L’autunno 1969 fu definito “caldo” per la diffusione di una conflittualità sociale mai sperimentata prima; non si trattò di un’esplosione improvvisa, ma del punto più alto di un processo di ripresa sindacale maturato nel corso degli anni ’60 (la vertenza degli elettromeccanici con manifestazione unitaria in piazza del Duomo a Milano, la lotta ai Cotonifici Valle Susa, le nuove forme di contrattazione articolata), accompagnato, a livello politico, dal clima di fiducia suscitato dalla nascita del primo centro sinistra con la partecipazione dei socialisti di Nenni al governo. E’ vero che nelle università era in atto la contestazione degli studenti, essi, però, come noto, costituivano una minoranza della popolazione giovanile, mentre le lotte dei lavoratori coinvolsero direttamente milioni di famiglie italiane.
L’indice di conflittualità (ore di sciopero per lavoratore dipendente) che negli anni 1959-67 era di 7,26, nel periodo 1968-73 arriva all’11,64 e nell’anno 1969 al 23; nell’industria metalmeccanica, sempre nel ’69, tale indice sale all’86,5, cioè ogni lavoratore ha scioperato più di 86 ore. Se consideriamo le giornate di lavoro perse per 1000 occupati nel periodo 1970-74, notiamo che in Europa l’Italia è il paese col più alto livello di conflittualità, mentre in Francia la contestazione, nonostante il maggio ’68, dimostra meno capacità di espansione. Ciò porta ad un massiccio incremento di adesioni alle organizzazioni sindacali; in Lombardia, per esempio, gli iscritti alla Fim passano dai 69 mila del 1967 ai 116 mila del 1973, la Fiom da 107 mila a 192 mila. In alcune grandi fabbriche (Alfa Romeo, Ansaldo, Italsider, Italcantieri) gli iscritti superano il 70% degli occupati.
Tutti i settori della società guardano al sindacato con ammirazione e stupore. I principali protagonisti sono gli operai della grande industria del Nord, in particolare i metalmeccanici che lottano unitariamente per il rinnovo del contratto (il primo sciopero generale di categoria si svolge l’11 settembre 1969). Al censimento del 1971 gli addetti all’industria risultano la componete maggioritaria dell’occupazione e complessivamente la “classe operaia” (secondo la classificazione di Sylos Labini) rappresenta la categoria sociale più numerosa (oggi, come noto, è ampiamente superata dalle classi medie urbane e dagli addetti ai servizi). Analizzando la tipologia delle aziende notiamo però come quelle con meno di 500 addetti occupano tre milioni di persone, mentre nella grande fabbrica (oltre i 500 addetti), protagonista delle lotte (e da cui derivava l’immagine prevalente di “classe operaia”), vi lavorano meno della metà (1.266.000 unità). Fiat, Pirelli, Olivetti, siderurgici, elettromeccanici, petrolchimico di Porto Marghera, OM di Brescia, diventano punti di riferimento della nuova stagione; ma anche nelle medie aziende si sviluppano forme di contrattazione originali. Ancora prima dell’autunno caldo, a Valdagno, nel cuore del Veneto bianco, esplode la protesta degli operai contro il piano di ristrutturazione aziendale culminante con l’abbattimento della statua del conte Marzotto, fondatore dell’omonima industria tessile; ad Avola, in Sicilia, la polizia spara contro una manifestazione di braccianti e perdono la vita due lavoratori iscritti alla Cisl.
Nei primi otto mesi del 1970 con la contrattazione articolata si realizzano 4.400 accordi aziendali coinvolgendo 1.400.000 lavoratori: un movimento reale che per dimensione e intensità segnerà la storia sociale del paese e il futuro di centinaia di migliaia di persone. Esso emerge dal tessuto industriale del paese, si espande in tutte le categorie e, sul territorio, entra in comunicazione con altri strati di popolazione che in diversi ambiti civili (dalla magistratura all’università, alla medicina, alla cultura) stanno sperimentando nuove forme di protagonismo. C’è un vero e proprio fenomeno di ceti intellettuali che fanno “lavoro politico” tra gli operai e pubblicano una notevole quantità di riviste.
