Anche a partire da una sollecitazione di Franco Monaco, pubblicata su questo portale il 2 dicembre scorso (Patrimoniale, battaglia cattolica “non negoziabile”) e poi riproposta dall’autore su altri organi stampa, l’Azione Cattolica ambrosiana e l’Associazione Città dell’uomo propongono oggi al paese una prova concreta di solidarietà, una mobilitazione collettiva, di fronte alle drammatiche conseguenze sociali della pandemia che hanno colpito in particolare alcuni settori della popolazione: lavoratori dei servizi, artigiani, lavoratori autonomi, piccole imprese; e, in questi ambiti, soprattutto i lavoratori già precari e le donne. La proposta è quella di un “contributo di solidarietà”, un’imposta progressiva, di durata biennale, a carico di lavoratori, pensionati e imprese, fatti salvi i percettori di redditi modesti.
1) La sfida da vincere
La pandemia da Coronavirus Covid-19, che molti pensavano di potersi lasciare alle spalle dopo pochi mesi, continua a mietere vittime e a colpire inesorabilmente, soprattutto le persone più fragili. Nel nostro Paese la campagna vaccinale procede lentamente, con deprecabili intoppi di vario genere. Ciò non permette, ad oggi, di fare previsioni precise sulle possibili ripartenze a pieno regime di molte attività.
Nelle ultime settimane, il disagio è cresciuto in modo esponenziale e l’iniziale crisi sanitaria, diventata poi crisi economica, si sta trasformando sempre più in profonda crisi sociale. Le manifestazioni di piazza, fortunatamente ancora contenute, sono segnali preoccupanti di gravi difficoltà da parte di categorie di lavoratori e lavoratrici che fanno fatica ad andare avanti. Al netto di deplorevoli ritardi, gli interventi straordinari di sostegno economico erogati dallo Stato rivestono un significato apprezzabile, ma soltanto lenitivo di condizioni variamente precarie.
Accanto alla campagna vaccinale, da potenziare e accelerare sull’intero territorio nazionale, superando le troppe inefficienze e “furbizie” registrate, il punto decisivo per rimontare la china di una crisi senza precedenti resta la questione lavoro. Comprensibilmente, le categorie più penalizzate da mesi di direttive governative e regionali stop and go (commercio, ristorazione, servizi alla persona, turismo, cultura, sport, spettacolo…) mordono il freno. Attendono dalle autorità competenti parole che offrano certezze sulla pur graduale riapertura, nel rispetto dei vincoli di sicurezza.
Il lavoro, dunque, con il suo ventaglio di attività produttive e commerciali da rimettere in assetto di marcia, resta volano decisivo per l’improcrastinabile rilancio del sistema-Paese.
La proroga della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti tempera, momentaneamente, le tensioni latenti fra molti lavoratori e lavoratrici, consapevoli, una volta ripiegate le reti di protezione, del rischio di “finire sulla strada”. Con esistenze personali e vite familiari inevitabilmente sconvolte. E il rischio, nel caso di dismissioni complete di attività aziendali, di vedere messi di colpo sottosopra consolidati assetti socio-territoriali.
Bisogna inoltre fare i conti con sensazioni, sentimenti e disagi diffusi, che la pandemia ha ingigantito, intaccando la fiducia personale e quella collettiva, “beni” immateriali indispensabili per ogni ripresa. La paura del futuro e il timore di non farcela, come naufraghi alla deriva, stanno fiaccando molti. Anche questo fronte di malesseri “nascosti”, eppure tanto insidiosi, va, dunque, presidiato e monitorato con cura.
2) Lezioni da apprendere
Il virus ha messo a nudo quanto abbiamo costruito negli ultimi decenni: l’impalcatura, cioè, di una società caratterizzata da profonde diseguaglianze, da un individualismo spinto e dalla cieca fiducia in un mercato libero di autoregolamentarsi, dove economia e finanza tendono a produrre ricchezza fine a sé stessa, da spartirsi fra poche persone e poche imprese. Questa impalcatura ha finito con il produrre un sistema in cui privato e pubblico, profitto e “bene comune” risultano divisi. Con la persuasione, tanto ideologica quanto fallace, di un progresso indefinito per l’individuo e la società nel suo insieme, a patto di non “frenare” la crescita economica dei liberi scambi.
