È l’Europa da fare la risposta vera alla tentazione dell’antipolitica
Condivido in pieno quello che ha scritto Marisa Rodano rispetto alla già buona proposta di Formigoni. In realtà tutta l’analisi centrata sulla prevaricazione istituzionale di fatto prodotta da una unificazione crescente del globo operata dai poteri economici senza un reale funzionale, potere politico internazionale (se non attraverso impotenti summit senza reale volontà di intervento) è insieme un dato vecchio, ma si presenta ormai nella sua clamorosa, disastrosa efficacia in termini nuovissimi quanto a verificabilità concreta. Lo sentivamo in tanti, nella svolta fra la fine degli anni 70 e gli anni 80, l’arretramento della politica mondiale, in cui perfino la cosiddetta fine della guerra fredda con la caduta del muro di Berlino, l’apparente vittoria delle democrazie occidentali, finiva con l’essere vissuta più in chiave plutocratica che democratica.
La sfida vera che abbiamo di fronte, del resto, anche sul terreno nazionale, quella che chiamiamo, con un filo di fragile speranza, la fine del berlusconismo che cosa è, se non l’aspetto più volgare, esplicito, al limite dell’irridenza e della immoralità, di questo progressivo spegnersi delle speranze del 1945?
Dunque non si esce da tutto questo da soli; e c’è un filo che lega le contraddizioni economiche, il confuso immaginario collettivo trasmesso dalle tecnologie digitali, le fragili primavere arabe e l’impotenza europea. A me questi rischi hanno già fatto sentire come urgenti almeno due messaggi che voglio qui riprendere come possibili forme di una militanza politica da recuperare in senso collettivo. Li riassumo così.
1. L’Europa e il mito dello Stato nazionale
La scelta europea non è una scelta fra le tante, su base pragmatica e funzionale: coincide con la domanda di buona politica. Nasce dalla consapevolezza dei limiti dello Stato nazionale, con i suoi residui di concentrazione della sovranità, il suo concetto del potere, l’esasperazione delle conflittualità interne e internazionali, ideologiche o di classe, come dati della politica tout court.
La tragedia della seconda guerra mondiale, dopo la prima, mise in evidenza, intuito anche quando non consapevolmente esplicito, il rapporto stretto fra mito dello Stato nazionale onnipotente e violenza politica di fatto, e precostituì una consapevolezza diffusa del mutamento della politica internazionale.
Dalla Carta Atlantica in poi, questo fu il segnale raccolto dalle giovani generazioni più impegnate. Ne vorrei citare solo uno, su cui ho recentemente lavorato. Ancora nel gennaio 1945 Aldo Moro, dirigente di un’associazione cattolica, scriveva: «il nostro posto è all’opposizione, il nostro compito è al di là della politica». «Come siamo stati, così saremo sempre all’opposizione, senza egoismo, senza timore, senza speranza. Crediamo di assolvere così un’essenziale funzione di chiarificazione e purificazione. Crediamo di costituire una riserva perenne contro la disperazione dello scetticismo». Ma già nel 1944 a Bari aveva scritto su un giornale giovanile presentando il testo integrale della Carta Atlantica, di Roosveelt e Churchill, del gennaio 1941, che prefigurava l’ONU, sottolineando l’importanza del porre su un terreno nuovo il rapporto fra gli Stati: «Così la politica si umanizza e diventa valore fondamentale della vita. Così soprattutto si spoglia di quel tanto di duro e oscuro che suole accompagnarla, dell’uso costante dell’inganno per ammorbidire e della forza cui segue la causa dell’ingiustizia».
E’ lo stesso spirito che anima, tanti anni dopo, la suggestiva espressione di Tommaso Padoa Schioppa su l’ “Europa forza gentile”, malgrado tanti ritardi e difficoltà.
La democrazia è buona perchè governa i conflitti non solo pacificamente ma nell’interesse collettivo: questo perché il competitore non è visto come un nemico, né solo come un ostacolo, ma come un sodale a cui siamo uniti da un comune interesse umano. La strategia della pacificazione esige attenzione alle ragioni dell’altro, insieme alla coerenza e fermezza delle proprie, realismo delle possibilità concrete, competenza negli effetti delle mediazioni, ed esclude la cattura scorretta del consenso, il disprezzo dell’avversario, il primato dell’interesse personale e così via. E si tratta spesso di pratiche che, quando diffuse, condizionano inevitabilmente anche il comportamento dei migliori, riducendo il valore delle buone pratiche a premessa di sconfitte.
Non è un metodo facile, ma è, ne sono convinta, quello che consentirebbe non solo un mondo più umano, ma più efficacia di risultati.
Il ritardo, fino all’arretramento, della costruzione europea, è legato soprattutto alle illusioni di poter fare politica entro un contesto nazionale. Ma quanto gioca, contro il trasferimento sovranazionale di poteri, il dato che chi fa politica si muove con sicurezza sul piano nazionale – entro l’intrico dei rapporti di forza, degli interessi, delle lobbies, del controllo dell’informazione e delle tecniche di consenso, delle rivalità personali – mentre dovrebbe affidarsi assai più alla sostanza reale dei problemi sul piano europeo?
L’ambizione della costruzione europea esige un mutamento radicale delle pratiche della conquista e dell’uso del potere che è del resto ormai anche una questione vitale, evidente nella coscienza collettiva.
Insomma è l’Europa da fare la risposta vera alla tentazione dell’antipolitica.
2. Europa e ONU
Il secondo messaggio che vorrei potessimo mandare è che, entro la fragilità e incompiutezza della costruzione dell’Europa come soggetto politico, il dato allarmante non è solo relativo alla politica interna ma anche alla politica internazionale. E’ un fatto, perfino insufficientemente commentato e analizzato, visto quasi come ovvietà, che non c’è alcuna idea politica comune intorno alla questione “Cosa fare dell’ONU e perchè?”.
Il primo rilievo è che non sembra ci sia nemmeno la consapevolezza del nesso strategico e ideale fra la funzione storica dell’ONU e il progetto europeo. Eppure è ovvio che nascono dalla stessa elaborazione di cultura politica, convergente nel superamento dell’autosufficienza della stato nazionale e nella costruzione della pace. Non a caso lo stesso statuto ONU prevedeva (è ancora uno dei passaggi iniziati e irrisolti) la costruzione di organismi regionali in grado di gestire autonomamente le crisi regionali.
Eppure, malgrado qualche segnale, in altri decenni, di cooperazione politica in sede ONU, nei decenni più recenti è sembrato progressivamente ridursi l’attenzione alla costruzione di un disegno comune per il rafforzamento della sua funzione. Molti strumenti di cooperazione internazionale, e non a caso soprattutto economici, si muovono fuori della logica ONU; anche i vari incontri di Grandi, siano sei, dodici, venti, e magari anche qualcuno di più se serve, scavalcano la logica universalistica.
Perfino sul problema della riforma del Consiglio di sicurezza i paesi europei non sono riusciti a avanzare una proposta comune, corrispondente a una strategia comune. L’egida ONU sugli interventi di polizia internazionale è largamente formale, in assenza di un esercito davvero comune, pure previsto nel progetto iniziale. Questo oltre tutto ritarda il rinnovamento sistematico della cultura militare fra i diversi operatori nazionali (strumenti, tecniche, strategie, forme d’intervento) mentre le operazioni di polizia internazionali, in particolare nei casi di conflitti civili armati, e di terrorismo, non possono essere pensate come la guerra classica.
Fare l’Europa, dovremmo tutti avere più coscienza di questo, è dare anche piena vita all’ONU.
Paola Gaiotti De Biase