La stagione dell’autunno caldo esalta creatività e fantasia anche nella definizione delle piattaforme contrattuali degli anni successivi; vanno in questa direzione le conquiste delle “150 ore” attraverso le quali, oltre ai corsi di recupero scolastico, vengono organizzati seminari universitari che coinvolgono operai, tecnici, studenti, intellettuali di diversa natura. Siamo nella fase che Pizzorno definisce di “formazione di una nuova identità collettiva”, in cui la generalità degli entusiasmi permette di superare interessi oggettivamente diversi fra categorie e gruppi. La ricerca di un rapporto con temi più generali (pensioni, casa, sviluppo del Sud, sanità, trasporti) non deriva, perciò, da un richiamo ideologico, al contrario, esso appare la conseguenza naturale della dinamica degli avvenimenti stessi. A tale riguardo i due scioperi generali per la riforma delle pensioni (14 novembre ‘68 e 5 febbraio ’69) rappresentano un punto di svolta nell’azione sindacale a dimensione politica che si conclude con un’intesa tra governo e sindacati. Così si esprime il manifesto unitario per la preparazione dello sciopero nazionale di 24 ore del 14 novembre: “I lavoratori rivendicano il diritto, in via prioritaria, alla trattativa tra governo e sindacati dei lavoratori in materia di previdenza sociale che riguarda i lavoratori stessi ed il loro salario diretto e previdenziale”. Anche il contratto dei meccanici si chiude con conquiste significative: aumenti uguali per tutti, diritto di assemblea in fabbrica, costituzione dei consigli dei delegati. L’anno successivo viene approvato lo Statuto dei diritti dei lavoratori (1970) che sancisce per legge il frutto di obiettivi sindacali ottenuti con la lotta. Si trattava del primo movimento sociale davvero moderno e rispecchiava l’uscita dell’Italia dalle ristrettezze del secondo dopoguerra; la faccia sociale del “miracolo economico italiano”, il primo vero ingresso in Europa.
Sul piano della modifica degli assetti organizzativi, della dislocazione dei poteri e delle prospettive dei sindacati, nacque una nuova generazione di quadri, non più segnata dalle divisioni ideologiche degli anni ’50, che faceva sentire la propria voce. Le prime conseguenze, dopo un duro confronto interno alle tre confederazioni (nella Cisl memorabile lo scontro Storti-Carniti, nella Cgil le dimissioni di Agostino Novella), furono la richiesta di incompatibilità tra cariche politiche (sia parlamentari che di partito) e cariche sindacali e la prospettiva di unità sindacale organica. L’unità sarà attuata soltanto dai metalmeccanici con la costituzione della FLM (Genova, 29 settembre 1972), mentre Cgil, Cisl e Uil, che avrebbero dovuto sciogliersi secondo le decisioni dei Consigli generali di “Firenze 3”, sottoscrivono un’unità meno ambiziosa chiamata “Patto federativo”. Un’occasione storica mancata che avrebbe senz’altro impresso una svolta radicale nei rapporti sociali e politici del paese. Anche le Acli, al congresso di Torino, sanciscono la fine del collateralismo con la DC, mentre, nella DC, Aldo Moro si stacca dalla maggioranza dei dorotei, guarda con attenzione ai fermenti provenienti dalla società e comincia a pensare ad un “terza fase” della politica italiana: “è in atto quel processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti ed emblematiche” (relazione al Consiglio nazionale della DC del 20/7/75).
Nel mondo cattolico il Concilio aveva lasciato tracce profonde e la “Lettera a una professoressa” di Don Milani contro il classismo della scuola italiana anticipa la stagione della contestazione; i gruppi cattolici impegnati nel sociale s’incontrano con gli operai in lotta e si schierano dalla loro parte. Alcuni settori della Confindustria, rappresentanti del cosiddetto “capitalismo illuminato”, cercano di riformare la propria associazione e nel “documento Pirelli” si spingono ad affermare che la conflittualità rappresenta un “elemento costitutivo ed ineliminabile di una società pluralista”.
Ma l’emergere di nuove soggettività politiche non diede origine alla formazione di partiti in grado di competere con quelli tradizionali: fu proprio qui che si verificò il clamoroso distacco tra il pensiero di quei ceti intellettuali che teorizzavano radicali cambiamenti politici partendo dal sociale e i comportamenti elettorali dei cittadini (anche di quelli che partecipavano alle lotte). Assistiamo alla proliferazione di gruppi politici di estrema sinistra (a forte componente studentesca e con alcune presenze di operai protagonisti delle lotte) che leggono il conflitto sindacale e sociale come l’apertura di una “fase rivoluzionaria” (allora era un termine diffuso e non suscitava paure) accusando di moderatismo i sindacati e i partiti storici di sinistra (in particolare il PCI).
A differenza della situazione attuale, dove ad ogni tornata elettorale si verificano consistenti mutamenti e nascita di nuovi partiti, nel ciclo del ’69 falliscono tutti i tentativi di costituire nuove forze politiche. I risultati delle elezioni del ’68 e del ’72 lo stanno a dimostrare: la DC oscilla tra il 38-39%, il PCI stabile al 27%, mentre tutti i nuovi gruppi politici presenti alle elezioni del ’72 vengono bocciati: “Il Manifesto” (nato dall’espulsione di Natoli, Pintor e Rossanda dal PCI) ottiene lo 0,7%, il “MPL” (Movimento politico dei lavoratori, proveniente dal mondo cattolico e fondato dall’aclista Livio Labor, raggiunge lo 0,4%), il Psiup (nato da una scissione del PSI nel 1964) non conquistò neanche un deputato e si sciolse. Alle prime elezioni regionali del 1970 il PCI è il primo partito soltanto nelle zone tradizionalmente rosse (Emilia, Toscana e Umbria), mentre nelle tre regioni del Nord ovest, corrispondenti al triangolo industriale delle lotte operaie, il PCI solo in Liguria supera la media nazionale. Gli effetti sui partiti arriveranno molto più tardi quando alle elezioni del 1976 il PCI raggiunge la percentuale più alta della sua storia (il 34,4% contro il 38,7% della DC), senza però riuscire a compiere significativi passi verso un sistema di alternanza (anzi nel ‘76 verrà sperimentato il governo delle astensioni).