L’emergenza pandemica ha inoltre evidenziato la crisi dei sistemi di welfare, indeboliti negli anni da crescenti tagli di spesa. Quanto al caso specifico del nostro comparto sanitario, soggetto negli ultimi decenni a una logica di privatizzazione e di competizione tra territori, abbiamo toccato con mano due limiti evidenti. Primo: la costruzione e il consolidamento di poli ospedalieri – privati e pubblici – di eccellenza, a scapito dello sviluppo di una sanità territoriale e di prossimità, in alcune zone del Paese drammaticamente lacunosa (emblematico il caso-Lombardia); secondo limite: un’organizzazione regionale della sanità impermeabile alle esigenze di coordinamento nazionale, anche perché ostaggio di una costante propaganda politica, che nella stessa vicenda pandemica non desiste dal perseguire interessi di parte.
Di fronte ai problemi scoperchiati dalla crisi si è compreso che nessuno può farcela da solo. La questione della solidarietà, intesa su larga scala, ha guadagnato spazio nel dibattito pubblico. È riemerso, in particolare, il ruolo decisivo degli Stati nazionali e degli organismi internazionali (Unione Europea, in primis) per affrontare l’emergenza sanitaria e sostenere quanti (persone, famiglie, imprese, enti) si sono trovati improvvisamente in difficoltà. Con la consapevolezza, tuttavia, che, accanto ai pur doverosi contributi di sostegno, occorrano interventi economici di ampio respiro per favorire una solida ripresa specialmente nei settori strategici ai fini dello sviluppo.
3) Contributo di solidarietà. Perché no?
In questi giorni si torna a parlare di “riaperture”. È in sé un buon segnale. Fra quelle più urgenti, oltre ai già citati comparti in grave sofferenza, vanno annoverate le scuole.
La didattica a distanza ha in qualche modo tamponato il rischio irreparabile di chiusure ancora più drastiche. Ma sono chiari anche i limiti intrinseci dell’insegnamento/apprendimento on-line. Il principale, ovviamente, è che non consente la relazione personale dal vivo. Di alunni e studenti con maestri e professori, nonché con i propri coetanei. Solo la scuola in presenza assicura i rapporti fra pari, avvertiti, pur con diverso grado d’intensità, dai bambini/fanciulli della primaria agli adolescenti/giovani delle superiori, come esperienze indispensabili per la crescita.
Istruiti, poi, dalla drammatica vicenda pandemica, ci siamo resi conto ‒ si diceva sopra ‒ delle falle del sistema di welfare: sul versante sanitario, ma non solo. Cosicché, appena l’emergenza consentirà di respirare e svolgere analisi serie su quanto accaduto, occorrerà predisporre gli adeguati interventi riformatori. Qui si misurerà la capacità progettuale e decisionale della politica, delle istituzioni, degli apparati burocratici.
Per l’Italia, un vero e proprio banco di prova, che deciderà non poco del prossimo futuro, è inoltre l’opportunità offerta dai cospicui fondi previsti dal piano Next Generation Eu. Riusciremo a impiegarli con lungimiranti progetti nei settori (economia green, digitale, infrastrutture, pubblica amministrazione…) decisivi per lo sviluppo e secondo modalità di efficiente trasparenza, resistendo ai presumibili tentativi di “assalti alla diligenza”?
Da ultimo, un punto che ci sta molto a cuore e in rapporto al quale scaturisce la nostra proposta. È venuto il momento in cui politica, Governo e Parlamento, oltre ad avere dato il via libera agli indispensabili sostegni lenitivi una tantum per soggetti e categorie duramente colpiti dalla crisi, provino a interrogarsi e attivarsi su un problema centrale del sistema-Italia: le numerose diseguaglianze (socio-economiche, culturali, educative…), inasprite nell’ultimo anno e all’origine di rabbie, rancori, frustrazioni, senso di estraneità, dagli sbocchi imprevedibili e pericolosi.
