L’autrice, che ha mandato questo suo intervento “come sempre in ritardo, ma può servire come contributo”, è stata presidente della “Rosa bianca” fino a pochi mesi fa
In queste settimane di consueta e quotidiana pratica politica mi ero pacificata all’idea di non andare a votare questa volta alle primarie per eleggere il segretario del PD, limitandomi, a motivare “pubblicamente”, con qualche provvido e veloce strumento di esternazione, il mio passo indietro come dignitosa e adeguata microsoluzione politica non riduttiva, nell’accezione ben descritta da Giordana Masotto quale “misura in cui riusciamo ad agire controllando le conseguenze”.
Avrei potuto confessare come questa volta non sarei più riuscita a mettere da parte l’originario ed antico sospetto relativo all’inefficacia dello strumento delle primarie quale antidoto all’inceppamento della democrazia rappresentativa o quale nutrimento forzato per l’anoressia dei partiti, utilizzato nel nostro paese con l’esasperazione leaderistica, falsamente dettata dal presunto bilanciamento al berlusconismo, ma ahimè narcisisticamente accarezzata da molti contendenti.
Avevo accantonato o soffocato le motivazioni contrarie quando avevo acceduto al voto nelle occasioni precedenti: in nome di una necessaria prova di forza per un mutamento tangibile votando un uomo che stimo (Prodi-2005), di una presunta provocazione politica di sesso consapevole (Bindi contro Veltroni 2007), molto felice che potessero tra l’altro votare con me le donne immigrate, successivamente in nome di un infantile tatticismo (Bersani contro Renzi 25-11-2012) pur se fondato sul tentativo di un percorso di senso quale Italia Bene Comune, infine, assurdamente, in nome di una sorta di stato di necessità connesso all’infingimento delle presunte candidature liberate dal porcellum (29-30 dicembre 2012).
In questo caso poi la fatica dell’andare ad esprimere la preferenza pseudodemocratica era aggravata dall’assurda scelta “paritaria” dell’opzione di genere che in qualche caso ha impedito a donne autorevoli di partecipare in autonomia senza il rischio di favorire il maschio “perdente” oppure ha condotto all’aumento forzoso di donne elette, scomparse poi dalla scena pubblica, apparentemente estinte o invisibili, sia nei mesi tragici della formazione del governo, del vergognoso siluramento di Prodi, della mancanza di coraggio di proporre almeno una candidatura di bandiera, del ritorno pavido ed elemosinante da Napoletano, dell’accettazione poco più che supina del governo di larghe intese, per finire nella deliberata assenza in questa “sottile” contesa tra uomini per la segreteria di un partito.
Assenza nemmeno rivendicata come strumento di denuncia dell’esistenza di una questione maschile nel partito, nella politica, nella società, nelle relazioni oppure come atto di discontinuità rispetto ad una logica di rappresentanza malata o di presa di distanza dal leaderismo, magari sognandola come espressione di libero agire di pratica politica di relazione tra donne…
Leggo, in aggiunta, nella lettera aperta delle Democratiche ai candidati alle primarie che le donne del PD dopo le consuete, ovvie, femminili richieste “di un rilancio di politiche per l’infanzia, per la non autosufficienza, per il sostegno alla maternità e contro la povertà (…), la piena attuazione alla legge 194, cambiare la legge 40, rilanciare politiche pubbliche contro la violenza ed il femminicidio, affermare l’universalità dei diritti delle donne come diritti umani, a partire da quelli delle migranti”; nonché l’auspicato cambiamento di leggi elettorali, regole, statuti, “nel senso di una piena attuazione della parità di genere”, chiudono la lettera con una sorta di invocazione ai tre candidati: “vogliamo che sia rilanciata la Conferenza delle donne del PD come luogo importante non solo per l’elaborazione di idee e proposte, ma anche per consolidare e valorizzare una classe dirigente di donne democratiche”, quasi alla ricerca di luoghi di legittimazione!
