Il testo è il discorso che l’autore ha tenuto il 5 aprile nell’ambito degli incontri spirituali di Comunità e Lavoro a Viboldone
La povertà si ripropone oggi come una ferita aperta. Certamente costituiva un problema anche ieri, ma la differenza è che ieri i poveri erano lontani, oggi al contrario sono vicini, in mezzo a noi, sono tanti e non sappiamo che cosa fare. C’è chi vuole fermare e respingere gli immigrati e chi li vuole accogliere. Ma come li accogliamo? Facciamo qualcosa, ma la risposta è insufficiente, inadeguata.
E poi sempre di più i poveri sono anche gli italiani (più che raddoppiati in questi anni di crisi). Misuriamo ogni giorno , collettivamente e personalmente, i nostri limiti in proposito. E’ lecito affermare che la “povertà”, un flagello che era stato combattuto nei secoli scorsi e che si pensava debellato, è ritornata fra noi e che dovremo abituarci a convivere con essa.
Ma la povertà non è solo un grande problema umano; essa è anche propriamente un “mistero” nel senso cristiano del termine. E la nostra riflessione partirà da qui.
Il cristianesimo, per usare un vocabolo caro a Panikkar, è una religione teandrica: solo il cristianesimo riconosce un Dio che si è fatto uomo. Ciò significa che non c’è più separazione tra umano e divino: ogni scelta ormai va collocata nel Regno di Dio, che è qui, in mezzo a noi.
Lo diceva con il suo riconosciuto candore Giorgio La Pira a chi gli faceva osservare, all’Assemblea Costituente, che il suo linguaggio era troppo religioso per l’ambiente: “Tutto ciò che è umano è cristiano e tutto ciò che è cristiano è umano”.
Nella povertà abbiamo, per così dire, un punto particolarmente intenso di congiunzione del divino e dell’umano, una manifestazione densa, quasi violenta, di quella che gli ortodossi chiamano con un bellissimo termine, la “divinoumanità”.
(Fra parentesi sia consentito un inciso: la nota affermazione critica della Gaudium et Spes, n. 43, secondo cui “Il distacco che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più grandi errori del nostro tempo”, non nasce da questa più profonda tensione, permanente e irrisolvibile, propria del cristiano per cui costantemente è chiamato a realizzare questa unità fra umano e divino?).
L’ Antico Testamento.
Nell’Antico Testamento si manifesta un atteggiamento di Dio a favore dei poveri. Potremmo parlare di un “Dio per i poveri”. Si trovano tante espressioni a riguardo:
– Dio ha pietà del debole e del povero
– Dio ascolta il grido del povero
– Difende la causa dei miseri
– Fa giustizia agli oppressi.
La stessa elezione di un piccolo popolo insignificante e la sua liberazione (“eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente”) ne costituiscono un esempio fondante, se consideriamo che su questo piccolo popolo, senza particolari meriti e continuamente trasgressore e peccatore, è costruita tutta la storia sacra.
Perché questa scelta per i poveri e i diseredati? Un grande esegeta biblico, Dominique Barthelémy dice: non per compassione, ma per giustizia. La giustizia umana è ben poca cosa, riesce a coprire solo una piccola parte della realtà; così tutti coloro che ne rimangono esclusi sono protetti dalla giustizia divina, che in questo modo risponde agli oppressi, alle vittime, ai diseredati, ai miseri.
E naturalmente vengono benedetti coloro che seguono questo principio, come afferma il Salmo 41: “Beato chi si dà pensiero del povero” (Beatus qui intelligit de egeno, in die mala liberabit eum Dominum; Dominus servabit eum et vivificabit eum et beatum faciet eum in terra”. Riporto la traduzione latina perché esprime una visione più profonda – beato chi “comprende” il povero, chi lo riconosce – e poi perché la seconda parte della frase è talmente notevole da essere usata in passato per onorare il sommo pontefice).
E il popolo di Israele è una società completa e pertanto Dio dà istruzioni anche sul suo governo e sul suo assetto sociale: sul lavoro, sulla terra, sull’usura, sulla difesa dell’orfano, delle vedove e degli stranieri (i poveri del tempo). Dice sempre Barthelémy: norme datate naturalmente, ma sempre migliori di quelle che saranno adottate nei secoli successivi anche dalla chiesa, perché mutuate dalla cultura romana senza ripensarle. (Pensiamo, ad esempio, al diritto alla proprietà privata dei beni).