Come ridurle? La questione è, notoriamente, molto complessa e, in prima istanza, riguarda ‒ nientemeno! ‒ il modello di sviluppo. Se nei settori economico-finanziari si procede con logiche di massimizzazione del profitto fine a sé stesso, fuori da qualsiasi attenzione a forme di «economie solidali» e di crescita «sostenibile», si rimane in un vicolo cieco, di automatica riproduzione delle suddette diseguaglianze.
Per favorire un’inversione di tendenza, nel segno di una visione di società più equa come dovrebbe essere una democrazia degna di questo nome, la leva fiscale assume un ruolo fondamentale. Di riforma del fisco si parla da molto tempo, eppure non vi si è mai posto mano in maniera organica e coerente con il dettato dell’art. 53 della Costituzione: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività».
Sta di fatto che ci troviamo dinanzi a materia incandescente, nella quale si incrociano e scontrano interessi divergenti. Di conseguenza, i partiti procedono con i piedi di piombo, primariamente preoccupati di non compiere mosse a possibile detrimento del proprio consenso. Così il sistema fiscale langue. E i problemi sul tappeto (dalla stesura di un registro patrimoniale alla razionalizzazione delle varie detrazioni concesse, dalla rimodulazione delle aliquote a strumenti più efficaci per far emergere l’ingente e vergognosa evasione fiscale) restano fermi.
Assodato che la questione fisco costituisce capitolo dirimente per una società equa e solidale, aggiungiamo che la solidarietà civica, in questi lunghi mesi di pandemia, ha avuto modo di manifestarsi sotto forme molteplici (e, a volte, altamente toccanti). Si è assistito in tutto il Paese a una gara di generosità per alleviare le sofferenze materiali, psicologiche, spirituali, di un’enorme quantità di persone, di ogni età, ceto e condizione, duramente provate sui piani sanitario, economico e sociale. Chiese cristiane, rappresentanti di altre religioni, enti e associazioni laiche hanno fornito testimonianze encomiabili di prossimità. Né, in tal senso, va sottostimato l’impegno profuso dalle istituzioni dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali (non tutto era scontato!).
Per amore di verità, dobbiamo anche dire che l’esperienza pandemica, pur avendo toccato da vicino un po’ tutti i cittadini, coinvolgendoli in medesime fatiche, preoccupazioni, paure, sul versante espressamente economico, non ha inciso ovunque allo stesso modo. Dipendenti pubblici e pensionati, quanto alle entrate, hanno fruito di sicurezze impensabili per la generalità degli impiegati nel privato o dei lavoratori autonomi. Inoltre, per molti titolari d’impresa e attività legate alla produzione di dispositivi (sanitari e non) di contrasto al virus o connesse con il mantenimento di filiere indispensabili per la vita quotidiana dei cittadini (quella alimentare, innanzitutto) il giro d’affari è aumentato o comunque ha tenuto.
Ora, proprio pensando agli ultimi due “quadri” evocati ‒ la grande catena solidaristica, da un lato, le diverse incidenze economiche della pandemia sulla popolazione, dall’altro ‒ e considerando l’enorme bisogno di liquidità per uno Stato espostosi finanziariamente nei modi cospicui a tutti noti, ci sentiamo indotti a formulare una proposta consona con una visione di Paese solidale e, conseguentemente, sensibile a un’opera di riduzione delle suddette diseguaglianze (consapevoli, per altro, che ulteriori forme pratiche d’intervento, di medesimo significato, possano essere esperite).
Si tratta, per la precisione, di un contributo di solidarietà di durata biennale, tempo entro cui si spera di rimontare i danni prodotti dalla pandemia. Esso dovrebbe ricomprendere quell’ampia parte di contribuenti con disponibilità di redditi e/o di rendite di un certo rilievo, ai quali aggiungere, ovviamente, i detentori di grandi patrimoni. Con il duplice intento di ricavare un gettito adeguato e, nello stesso tempo, fornire un segno concreto di mobilitazione generale per soccorrere chi, a diverso titolo, non ce la fa. Una misura, evidentemente, da studiare bene, ma ‒ riteniamo ‒ da varare presto.
