Prende spunto dall’anno della fede, ma esprime un’ansia laicale non priva di disagio sulla presenza e l’annuncio della Chiesa nell’oggi del mondo. E’ una riflessione non di circostanza e d’interesse tutt’altro che locale, indirizzata in forma di lettera aperta – garbata ma esigente – a mons. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia e vicepresidente della Cei. L’ha scritta il prof. Gianfranco Maddoli, studioso di storia antica e negli anni scorsi sindaco ulivista di Perugia e assessore alla cultura della Regione Umbria.
Caro fratello Arcivescovo,
rivolgo a te questa mia lettera aperta all’inizio dell’“anno della fede” affinché tu, che hai particolari, delicate e sempre maggiori responsabilità nella Chiesa, ne colga spunti per la tua riflessione pastorale e, ove tu la riconosca ispirata da sincero desiderio di una efficace evangelizzazione nel tempo che stiamo vivendo, te ne faccia interprete.
La mia esperienza cristiana nella Chiesa cattolica ha attraversato gran parte del secolo scorso a partire da una sana educazione tradizionale in un clima religioso generale che non potrei certo definire nel suo complesso liberante, all’interno del quale la mia fede venne salvata grazie a un’Azione Cattolica giovanile che mi offrì la testimonianza di sacerdoti e di laici aperti che preparavano, per chi fosse attento e sensibile, fermenti per il futuro. All’università e negli anni immediatamente successivi respirai la novità del Concilio e la vissi soprattutto nell’ambiente fiorentino, sollecitato da figure di laici e di religiosi quali La Pira, padre Turoldo e soprattutto padre Balducci che anche tu, da fiorentino e coetaneo, hai ben presenti, ma anche da personalità culturali provvidenzialmente incontrate e occasionalmente frequentate quali ad esempio lo storico benedettino Jean Leclercq o il teologo-filosofo Raimon Panikkar, la cui riflessione aprì la mia mente a più ampi orizzonti; ma anche da tanti altri cristiani, oggi anonimi per i più ma allora decisamente testimoni di profezia.
La rottura di vecchi tabù, la rinnovata lettura della Bibbia anche in vista del suo efficace fermento nell’attualità, l’abitudine a pensare come premessa al credere aprirono a me e a molti una nuova stagione per la fede: fu la grande novità di quel Concilio, che menti di corto sentire possono oggi leggere solo in chiave di naturale continuità (che per molti aspetti ovviamente ci fu!) con la cristianità del primo Novecento; basti solo pensare al rifiuto dei primi schemi curiali proposti ai padri conciliari o per altro verso alla luminosa figura innovatrice di Giovanni XXIII! Il Concilio produsse nuove energie nella Chiesa, stimolò un rinnovamento della teologia e insieme nuove vocazioni religiose, spesso adulte, coinvolse e motivò una larga fascia di laici e in particolare di giovani.
Seguirono più di recente anni di assuefazione, talora di aspra reazione o in molti casi di semplice anestesia degli impulsi innovatori. Cominciarono a venir meno vocazioni e impegni laicali, in particolare in direzione di un coerente coinvolgimento civile e politico, oggi più che mai necessario nell’attuale degenerato contesto, anche se non in forme politiche organizzate e ‘battezzate’, che in quanto tali costituirebbero un evidente ostacolo per l’evangelizzazione; e si è fatto sempre più difficile il dialogo con le nuove generazioni, non solo dei più giovani, come dimostrano le preoccupanti percentuali di frequenza alle chiese e ai sacramenti, a prescindere da quei gruppi ristretti, per lo più autoreferenziali e di impronta prevalentemente spiritualista, in cui
l’intimismo devoto sembra prevalere sull’intelligenza del proprio tempo. E soprattutto si fa difficile in Italia il dialogo con il mondo ‘laico’ in genere, nella scarsezza di interlocutori cristiani adeguati (uno degli ultimi, il cardinale Martini, è da poco venuto meno nel più largo riconoscimento di quel ruolo svolto ma lasciando un’eredità di riflessioni e di provocazioni alla stessa Chiesa cattolica che ci auguriamo siano quanto più possibile feconde): con interlocutori ‘laici’ spesso incapaci di sintonizzarsi con il linguaggio della tradizionale evangelizzazione in un’epoca di grandi progressi nel campo delle scienze e delle tecnologie.
