Le recenti elezioni politiche hanno lanciato nuovi segnali riguardo la scarsa partecipazione degli italiani alla politica, anche al semplice, ma fondamentale momento del voto.
Mai si era registrata un’affluenza così bassa alle elezioni politiche e mai si era registrata una campagna elettorale così concentrata sui leader e su occasioni di comunicazione slegate dalla presenza fisica di candidati ed elettori. I partiti sono stati messi in secondo piano dai leader e i candidati, complice una sciagurata legge elettorale, non hanno, salvo poche eccezioni, fatto campagna elettorale. D’altronde, l’unica possibilità per l’elettore era quella di mettere una croce sul simbolo del partito prescelto con conseguente votazione a strascico per l’uninominale e il proporzionale.
Le elezioni del 25 settembre 2022 sono però solo l’ultima tappa di un percorso che già da tempo ha portato i partiti ad abbandonare un reale radicamento territoriale e gli elettori ad allontanarsi dalle istituzioni.
Una situazione preoccupante per chi ha sempre creduto a ciò che la Costituzione prevede a livello di partecipazione popolare, a livello sociale, economico e politico.
I partiti avrebbero dovuto favorire la partecipazione dei cittadini e consentire alla società di portare le proprie istanze all’interno delle istituzioni. Per qualche decennio i partiti hanno svolto una funzione di mediazione, anche in virtù della forte contrapposizione ideologica e del forte senso di appartenenza culturale delle masse popolari di allora. Negli ultimi anni, il rischio è che i partiti siano diventati, nella migliore delle ipotesi, dei semplici comitati elettorali, pronti ad attivarsi solo per garantire l’elezione dei propri candidati.
Come uscire da questa situazione per recuperare lo spirito di partecipazione auspicato e previsto dalla Costituzione?
Un primo elemento di riflessione riguarda la democrazia interna ai partiti e la possibilità di vedere applicate regole democratiche per la selezione della classe dirigente. Al di là di affermazioni di principio o iniziative formalmente volte alla promozione dell’attenzione ai giovani, la sensazione è che le dinamiche interne dei partiti siano bloccate da leadership personali, in alcuni casi al limite del padronale, o da gruppi di potere interni destinati a bloccare qualsiasi reale ricambio o rinnovamento.
Un passo significativo potrebbe essere quello di attuare quanto previsto dall’articolo 49 della Costituzione riguardo la democraticità dei partiti.
Negli anni si sono anche individuate da parte di alcuni partiti e movimenti alcune forme di partecipazione più ampia, sia nella definizione della posizione politica sia nella scelta dei candidati alle cariche monocratiche piuttosto che ad altri appuntamenti elettorali. Non sempre, però, l’utilizzo di questi strumenti si è poi trasformato in autentici percorsi di coinvolgimento di iscritti o simpatizzanti nelle scelte decisive per la vita dei partiti.
Sarebbe utile aprire una riflessione sul significato e l’utilizzo delle primarie, per quanto riguarda il PD, che le ha molto evocate, ma utilizzate ad intermittenza, e della piattaforma Rousseau da parte del Movimento 5 Stelle, strumento interessante, ma utilizzato in modo opaco e improvvisato. Ricorrere con troppa disinvoltura a una piattaforma di questo tipo potrebbe portare ad un’eccessiva disintermediazione e alla polverizzazione della vita di un partito, ma sarebbe comunque un passo avanti rispetto a scelte fatte in maniera opaca e calata dall’alto.
Le Agorà democratiche sono state un interessante esperimento di democrazia partecipativa, ma l’impressione è che non si siano trasformate in un dibattito davvero diffuso all’intero corpo del Partito Democratico. La stessa impressione, d’altronde, ha destato anche la ben più strutturata consultazione per il futuro dell’Europa promossa dalla Commissione Europea con l’utilizzo della medesima piattaforma scelta per le Agorà. Lo strumento informatico può essere molto utile, ma non può certo sostituire la vita reale di un partito che si deve basare anche su incontri e sedi fisiche sul territorio se non vuole smarrire la propria capacità di creare aggregazione e mobilitazione delle persone o, almeno, quanto resta di questa.
I partiti faticano sempre più a proporsi come i veicoli per portare nelle istituzioni le istanze della società civile e rischiano, come detto, di attivarsi solo in occasione degli appuntamenti elettorali. Non si ha più traccia, salvo poche eccezioni, di attività di studio e approfondimento da parte dei partiti che si limitano a rilanciare riflessioni che provengono da altre realtà senza essere reali protagonisti di una riflessione capace di proporre convincenti visioni per il futuro del Paese ed espressioni di posizioni magari diverse, ma che si rispettano sulla base della comune volontà di costruire un percorso comune.
In questo panorama, sarebbe interessante capire quale contributo possa portare la cultura politica che fa riferimento al cattolicesimo democratico.
Può bastare un impegno, peraltro non molto efficace negli ultimi tempi, affinché vengano eletti esponenti cattolici? Non ne sono per nulla convinto.
Credo, inoltre, che non possa bastare neppure il pur prezioso e meritorio impegno di centri culturali o associazioni di riflessione politica che rischiano di rimanere elitarie se non c’è un rinnovato impegno a trattare temi di carattere socio-politico all’interno delle comunità cristiane di base. La Dottrina Sociale della Chiesa è una delle grandi assenti nei percorsi formativi e nel dibattito interno a parrocchie, associazioni e movimenti. Questa assenza si trasforma in crescente indifferenza per i temi sociali e politici e, probabilmente, anche in una maggiore propensione a disertare gli appuntamenti elettorali.
Non ci si potrà neppure rammaricare per lo scarso contributo dei cattolici in politica se è la comunità cristiana per prima ad essere poco significativa o incapace di fornire un’autentica testimonianza della differenza cristiana che vada oltre la ripetizione di riti e tradizioni.
Fabio Pizzul