E il Signore mette in guardia: entrando nella terra promessa “un terreno fertile, paese di torrenti e di acque sotterranee che scaturiscono nella pianura e sulla montagna, paese di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; paese di ulivi, di oli e di miele; paese dove non mangerai con scarsità di pane, dove non ti mancherà nulla”, (….) “guardati dal pensare: la mia forza e la potenza della mia mano mi hanno acquistato queste ricchezze” (Deut. 8, 7-8.17).
Sempre nel Deuteronomio si leggono, a poca distanza tra loro, due affermazioni a prima vista contraddittorie: “Del resto non vi sarà alcun bisognoso in mezzo a voi” (15,4), “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese” (15,11).
La prima affermazione è una regola di vita di una società unita e fraterna, la seconda (che sarà ripresa da Gesù: “i poveri li avrete sempre con coi”) è un monito permanente e non essere mai in pace sino a quando ci sarà anche un solo povero sulla faccia della terra.
Alcune norme dell’Antico Testamento sono cadute, altre, come quest’ultima, hanno un valore perenne.
Il Nuovo Testamento.
Se nell’Antico Testamento Dio si presenta come un Dio per i poveri, nel Nuovo Testamento Dio si fa povero: in Cristo, Dio si fa uomo, ma uomo povero. “Da ricco che era, si è fatto povero per voi, per arricchirvi per mezzo della sua povertà” (2^Cor. 8,9).
Ma la pagina più importante è costituita dall’Inno cristologico della Lettera ai Filippesi: “pur essendo nella condizione di Dio non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò (spogliò) se stesso assumendo la condizione di servo” (Fil. 2,6-7).
Avviene una spoliazione. Dio rinuncia alla sua divinità per donarcela. La discesa di Cristo nell’umanità è il prototipo supremo di ogni povertà.
Perché questa scelta di povertà? Perché Dio nel suo amore vuole arrivare a tutti, fino a quelli più lontani, agli ultimi. Come dicevano i Padri della Chiesa solo ciò che è assunto è salvato; scegliendo la povertà, tutti i poveri sono salvati (la stessa cosa avviene per la morte di Cristo; solo morendo, ci salva dalla morte).
La scelta per i poveri è annunciata all’inizio del Vangelo. Citando Isaia, Gesù nel suo primo discorso pubblico dice: “Lo spirito del Signore è su di me… mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio” (Luca, 4,18).
Ma è soprattutto nella parabola del ricco e del povero Lazzaro (Luca,16,19-31) e nella scena del giudizio finale di Matteo 25, che cogliamo l’atteggiamento di Gesù verso i poveri. Lazzaro muore e viene portato dagli angeli nel seno di Abramo (questo caso e quello del buon ladrone, “oggi sarai con me in paradiso”, sono gli unici due casi di ingresso immediato in paradiso).
Così al momento del giudizio i giusti si sorprendono e chiedono “Quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiano dato da bere?… Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25, 37-40).
Questi brani del Vangelo dimostrano che la scelta di Dio è del tutto gratuita, non dipende dai meriti delle persone, non è una ricompensa, è un dono. La preferenza di Dio, il suo beneplacito, conta di più delle disposizioni interiori; una riprova ulteriore è data dalla predilezione per i bambini e per i peccatori, categorie certamente prive di meriti. Dio dunque sceglie i poveri in quanto poveri, sceglie i poveri in quanto tali.
Matteo parla di “poveri in spirito”, ma si deve ritenere l’espressione come una specificazione, l’indicazione di una qualità in più: significa che alla povertà come privazione reale – essenziale – si aggiunge una disposizione spirituale.
Nel brano di Matteo sul giudizio finale è contenuta un’altra affermazione importante: Cristo si è identificato coi poveri. Cristo è presente nel povero, come richiamo all’amore fraterno, come un segno che richiama la povertà fondamentale dell’uomo, come un’immagine di quello che Gesù è stato fra noi, come un giudice che ci giudicherà per il comportamento nei confronti dei fratelli (Regamey).