Ci limitiamo a quattro avvertenze: 1. ovvio che ne siano esentati gli incapienti e i titolari di redditi modesti (fissando, per altro, una soglia anche in relazione ai carichi familiari); 2. altrettanto ovvio che la misura sia ragionevole, sostenibile e corrisponda a un principio di progressività; 3. a società e imprese fruitrici, per le ragioni dette, di un sensibile incremento degli utili nel tempo della pandemia si potrebbe chiedere un contributo speciale e più cospicuo; 4. infine, occorrerebbe introdurre un criterio che consideri le marcate differenze ‒ tra lavoratori e pensionati, settore pubblico e privato, dipendenti e autonomi ‒ nella percezione di reddito durante le chiusure (differenze attestate dalla circostanza che nell’ultimo anno, a fronte della dilatazione di povertà e precarietà, si è avuta un’impennata dei risparmi sui conti correnti).
La nostra proposta si ispira a un paio di precedenti: il contributo di solidarietà (su tre anni, come da sentenza della Corte costituzionale) richiesto ai titolari di pensioni di elevato importo, a norma della legge di bilancio del 2019; la recente delibera con la quale papa Francesco ha chiesto un sacrificio a tutto il personale della Santa Sede, dai cardinali in giù, proprio per farsi carico degli effetti della crisi pandemica.
Ci rendiamo conto che si tratta di proposta impegnativa e da soppesare attentamente. Ma siamo convinti che essa corrisponda all’esigenza di fare fronte a un vero dramma sociale, dando prova, come Paese, di saper essere una comunità solidale. Se non ora quando?
Azione Cattolica ambrosiana e Città dell’uomo-Associazione fondata da Giuseppe Lazzati
Milano, 21 aprile 2021
Qui il documento in pdf con la preghiera di diffonderlo (red.)
21 Aprile 2021 at 19:18
Condivido e approvo la proposta.
22 Aprile 2021 at 08:48
Già in privato avevo espresso a Franco Monaco il mio assoluto consenso alla proposta, ovviamente da attuare (e, malgrado le enormi difficoltà, bisognerebbe proprio riuscire a farla attuare …) non limitandola ai soli “grandi ricchi”, ma, nel rispetto del principio di progressività, arrivando anche ai possessori di patrimoni e/o percettori di redditi come il mio (da professore universitario in pensione):naturalmente, per evitare disuguaglianze “da contraccolpo”, incidendo solo sulla quota di reddito o di patrimonio eccedente la soglia esente che si dovrà stabilire.
Contro la demagogia pelosa del “niente nuove tasse”, riuscirà a farsi strada la solidarietà autentica?
26 Aprile 2021 at 18:50
Condivido in pieno la proposta che deve toccare e coinvolgere tutto il Paese…. Non deve cadere dall’alto, ma va fatta maturare dalla base, da noi, dal Terzo Settore, dalle persone di buona volontà……. E’ una riflessione verso una scelta che va fatta con molta serenità…. aspettando quando il motore riprenderà ad accendere il futuro…
Giustamente teniamo presente, innanzi tutto, il debito che stiamo scaricando sul futuro, ma teniamo anche presente che in questi 15 mesi….c’è chi ci ha rimesso ma c’è anche chi in modo corretto ha avuto vantaggi economici; teniamo presente chi ogni giorno non sapeva fino a quando doveva tenere chiuso e chi ha avuto lo stipendio garantito, anzi lavorando da casa…..ha anche risparmiato. Mobilitiamo le teste ed i cuori prima dei portafogli……
27 Aprile 2021 at 10:48
Sono d’accordo. Temo purtroppo che non sia semplice da realizzare e che ci sarebbero molte resistenze. Si potrebbe allora cominciare da un fondo costituito da contributi volontari (magari soggetti a robusta detrazione fiscale), finalizzato a pochi e chiari obiettivi, gestito da una commissione speciale formata da figure di specchiata onestà e assoluta affidabilità (a titolo gratuito) e ben rendicontato pubblicamente. Avevo proposto la costituzione di un fondo di questo tipo nel mio comune, Parma, con un emendamento al bilancio preventivo 2021, che però non è stato accolto. Anche come cattolici, sia a livello di singole diocesi (qualcuna si è già mossa in tal senso), sia a livello di chiesa italiana, potremmo fare una cosa simile, ben indirizzata, chiedendo aiuto in particolare a chi non ha subito danni economici dalla situazione di pandemia.