Come mai tutti questi fermenti sociali e culturali non hanno conseguenze significative sul terreno elettorale? La risposta sta nella constatazione che la maggioranza dei lavoratori desiderava migliorare le proprie condizioni di lavoro e di vita e riteneva di poter realizzare queste aspirazioni rafforzando il sindacato e la sua soggettività politica e non formando nuovi partiti. Ancora nel 1975 Asor Rosa, nella Storia d’Italia di Einaudi, scriveva: “oggi il movimento operaio è nella fase ascendente della sua egemonia, mentre il grande capitale ha visto entrare in crisi la sua rappresentanza politica diretta”. Sappiamo invece che il maggior partito politico rappresentativo del movimento operaio aveva proposto, in seguito alle riflessioni sul golpe cileno del ’73, la strategia del compromesso storico proprio perché non riteneva possibile un’alternativa basata sulla forza derivante dalle lotte operaie. La valutazione sul compromesso storico costituisce tuttora uno degli aspetti più controversi della politica di Enrico Berlinguer.
Volendo formulare un giudizio d’insieme possiamo affermare che la permanenza del sistema politico bloccato – stabilità dei risultati elettorali e instabilità dei governi (nella quinta legislatura 1968-72 cambiano sei governi) – costituiva la caratteristica dominante di quella fase storica. A partire dai nuovi diritti sindacali conquistati in fabbrica si pensava di modificare l’intera società, ma qui le difficoltà erano enormi, esisteva una pluralità di controparti e di soggetti con interessi contraddittori; le stesse leggi di riforma per essere attuate venivano demandate ad una miriade di ulteriori provvedimenti che col tempo si perdevano per strada. Non solo, le riforme dovevano incidere nel concreto dei rapporti di potere dei diversi gangli della società dove si richiedeva un costante intervento di controllo. La strategia post contrattuale, affermava Carniti (“Rinascita”, 16/1/70), “deve scartare a priore le ipotesi che al movimento operaio spetti di insegnare ai capitalisti il modo di condurre una politica economica migliore e puntare invece su una reale alternativa al modello vigente.” A tale scopo il sindacato inventa, in un secondo tempo, i “Consigli di zona” che però, dopo la fase degli entusiasmi iniziali, diventano luoghi di sperimentazione di minoranze (rilevante il ruolo del movimento delle donne), mentre la maggioranza dell’apparato sindacale rimane impegnato nelle rispettive categorie.
Fu comunque un periodo felice di ricerca di comunicazione della fabbrica con la società, basti pensare al “salario sociale” che consisteva in una parte del salario dei lavoratori devoluta a interventi nel territorio (asili nido, consultori socio sanitari) e soprattutto alla riforma sanitaria. E’ la richiesta, oggi di estrema attualità, di un nuovo modello di sviluppo.
La stagione della conflittualità permanente mette in discussione certezze consolidate. Nei settori più conservatori del paese, e degli apparati dello Stato, emergono paure e domande di reazione (interventi della polizia, denunce penali, forme diverse di repressione) fino a culminare nelle bombe alla Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana (Milano, 12 dicembre ’69) che provocano sedici morti e oltre cento feriti. I sindacati denunciano la strage come un attacco alla democrazia effettuato dai nemici del movimento dei lavoratori. Appariva chiaro il tentativo di arrestare con la violenza il processo di sviluppo aperto dal sindacato, ma su questo terreno, nonostante le divergenze sul ruolo politico, esisteva un sentire comune consolidato. La logica del conflitto sindacale influiva sul sistema politico non solo perché voleva contrattare obiettivi generali di politica economica e sociale, ma anche perché tendeva a trasformarsi esso stesso in soggetto politico autonomo con valenze riformatrici; un punto particolarmente controverso che si scontrava con le strategie dei diversi partiti (ricordiamo le accuse di pansindacalismo) e comunque avrebbe avuto maggiori possibilità di successo solo con l’unità organica: una prospettiva dimostratasi, come abbiamo detto, scomoda per molti. Ancora oggi costituisce il nodo irrisolto del movimento sindacale e della società italiana, nonostante siano trascorsi trent’anni dall’abbattimento del muro di Berlino.
Salvatore Vento