Il vero motivo per amare il povero è la certezza che il povero è amato da Dio, è il luogo scelto da Dio, è il tempio di Dio (Barthelémy).
E i ricchi? Per quanto riguarda i ricchi, il Vangelo sottolinea soprattutto la difficoltà che hanno a salvarsi. Ma la salvezza è per tutti, anche per i ricchi, che però potranno salvarsi non in quanto ricchi, ma rientrando in altre tipologie: come sofferenti, perseguitati per la giustizia, peccatori pentiti, o sentendosi poveri in punto di morte… E’ sempre la conformità a Cristo che salva.
Possiamo dire che il ricco si salva in quanto povero. E ciò riguarda anche noi. Tutti siamo nello stesso tempo ricchi e poveri, tutti possediamo qualcosa ( i beni, la posizione sociale, la cultura, i rapporti…). Il rapporto col povero, se anche noi non ci sentiamo poveri, può essere una posizione di superiorità o comunque superficiale e potrebbe risultare umiliante per il povero.
La povertà ci ricorda la nostra natura più essenziale, perché tutto ciò che abbiamo lo abbiamo ricevuto; siamo nati nudi e nudi ritorneremo alla terra. E’ riconoscere la nostra finitudine, il nostro limite di creature. E tanto più siamo essenziali, più è facile il nostro rapporto con Dio e con i fratelli. E ricordiamoci che ciò che conta al di sopra di tutto è l’agape, la carità, anche al di sopra della fede, dice San Paolo (I Cor. 13).
Se essere cristiani significa seguire Gesù e imitarlo per quanto possibile, non c’è esperienza cristiana che non passi dalla partecipazione alla povertà.
Dio che si è fatto uomo si trasmette a noi attraverso l’Eucarestia e in questo modo Dio condivide la debolezza e la miseria dell’uomo. E’ un movimento verso l’uomo nella sua debolezza, dunque un movimento verso il povero. L’atteggiamento nel ricevere l’Eucarestia dovrebbe essere conseguente e dunque costituire la continuazione di questo movimento di Dio al povero.
La dimensione universale della povertà.
Giorgio La Pira, nel suo scritto L’attesa della povera gente si chiedeva profeticamente nel 1950: “Quali sono le dimensioni mondiali dei problemi della povera gente?”
Ciò ci introduce al fatto che la povertà ha oggi una dimensione universale e che una larga parte della popolazione mondiale vive in una condizione di povertà.
Basti solo un dato significativo tra i tanti, pubblicato recentemente in un trafiletto del Corriere della Sera: 85 magnati posseggono un patrimonio equivalente a quello di 3 miliardi di persone, metà della popolazione mondiale. Siamo di fronte non solo a una diseguaglianza smisurata e che continua a crescere, ma ad un enorme problema di giustizia, quando pensiamo che la nostra condizione di benessere è basata in una buona misura sullo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse dei continenti del Sud del mondo.
Secondo il card. Lercaro questa condizione globale di povertà costituisce una problema teologico; forse si potrebbe dire che essa rappresenta un “segno dei tempi”, un richiamo di Dio alle nostre responsabilità. Abbiamo di fronte non un problema a cui rispondere in termini individuali, ma un problema collettivo, la povertà dei molti: oggi il nostro prossimo è questa moltitudine, il nostro prossimo è plurale.
Dice padre Chenu, seguendo un’indicazione del filosofo Paul Ricoeur, che oggi l’amore del prossimo ha due strade, una è quella diretta da persona a persona, una seconda è quella di raggiungere le persone nella loro condizione, nel loro contesto, nella loro storia. Nel mondo socializzato questi rapporti si moltiplicano e accrescono la loro rilevanza: il nostro prossimo diventa più concreto a questo livello collettivo, istituzionale, plurale, che non a livello individuale. E’ il sociale che porta alla persona. Non si può essere coi poveri senza lottare contro la povertà.
Dio ha affidato agli uomini il mondo ed è loro compito, in una visione umana e creatrice dell’economia, trovare una risposta al problema della povertà. Ciò richiede anche una riflessione più profonda sull’economia. Si dà per scontato che l’aumento della ricchezza in quanto tale sia un obiettivo positivo, ma l’orizzonte della società opulenta non è necessariamente un progresso umano. Il generale consenso attorno al principio del benessere può portare a una chiusura nei confronti degli altri e una indifferenza nei confronti della dimensione spirituale. Ciò che non è accettabile è che i principi dello sviluppo e dell’economia siano considerate delle verità assolute, non giudicabili evangelicamente.
