole. Un dilemma per le chiese…
di Massimo Faggioli in “Europa” del 28 gennaio 2012
L’identità culturale, politica e civile di un presidente degli Stati Uniti incarna, in un modo unico tra le democrazie occidentali, un determinato momento nella storia del paese. Da questo punto di vista fa impressione confrontare il dna politico e civile di Barack Obama con quello degli attuali candidati alla nomination repubblicana.
Nel 2008 Obama venne eletto per molti motivi. Uno di questi fu il rigetto dell’innesto neoconservatore della scuola Bush-Rove da parte del corpo politico americano. Ma a guardare alla storia sociale americana nel corso dell’ultimo secolo, tre elementi spiccano chiaramente come punti di contrasto tra la biografia di Obama e la proposta dei candidati repubblicani.
Il primo elemento è l’eredità del social gospel di inizio Novecento: la riscoperta della “questione sociale” da parte delle chiese in America costituiva un anello di quella catena spirituale-intellettuale che connette i padri fondatori con l’esigenza, tipica di un paese-chiesa come gli Stati Uniti, di fare dell’America un posto moralmente migliore. Il social gospel usciva dall’ottica individualista per muovere il discorso sulle condizioni sociali fuori dalle secche della esclusiva responsabilità dei singoli, e inquadrava sia i problemi sia le soluzioni in un quadro di responsabilità comuni. L’esperienza di Obama come community organizer a Chicago era figlia di quella sensibilità social gospel.
Il secondo elemento è il Cold War protestantism degli anni Cinquanta che faceva i conti con la cattiva coscienza d’America e tentava di non raccontarsi più la favola del “destino manifesto” di una nazione al di sopra delle leggi della morale. La famosa intervista di Obama con David Brooks del New York Times nel 2007, in cui il giovane senatore indicava nel teologo protestante Reinhold Niebuhr il suo pensatore di riferimento, era il manifesto intellettuale della politica estera di Obama. Reinterpretata magistralmente nel discorso di accettazione del premio Nobel del dicembre 2009, quell’anima realista, conscia dei paradossi che intristiscono ogni lotta armata per il bene (compresa la lotta dell’America per la libertà e la democrazia), rappresentava il compromesso necessario tra brusco risveglio dalle guerre di Bush e fedeltà al destino geopolitico degli Stati Uniti.
Il terzo elemento è l’eredità del civil rights movement degli anni Sessanta, quando il paese aveva superato l’eredità della guerra civile sulla segregazione razziale per tentare di liberarsi di uno dei peccati originali degli Stati Uniti. Per ragioni autobiografiche ma non solo, Obama si è definito come colui che sta «dall’altra parte del ponte» di Selma, in Alabama, dove l’America prese coscienza, grazie alle immagini televisive, della brutalità della segregazione razziale.
I candidati repubblicani rappresentano l’eredità culturale di un’altra America, esattamente opposta. Se i due candidati cattolici Santorum e Gingrich fanno propri codici di linguaggio a sfondo razzista, Romney e Paul predicano un’idea di società ridotta a società per azioni, nella quale i cittadini vengono dopo i consumatori, e i consumatori vengono dopo gli azionisti.
La predicazione da parte di tutti i candidati repubblicani del ritorno ad una società pre-rooseveltiana implica una liquidazione di quegli elementi che hanno fatto dell’America un paese occidentale, non meno del libero mercato: social gospel, realismo morale della guerra fredda, e movimento per i diritti civili. A questo pensano i candidati repubblicani che vogliono “riprendersi l’America”. Bisognerebbe avvisare quei pulpiti che da tempo predicano la “guerra culturale” contro gli anni Sessanta, sospinti dal vento di un pontificato e di uno Zeitgeist teologico a loro favorevole: forse non lo hanno ancora capito, ma l’entusiasmo dei culture warriors mira a travolgere anche le fondamenta delle loro chiese.