Chi non conosce Genova non si rende conto del dramma che la città sta vivendo, di quanto sia stata ferita, forse mortalmente, dal crollo del ponte Morandi. La sua parte di ponente ha la forma di una T rovesciata, con due rami paralleli alla costa e uno che si inoltra a nord lungo la val Polcevera. Il crollo ha separato i rami, dividendo in tre la città. C’è in primo piano la tragedia delle 43 vittime, c’è il dramma umano di chi tornando dal lavoro non è potuto rientrare in casa; ma c’è il dramma quotidiano di chi è stato defraudato di due ore di vita ogni giorno perché per andare al lavoro deve attraversare l’imbuto dei ponti rimasti, di chi il lavoro l’ha perso perché la sua azienda (o quella in cui lavorava) è in zona rossa, dei commercianti le cui vendite si sono contratte perché è difficile raggiungere il negozio o fermarsi, dei precari dell’Ikea e degli altri cui non verrà rinnovato il contratto, di chi vive lungo la strada a mare (unica sostituta dell’autostrada) e non riesce più a dormire la notte per il rumore: e mi scuso per i tanti che non ho citato. E c’è anche la sensazione, diffusa in tutta la città, di un lutto che non è stato ancora elaborato, e che non lo sarà per lungo tempo; il traffico, fatte salve le drammatiche ore di punta, è inferiore a quello che ci si aspetterebbe: perché la gente evita di muoversi. Conosco persone che abitano nel ponente che dal 14 agosto non sono più andate in centro; io stesso mi muovo solo se proprio devo.
Ciò che tutti desiderano è il ritorno alla normalità: ma tutti sappiamo quanto desiderare fortemente una cosa porti a credere che questa si possa realizzare a breve. E di ciò purtroppo approfittano le autorità.
Come ricostruire
Da subito, ha prevalso l’istinto della vendetta. C’era un bersaglio facile, Autostrade, che certamente ha delle colpe, ma forse non è la sola ad averne: di questo però deve occuparsi la magistratura.
Il decreto Genova è stato scritto con questo spirito: vietando ad Autostrade di partecipare a qualsiasi titolo alla ricostruzione, ma condannandola a pagare; Tafazzi non avrebbe saputo fare di meglio. È forse il primo caso di una condanna inflitta per legge e non per sentenza, e non ci vuol molta fantasia per immaginare una saga di ricorsi, anche per incostituzionalità. Ma è scontato che Autostrade si opporrà: chi potrebbe mai accettare di pagare senza aver potuto partecipare alla definizione dell’opera e alla trattativa economica? E se Autostrade non si opponesse, sarebbero gli azionisti (che non sono solo i Benetton) a destituire l’Amministratore Delegato e ad avviare un’azione di responsabilità chiedendogli i danni.
Difatti Autostrade ha risposto con un’offerta di ricostruzione a prezzi stracciati, nove mesi di tempo e penali stratosferiche in caso di ritardi (superiori ai massimali di legge, e quindi non applicabili): ha messo le mani avanti, come per dire “se l’avessi fatto fare a me avrei avuto questi costi; hai voluto fare diversamente: peggio per te, di più non ti do”. Poi ha rivendicato l’obbligo e il diritto a ricostruire; e siamo solo agli inizi.
C’è poi una sottovalutazione incredibile, addirittura dilettantesca, della complessità dell’opera, e soprattutto delle modalità di gestione dei lavori; non si è mai sentito che si chieda semplicemente un’offerta alle ditte senza aver scritto un capitolato che imponga le prescrizioni e i vincoli. Questo non è stato fatto, né la struttura commissariale ha le capacità per farlo: i commissari sono per lo più amministrativi, i pochi ingegneri hanno specializzazioni non attinenti al lavoro da svolgere. In assenza di competenze, l’unica possibilità è ingaggiare una società di consulenza “tosta” cui demandare la gestione dell’opera; altrimenti ci saranno contenziosi (cioè extra costi) e ritardi a non finire.
