Parole controcorrente

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La politica ancora mi occupa e mi prende. E’ una “malattia” dalla quale non si guarisce. Anche quando si sentono distanti o addirittura estranei la forma e i linguaggi che essa va assumendo. E tuttavia sempre più mi vado convincendo che, per decifrarne i codici, si debba gettare lo sguardo a monte e al fondo di essa. E’ mia abitudine, essendo io di vecchia generazione, mettere da parte articoli di giornale – sì, i ritagli di carta – sui quale ho l’impressione che meriti tornare. A posteriori, mi sono reso conto di avere così accantonato cinque ritagli che, a prima vista, non hanno a che fare con la politica contingente, ma che, a ben vedere, gettano luce su di essa assai più degli editoriali stricto sensu politici. Ecco una piccola rassegna. E’ l’elogio di cinque parole-virtù decisamente controcorrente.

La pazienza. Mi sono imbattuto nella recensione di un libro di Gabiella Caramore sulla “Pazienza”. Virtù inattuale. Vi si legge che “saper attendere è un atto politico”; che la pazienza è la virtù di due miti fondativi della nostra civiltà, Ulisse e Mosè; che senza pazienza non vi sarebbero arte, pensiero, legame amoroso; che di essa si alimenta la cura per i piccoli. E’ la condizione per praticare una feconda “libertà generativa” (Mauro Magatti), nell’educazione e nella politica. E’ l’opposto della velocità, di chi fa surf sulla superficie delle cose.

Il distacco. Riflettendo sull’altra faccia delle tecnologie comunicative e digitali, Giovanni Reale, maestro della filosofia antica e della sapienza greca, che se n’è andato di recente, citando Heidegger e Gadamer, asserisce che “quando un tocco di bottone rende raggiungibile il vicino, questi sprofonda in una lontananza irraggiungibile”, tutto si confonde nell’anonimato e nell’uniformità senza distacco. E’ la condizione di chi è sempre connesso, di chi è immerso in un flusso informativo istantaneo e permanente. Solo la distanza può propiziare una reale prossimità con le persone. Solo staccando la spina si può recuperare una qualche autonoma elaborazione. Ho ragione di ritenere che i devoti del web, politici e non, avrebbero a che ridire.

Il rispetto. Claudio Magris ha segnalato la smania degli attuali leader di essere amati, l’“eccitata sentimentalità del capopopolo che si presenta come uno di noi”. L’ambizione di sedurre, anziché convincere. Cosa affatto diversa dal rispetto che instillano uomini di governo il cui consenso fa leva sulla loro severità e autorevolezza. Da De Gasperi a Berlinguer sino, perché no, alla Merkel. Leader consapevoli che talvolta i loro “doveri di stato” entrano in tensione con la brama di piacere e che il facile consenso è effimero, nonché cattivo consigliere.

La memoria. Devo a uno scritto dell’amico Gianandrea Piccioli la citazione di una pagina di Hannah Arendt: “pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo da non essere travolti da quanto accade”. Pensare è ruminazione dell’esperienza. Non la rincorsa affannosa della novità del giorno. Non la furia rottamatrice. Non la presunzione che la storia cominci con noi.

La dialettica. Ovvero la cura per la differenza. Secondo De Rita, il panorama culturale (e politico) è piatto e desolato: “tutto è fluido, tattico, improvvisato, senza alcuna sede che faccia da crogiuolo delle diverse posizioni in campo … siamo pieni di partiti nei quali non c’è alcuna dialettica interna … ci si orienta verso un regime da partito unico”. Osservazione che ci riconduce alla congiuntura politica. Al patto del Nazzareno. A una malintesa idea di “partito della nazione”, quasi ignorando che la democrazia è competizione/conflitto tra parti. Alla teoria, formulata senza la consapevolezza della portata patologica di essa, che all’attuale assetto politico non vi sarebbero alternative. Norberto Bobbio, che pure non era un giacobino, semmai un maestro della democrazia liberale e un censore del massimalismo di certa sinistra, tuttavia sosteneva che la “discordia”, cioè il confronto tra le differenze, è condizione e presupposto delle moderne democrazie.

Cinque parole, cinque chiavi di lettura del nostro tempo che, come si diceva, trascendono la politica, ma forse la illuminano più delle analisi di politologi e politici. Cinque virtù (e corrispettivi vizi) sulle quali meriterebbe riflettere.

Franco Monaco

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