La Pira se lo chiedeva retoricamente: non posso intervenire per affrontare la disoccupazione di milioni di persone per rispettare il libero gioco delle forze economiche, per non violare l’ortodossia della circolazione monetaria? No, rispondeva; perchè “ebbi fame e non mi deste da mangiare” non vale solo per i singoli, ma anche per gli Stati (“si tratta di un impegno che parte dai singoli e che investe l’intera struttura e l’essenziale finalità del corpo sociale” – La Pira, L’attesa della povera gente).
Dunque la povertà ci porta ad affrontare l’economia nel suo complesso sia nella prospettiva di una maggiore giustizia, per dare una risposta ai bisogni di una moltitudine di poveri, sia nella prospettiva di una visone più umana, più equilibrata, meno rivolta all’avere di più sempre di più.
La crisi, occasione di riflessione.
La nuova situazione determinatasi con la crisi presenta un’occasione preziosa di riflessione.
Tutto fa pensare che uscendo dalla crisi non avremo più in futuro una crescita elevata. La recente Settimana Sociale dei cattolici francesi (dicembre 2013) aveva per titolo “Reinventare il lavoro” e partiva dal presupposto che nei prossimi anni la crescita sarà dello 1 o 1,5%. (assunto condiviso anche dal contemporaneo editoriale della autorevole rivista Esprit ): in queste condizioni, si chiedevano gli organizzatori della Settimana, come potremo redistribuire lavoro e reddito in modo da non avere una crescente moltitudine di poveri?
Ma un altro enorme problema si affaccia alle nostre società occidentali e ci interroga ogni giorno di più. Ieri l’Occidente e il resto del mondo erano due realtà ben separate, con due modi e livelli di vita del tutto diversi, ma oggi non è più così: prima con la caduta del mondo comunista e poi con la globalizzazione, le barriere sono cadute, i mercati si sono unificati, arrivano immigrati da ogni parte del mondo, le aziende si delocalizzano, i nuovi paesi industriali fanno una concorrenza spietata con prezzi al massimo ribasso.
In altre parole non c’è più separazione tra l’Occidente e il resto del mondo; le due realtà si stanno integrando; se ieri i nostri erano paesi ricchi e gli altri paesi poveri, ora man mano avvengono scambi e intersecazioni. Aree di ricchezza si formano in altri paesi, aree di povertà si costituiscono da noi. La povertà arriva anche in casa nostra; non possiamo tenerla fuori dalla porta, dobbiamo accettare e affrontare questa nuova situazione come un problema comune del Nord e del Sud e tanto maggiore sarà la collaborazione (e la giustizia) tanto meglio l’affronteremo.
Tutto questo comporta forse anche una rivisitazione della povertà nei confronti dell’economia; da tempo ci sono pensatori (pensiamo a Ivan Illich o a Majid Rahnema) che propongono l’ideale di una società più semplice, meno consumatrice, più conviviale (in questo senso anche più “povera” se misurata con gli attuali metri economicistici) su cui puntare per il nostro futuro, sia come ideale umano sia per il progressivo venir meno delle risorse. E del resto come pensare che il livello di vita occidentale possa essere esteso all’intera popolazione mondiale? Tutti sappiamo che ciò è materialmente impossibile, ma ciononostante si continua a sostenere una crescita infinita con il miraggio di questo orizzonte, sempre più mitico, ma costantemente stimolato da nuovi prodotti di consumo.
La povertà e la Chiesa.
La riflessione sulla povertà ritorna così al centro della vita mondiale attuale. E’ da rimpiangere a riguardo che il generoso tentativo fatto in sede di Concilio Vaticano II di un riconoscimento più esplicito del valore della povertà, tanto sul piano dei principi che su quello dei comportamenti della chiesa, non abbia avuto il successo sperato (ne è rimasto solo un blando richiamo al paragrafo 8 della Lumen Gentium). Un gruppo numeroso di vescovi si era riunito durante tutto il periodo del Concilio producendo documenti e raccogliendo firme, ma non trovò la maturazione necessaria.