E’ su questo aspetto in particolare che vorrei richiamare l’attenzione tua e della Chiesa italiana perché l’”anno della fede” sappia trovare quei linguaggi e quegli atteggiamenti che non lo rendano un’ennesima occasione perduta a favore di retoriche enunciazioni o di riproposizioni di ormai superate visioni del mondo. Un anno che prepari la strada a un nuovo Concilio da cui nasca una nuova formulazione del “Credo” che sia comprensibile ai cristiani del XXI secolo. Parlo con alle spalle l’esperienza di anni di insegnamento universitario, a contatto di giovani ormai avviati a superare l’emotività adolescenziale e di colleghi per lo più ormai consolidati in atteggiamenti di rifiuto oppure (con le dovute eccezioni) di passiva adesione a un Cristianesimo spesso solo formale; parlo con alle spalle alcuni anni di esperienza amministrativa nella cd. “stagione dei professori” chiamati a supplire vuoti creati dalla debolezza della politica, anni che mi hanno posto a contatto con una galassia di esperienze umane tra cui purtroppo anche quella di sedicenti cristiani che poco o nulla giovavano all’annuncio di fede quando non ne erano ostacolo; e parlo con alle spalle il contatto con figli e amici di figli ai quali come genitori non abbiamo saputo dare – nel contesto pur cristiano in cui erano o sono cresciuti – se non una testimonianza personale forse inadeguata, certamente resa più difficile dalla distanza oggettiva dell’ambiente in cui la maggior parte di loro vive rispetto ai modelli di comunicazione della fede attualmente proposti.
In questa situazione mi è molto di conforto, guardando al futuro, la ripetuta affermazione presente nella Scrittura, dall’Antico al Nuovo Testamento (da Esodo 33,2 a I Giov. 4,12; 4,20; I Pietro 1,8; ecc.) che “Dio nessuno lo ha visto”, perché lascia aperta la possibilità di un’immagine di un Dio per l’oggi e per le future stagioni che sia adeguata alle esigenze culturali del tempo vissuto. Noi – dobbiamo riconoscerlo senza timori – ci portiamo ancora dietro pesantemente immagini di Dio, e di quanto a Dio può riferirsi, che risentono di due millenni di storia culturale del Vicino-Oriente e dell’Occidente; non avendolo “mai visto” direttamente, ogni stagione passata si è immaginata un Dio alla propria misura, sovrapponendo spesso acriticamente e caricando sulle successive le proprie figurazioni, i propri linguaggi anche espressivi e artistici: questi ancora oggi, in moltissimi casi, sopravvivono e costituiscono un evidente ostacolo all’annuncio del messaggio di salvezza, che riposa in Gesù, a una generazione che non riesce più a distinguere immagini e parole – che spesso già di per sé necessitano di chiarimenti in quanto dirette a contadini, pastori e pescatori ma anche a religiosi e uomini di potere di 2000 anni fa – da successive e ben datate elaborazioni che una malintesa statica ‘tradizione’ ancora propone. Parole e soprattutto immagini che vengono passivamente utilizzate come ovvie nella predicazione e nella catechesi rivolta a giovani e adulti del tempo di Internet, di Twitter e delle esplorazioni spaziali. Non c’è chiesa (e spesso purtroppo ancor oggi anche più di un’omelia!) in cui Dio – scelgo un esempio che può apparire banale ma è significativo – non venga rappresentato come un vecchio sopra le nuvole, con la barba e seduto in trono, circondato da figure con le ali in un “alto dei cieli” più o meno esplicitamente inteso in senso fisico e alla lettera, implicitamente collocato non si sa a quale altezza e temperatura siderea. Se non altro più modestamente gli antichi Greci ponevano la sede dei loro dèi sulla vetta dell’Olimpo! Si persiste nell’accreditare un Dio spesso crudele, che non impedisce il male e le catastrofi terrene, pur potendolo nella sua “onnipotenza”; si recita il “Padre nostro” continuando per lo più a intendere il “fiat voluntas tua” (ed è convinzione ancora diffusissima e non contrastata) in termini di rassegnazione passiva per la donna e per l’uomo che invece sono tenuti a realizzare ora, su questa terra e nella concreta situazione quotidiana, la volontà del Padre “che è nei cieli”; si continua a parlare di annuncio evangelico abusando nell’evocazione di “pecore” e “pastori” che la gran parte dei giovani di oggi, nei nostri paesi, non ha forse mai neppur visto: senza sforzo di tradurre nel linguaggio attuale espressioni e concetti che furono ovviamente adatti alla gente del tempo di Gesù e di trovare altre “parabole”, fedeli nel contenuto ma nuove nella forma. Si dimentica troppo spesso che Gesù non parlava alla folla se non in parabole (Matteo 13, 34) “secondo quello che potevano intendere” (Marco 5, 33). Certo, è necessario educare alla comprensione dei linguaggi della Scrittura, che resta il punto di riferimento, ma è altrettanto necessario per l’evangelizzazione odierna esprimersi nei linguaggi oggi correnti, soprattutto fra i giovani, e fare di Cristo un contemporaneo. In questa obbligata prospettiva si può solo tristemente sorridere di fronte a chi ripropone il latino come lingua di comunicazione nella liturgia della Chiesa cattolica (lasciatelo dire a uno studioso del mondo classico!…).