Escludere Autostrade è stata una scelta improvvida: loro hanno la struttura e le capacità per gestire un lavoro così complesso, nonché l’interesse a concludere velocemente i lavori. È anche vero che, visto come hanno gestito la manutenzione, ci sarebbe stato il forte rischio di un lavoro al risparmio con conseguenze sulla qualità dell’opera: sarebbe stato essenziale un controllo costante dei lavori, facendosi affiancare anche in questo caso da una società di consulenza capace.
I tempi della ricostruzione
Dal 15 agosto sono iniziate le promesse di tempi rapidi per la ricostruzione del ponte, in un balletto di dichiarazioni che avevano in comune la brevità: un anno o anche meno, comunque meno di un anno e mezzo; e le sirene riuscivano a incantare la gente. Eppure, sarebbe bastato riflettere. Una sfortunata coincidenza aveva fatto sì che le rampe di accesso al casello dell’aeroporto, l’ultimo prima del tratto crollato, fossero state demolite per essere ricostruite con un tracciato migliorato. Le rampe provvisorie si sono subito mostrate insufficienti a sopportare il traffico grandemente incrementato, quindi i lavori di ricostruzione sono stati immediatamente accelerati, utilizzando anche turni notturni. Nonostante ciò, alla fine la costruzione di una rampa di 150 metri avrà richiesto un anno di lavoro (oltre al tempo di progettazione): e come è possibile credere che un ponte di 1200 metri a 45 metri di altezza possa essere realizzato nello stesso tempo? Ma nessuno sembrava chiederselo.
Poi, sulle pagine genovesi di Repubblica è uscito un articolo che raccontava come un gruppo di ingegneri genovesi di provata esperienza avesse realizzato (per puro spirito civico) uno studio secondo cui, calcoli alla mano, in meno di tre anni la ricostruzione è materialmente impossibile, neanche nelle condizioni più ottimistiche. Lo studio era stato inviato al Sindaco, ora anche Commissario, senza esito alcuno.
Questa consapevolezza si è fatta strada a poco a poco nella mente dei politici genovesi, almeno tra quelli di opposizione. Ma tarda a diventare coscienza collettiva, e meno che mai a diventare strumento di lavoro per l’Amministrazione.
Perché è grave non riconoscere le tempistiche?
È grave per i cittadini: se mi aspetto di soffrire in coda per qualche mese, stringo i denti; ma se ho una prospettiva di anni, può essere che faccia scelte diverse, come cambiar casa o lavoro. A proposito, perché non facilitare i trasferimenti di sede dei dipendenti pubblici (insegnanti, impiegati delle poste…)?
È grave per i danneggiati, che gravati da problemi finanziari stanno sottoscrivendo (è notizia recente) transazioni per il riconoscimento dei danni: che con il protrarsi della crisi possono rivelarsi a posteriori ben più elevati di quanto accettato: questo a tutto vantaggio delle assicurazioni e di Autostrade.
Per l’Amministrazione non è grave, è letale: per diversi motivi. Ci sono interventi sulla viabilità (alcuni già progettati ma mai avviati, o forse accantonati) che richiedono circa un anno per essere realizzati; se dopo un anno il ponte è di nuovo agibile, allora non vanno fatti perché l’ultima cosa che ci serve sono cantieri aperti che interferiscono con il traffico: ma se i tempi di ripristino sono molto maggiori, è meglio soffrire per un po’ ma eliminare i colli di bottiglia.
Ci sono interventi sul trasporto pubblico. La ferrovia è da anni oggetto di lavori che porteranno alla realizzazione di un vero servizio metropolitano (quello oggi esistente soffre di forti limitazioni: guai però se non ci fosse); tra fallimenti e stati di crisi dell’appaltatore i lavori sono soggetti a continui stop. Tuttavia, di fronte a una situazione di crisi, in cui la sola risposta possibile è il trasporto pubblico, occorre trovare gli strumenti per accelerare i lavori, eventualmente stralciando dal contratto gli interventi urgenti e affidandoli a un Commissario.
Se l’obiettivo è solo tamponare l’emergenza, giorno per giorno si fa quello che emerge come urgente; ma di fronte a un vero dramma o si soccombe, o (avendo una visione del futuro) lo si trasforma in un’occasione per costruire, e non solo ri-costruire, Genova.
Massimo Carbone
(Circolo Aldo Moro – Genova)