Anche il cosiddetto documento delle catacombe sottoscritto da una cinquantina di vescovi alla fine dei lavori con cui promettevano decisioni e comportamenti nel segno di una presentazione povera della chiesa, non ebbe particolare seguito. Non vi è stato così quell’avvicinamento tra chiesa e poveri che si sperava. La chiesa povera e la chiesa dei poveri sono rimasti lettera morta.
Era un motivo di sofferenza per Dossetti, che in sede di Concilio si era speso accanto al card.Lercaro per questa affermazione; parlando alla sua comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata, a proposito di consacrazione, affermava: “essa non è per noi, ma per gli altri, per i minimi di ogni terra. Perché sono i preferiti di Gesù, perché sono le vittime di un’enorme ingiustizia a cui né il mondo né la Chiesa oggi mettono riparo e infine, la cosa più drammatica e più profonda, perché la linea di divisone tra oppressi e oppressori passa anche attraverso la chiesa”.
In questi cinquant’anni, nel frattempo, si deve alla teologia del Sud-America, negli incontri di Medellin e di Puebla, l’affermazione della “opzione preferenziale per i poveri”, recepita poi da Giovanni Paolo II nelle sue encicliche.
Anche la teologia della liberazione che tante preoccupazioni aveva suscitato presso la Congregazione della Fede, è ora – mutati i tempi e forse gli interlocutori – pacificamente accolta, tanto che un padre di questa teologia, Gustavo Guttierez, e il nuovo prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Ludwig Mùller, hanno scritto un libro in comune sull’argomento (“Dalla parte dei poveri”).
Oggi un grande segno di speranza è costituito dalla parole dedicate ai poveri nella Esortazione apostolica “Evangelii gaudium”di Papa Francesco, che contengono il riconoscimento della opzione per i poveri come categoria teologica.
Ma proprio il richiamo contenuto in quelle pagine di non accontentarsi della ortodossia, ma di vivere i principi nella realtà quotidiana, ci invitano a credere che possa aprirsi una pagina nuova dell’intera chiesa, una chiesa povera e per i poveri che accompagni il mondo di oggi e le moltitudini dei poveri ad affrontare i grandi cambiamenti umani.
Nel secolo scorso il marxismo ha rappresentato una grande speranza per le masse, per le moltitudini; un movimento carico di errori e responsabile anche di enormi tragedie, ma portatore di un dinamismo positivo, la dimensione universale.
Questa è una responsabilità che oggi, mi sembra, ricada in ampia misura su noi cristiani.
Sandro Antoniazzi
29 Aprile 2014 at 18:58
Condivido quanto sostenuto nell’articolo.
1 Maggio 2014 at 09:09
avevo lasciato un commento ,forse un po’ lungo ,ma mi è scomparso dallo schermo !
complimenti per un ‘analisi esauriente ,approfondita di un argomento come quello della povertà che ,nei tempi ,ha assunto una dimensione universale a cui non devono tardare gli Stati e i governi di dare risposte
incisive ed immediate ,sollecitate dai continui richiami del papa Francesco che resta l’unica risposta in cui sperare !
1 Maggio 2014 at 14:44
Condivido e spero. Ho conosciuto-direttamente e non- La
Pira e Dossetti che, fin dalla prima infanzia, mi sono stati proposti come modelli di cristianesimo vero. Papa Francesco ci sta aprendo alla speranza, santificazioni a parte. Speriamo
4 Maggio 2014 at 14:32
L’autore ha correttamente allargato il problema della povertà al campo teologico, dando grande spessore al suo pensiero che condivido senza riserve. La grande sfida mi pare ora quella innanzitutto di convincerci sinceramente delle conseguenze che ne derivano, anche a livello personale, dandovi poi attuazione e testimonianza di fronte ai famigliari, agli amici, ai colleghi di lavoro, ai parrocchiani e ai concittadini. Ritengo infatti che si riferisca proprio a questo l’ultima frase “Questa è una responsabilità che oggi, mi sembra, ricada in ampia misura su noi cristiani”.
Solo la testimonianza concreta può cambiare le cose: compito non certo facile ma secondo me ineludibile, che si può affrontare riponendo fiducia totale in Dio.