di Domenico Rosati, in “l’Unità” del 21 febbraio 2012
Fa una certa impressione constatare come si vada estendendo (anche su l’Unità) il dibattito sul pensiero sociale della Chiesa in collegamento con le più acute questioni d’attualità, articolo 18 incluso. Il fatto in sé è positivo perché mette in circolazione concetti in genere più elevati di quel che passa il convento. Ma la sua diffusione suggerisce qualche cautela per evitare alcuni effetti collaterali che i fruitori cattolici della dottrina ben conoscono e non sempre riescono a schivare. Si tratta della tentazione di acquisire le indicazioni del magistero a supporto di tesi o posizioni politiche, in modo da farle apparire come le più conformi o le meno distanti dal magistero stesso. Il corollario è in genere quello della captazione del “consenso cattolico”. Abitudine antica. Ai tempi della riforma agraria i fautori del diritto di proprietà (ogni epoca ha le sue certezze non negoziabili) lanciavano anatemi contro quei cattolici che avevano una concezione più flessibile e ritenevano che, per un fine superiore di giustizia sociale, una parte almeno del latifondo potesse essere espropriata a vantaggio dei contadini senza terra. I fondamentalisti della dottrina, un po’ come certi «sfogliabibbie» del Mid West giungevano persino a scoprire in essa i criteri per quantificare in ettari la superficie delle quote da assegnare. Ma non fu una disputa inutile. Servì a dimostrare, empiricamente, che alla dottrina della Chiesa si possono chiedere indicazioni sull’orientamento da seguire e sulla meta da raggiungere, ma non le opzioni strumentali (tecniche si diceva, ma erano politiche) da adottare per compiere l’opera.
A guardar bene, la lezione è valida anche per l’oggi, sia per chi si lascia guidare da un’ispirazione religiosa, sia per chi cerca, nell’insegnamento della Chiesa una traccia di umanità di valore universale. Ma la tentazione di combattere la guerra delle citazioni resta forte e non è agevole schivarla perché gli esperti del prontuario sono sempre all’opera. Volendo, ad esempio, asserire che esiste il diritto di lavorare, ma non il diritto al posto di lavoro (distinzione tutta teorica perché in genere chi ne ha bisogno si mette in cerca del “posto”) si evoca il numero 48 dell’enciclica Centesimus annus: e lo si fa per sostenere che se lo Stato garantisse per tutti un posto di lavoro ne deriverebbe una limitazione della libertà e della creatività delle persone. Vai a controllare il testo e trovi che l’esplicita preferenza per l’economia di mercato è bilanciata da un robusto catalogo di compiti affidati allo Stato, tra i quali quello di «assecondare l’attività delle imprese, creando condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola dove essa risulti insufficiente e sostenendola nei momenti di crisi». Tutto ciò ad esplicita confutazione della tesi di chi sostiene che lo Stato non abbia alcuna competenza in economia «come hanno affermato i sostenitori di un’assenza di regole nella sfera economica».
E qui va opportunamente ricordato che proprio attorno alla Centesimus annus si è consumato il disegno di una lettura mercatista della dottrina e ciò è avvenuto anche in Italia sulla scia della teoria del «capitalismo democratico» che fa capo a Michael Novak. Si è operata, infatti, un’indebita divisione in due di un paragrafo (il 42) enfatizzando la prima parte, secondo la quale il capitalismo è cosa buona se realizza «la libera creatività umana nell’economia» e dimenticando la seconda, in cui se ne nega la bontà se manca «un solido contesto giuridico che metta l’attività economica al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà». Si è trattato di una scissione concettuale paragonabile, se è consentito, all’operazione con cui Berlusconi (mimato ultimamente da Celentano) enfatizzava l’articolo 1 della Costituzione là dove proclama che «la sovranità appartiene al popolo» e lo ignorava per la seconda parte, dove precisa le modalità ne i limiti d’esercizio del potere sovrano.
Partendo da tale sdoppiamento teorico si è giunti persino a fissare uno spartiacque tra una vecchia e una nuova dottrina: quella sostanzialmente anticapitalista, questa esplicitamente procapitalista. Una forzatura che non sempre è stata segnalata e le cui tracce sono evidenti anche in alcune delle elaborazioni attuali. In realtà, se si tiene ferma la bussola sul principio fondante del pensiero cristiano – la dignità della persona – molte scorie si perdono per via e con esse gli argomenti a supporto di questa o quella soluzione di problemi specifici. Si può insomma essere a favore o contro il mantenimento dell’articolo 18 senza scomodare la dottrina; che però non si può eludere quando domanda se una determinata scelta accresca o depauperi il tasso di sviluppo umano nella società. Ed è in questo spazio che si esercita la responsabilità del discernimento politico.