Quale distanza siderale dal desiderio esplicitato, profondamente condiviso, da Lia Cigarini, Giordana Masotto, Lea Meandri nell’articolo Un sì e tre no, nell’imminenza del risultato elettorale:” Vorremmo una pratica politica comune con le elette che avesse come oggetto e scopo creare una misura di giudizio autonoma e inedita, segnata dalla esperienza delle donne e dalle loro relazioni, sulla politica istituzionale e sulla democrazia oggi.(…) Non essere l’eccezione femminile che con la sua inclusione “rinnova” una politica screditata, ma imporre un cambio di regole per tutti. Evitando il sottinteso slittamento dal politico al problem solving. E non consentendol’operazione di impoverimento simbolico che riconosce le competenze femminili senza mettere in discussione l’ordine maschile costituito”.
Quindi come ha postato oggi l’amica politica Maria Ancona, in verità riferendosi al ripensamento postumo di Prodi, anche questa volta le primarie sono usate come strumento per risolvere una “faccenda loro” e non “nostra”…
Così ho pensato anch’io fino a domenica scorsa, accumulando argomenti e pensieri contrari ad un mio cedimento dell’ultima ora alla sirena dell’esprimere un voto, rimanendo chiusa nel mio silenzio, abbarbicata all’alibi della fatica di questi mesi per lavoro e salute, la stessa che mi ha impedito di cercare o di tentare quella pratica politica comune, almeno con le donne elette che conosco, magari solo per aprire un conflitto, difficile da gestire in tempo di crisi di studio.
Invece ho scelto ancora una volta di affidarmi a Celeste Grossi, la donna con la quale ho la pratica di relazione femminista più antica ed assidua, esponente oggi di SEL, Direttrice di Ecole, che mi ha convinto a leggere le mail, i programmi, gli inviti al voto, a cercare le motivazioni per un ulteriore sforzo di indicazione di preferenza. Mi ha spinto a tentare di superare anche questa volta l’evidenza dell’uso strumentale delle primarie, che, pur essendo una “faccenda loro”, avrà effetti anche sui possibili assetti non solo del PD, ma delle eventuali alleanze, percorsi, scelte di governo, leggi, non solo tutte dentro il rischio del continuo impoverimento del nostro simbolico, ma aprendo o confermando strade pericolose e contrarie al mio pensiero politico.
Eccomi allora a condividere e a mettere in piazzetta la mia scelta di andare a votare domenica 8 dicembre, un uomo, in assenza di una donna, non di una lei senza volto, un’altra qualsiasi il cui genere non mi basta.
Tra i tre maschi scelgo Civati, perchè me lo hanno indicato molte donne alle quali mi affido ed alcuni uomini dei quali mi fido e perché nel suo programma:
– ha avuto il coraggio di nominare la “questione maschile”, la differenza sessuale, il patriarcato, la libertà femminile;
– ha recepito linguaggi e pratiche delle politiche alternative, quelle dall’”alto” delle cittadine e dei cittadini (acqua, F35, terra dei fuochi, città possibili, ecc.)
– ha esplicitato le ragioni per cui non intende appoggiare ancora il Governo delle larghe intese (vedi candidati Renzi e Cuperlo)
– non propone un governo neocentrista, ma prospetta una nuova organizzazione di sinistra;
– non fa sue le idee liberiste in materia di lavoro del giuslavorista Pietro Ichino (vedi candidato Renzi)
– non ritiene che la politica sia per un Capitano, nemmeno se coraggioso ed impertinente (vedi candidato Renzi)
– sembra ispirarsi alla Costituzione senza apparente idolatria;
– sembra ispirarsi alla non violenza senza disdegnare la forza che…però.
– sembra trovare in una donna, la sindaca Carmela Lanzetta, indicata come sua maestra politica.
Chissà! Domenica allora andrò a votarlo e glielo farò sapere perché come ha scritto in questi giorni sul suo blog Paola Guazzi:”ogni voto una testa, è vero, ma non solo: ogni voto un corpo, una sofferenza, un modo di godere, un sogno, un amore, un desiderio di politica nuova. A questo bisogna tornare, non solo per lamentarsi dello sfascio, ma per trovare la forza di vivere di nuovo”.
Grazia Villa