Spero che questi pochi esempi citati possano rendere il senso della mia preoccupazione alla vigilia di un “anno della fede” che, senza il necessario coraggio, potrebbe correre il rischio delle pie intenzioni e non riuscire a dare una risposta significativa alle domande e alle esigenze che si pongono oggi alla Chiesa. Non intendo certamente affermare che si debba gettare a mare di colpo tutte le forme di religiosità tradizionale, da sempre legate alla sensibilità popolare e alcune particolarmente radicate, né giudicare la coscienza di chi pratica forme di devozione o usa in nome della fede linguaggi che sono oggi di oggettivo ostacolo alla evangelizzazione: va sempre ricordato con S. Paolo (Rm 12,3) che ciascuno agisce “secondo la misura di fede che Dio gli ha dato”. Ma questo non toglie che si debba continuamente riportare l’attenzione e l’impegno sulla purificazione del messaggio di Gesù dalle tante scorie che nel tempo vi si sono accumulate e che lo rendono opaco o inaccettabile ai più proprio, e paradossalmente, per opera di chi a suo modo crede di seguirlo, praticarlo e magari annunciarlo! Dio ha bisogno degli uomini anche per fare dono della “fede”: l’Incarnazione ne è la prima espressione, e dunque sta agli uomini, alla sua Chiesa, adoperarsi perché “la misura della fede” cresca in tutti e a tutti si prospetti nella sua vera essenza. Gesù Cristo ha indicato con estrema chiarezza, nel linguaggio del suo tempo, in che cosa consista la vera fede in Lui e nel Padre che nessuno ha visto né può vedere: basta leggere i vangeli, in particolare Giovanni, e il nuovo Testamento là dove i diretti seguaci e testimoni del messaggio ne ripropongono il contenuto, ben lontano da pratiche devozionali proprie di ogni tempo e dalle frequenti inappropriate ostentazioni di un’adesione solo formale, in realtà utilizzabile ad altri fini.
Se guardiamo al grande Mistero che si cela dietro il nome di “Dio”, e tentiamo di dargli un contenuto, il Dio in cui io oggi credo altro non è se non “l’Amore senza limite” (così come, nella metafora, senza limite sono “i cieli”) che deve ispirare la nostra umana finitezza in una tensione a tradurlo il più possibile concretamente e con coerenza nel mondo e nell’ambiente in cui siamo posti a vivere, a cominciare dalla nostra stessa persona (i ‘talenti’) e da chi più ci è vicino: nella famiglia, verso i poveri gli emarginati e i bisognosi di ogni tipo (anche solo di affetto e di attenzione), nell’impegno ‘politico’ a costruire una convivenza fondata sulla dignità, l’uguaglianza, la giustizia, la libertà, il rispetto dei diritti fondamentali.
Se cominciassimo a centrare veramente l’annuncio della fede sull’unico duplice e massimo comandamento del Cristo, “Ama Dio e ama il tuo prossimo” reciprocamente verificabile nel concreto quotidiano, rinunciando a riproporre il filtro di impalcature precettistiche e di inveterati linguaggi curiali, non solo faremmo grandi passi in campo ecumenico, specie nei confronti dei fratelli luterani, ma sono convinto che l’animo generoso di tanti giovani e di molti “non credenti” onesti si aprirebbe alla “fede”: cioè alla “fiducia” in quel Dio che nessuno ha mai visto ma che è e vuole solo atti di amore, perché questo, e non altro, è il Dio che ci trascende e che Gesù ha incarnato e predicato. Per far vivere e far capire a tutti questa dimensione, e non per altro, Gesù ha voluto la sua “chiesa”. Il pane e il vino che ci viene proposto di consumare “in sua memoria” altro non sono se non i simboli essenziali del nostro vivere di ogni giorno, che di atti di amore ha estremo bisogno. Nell’ “anno della fede” ricordiamo anzitutto, ben oltre il latino dell’antico inno, che solo “ubi caritas et amor ibi Deus est”.
Gianfranco Maddoli