Riflessioni di un cattolico inquieto

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1. Tornare ad essere minoranze attive. È stato l’invito che il presidente dei vescovi italiani ha rivolto qualche tempo fa ai cattolici italiani. Si tratta di un invito che è anche consapevolezza del modo in cui i cattolici dovrebbero affrontare l’impegno politico: quello di una minoranza. Questa importante presa di coscienza dovrebbe sempre accompagnare l’azione politica dei cattolici. Dal punto di vista pratico, riconoscersi minoranza significa soprattutto escludere pretese egemoniche o presenze identitarie, e riscoprire il valore della mediazione quale metodo del confronto politico con altre istanze culturali ed etiche. Peraltro, per i cattolici riconoscersi minoranza dovrebbe essere quasi naturale, infatti il monito evangelico di essere sale e lievito rinvia ad una presenza di qualità non di quantità. Poi, in una democrazia in tensione come è quella che oggi viviamo, il ruolo delle minoranze profetiche di choc, quale linfa che tiene in vita la democrazia nei tempi di crisi e di cui parla Maritain, si rivela davvero indispensabile.

2. L’irrilevanza politica dei cattolici non mi pare sia riconducibile ad una semplice latitanza. Penso, invece, che ci troviamo di fronte ad una questione piuttosto complessa che rinvia ad un dato di realtà con il quale conviviamo da diverso tempo, e che è sintetizzabile così: da una parte un “secolarismo facilone” che scambia la fede con il bigottismo, dall’altra una fede ridotta a religione civile, tutta forma e regole, una religione scandita dalla stanca ripetizione di riti, dietro ai quali si fa fatica a scorgere le tracce della novità cristiana, hanno provocato un cambiamento del clima religioso (Alberto Melloni, La Repubblica 5 marzo 2018). Il vero problema dei cattolici italiani, che è alla base della loro irrilevanza politica, è rappresentato da un deficit culturale. A scanso di equivoci, va subito detto che in gioco non è tanto la conoscenza della dottrina come insieme di precetti che la storia ha sedimentato, quanto la consapevolezza del “kerigma” cristiano, cioè “l’essenziale” del messaggio evangelico: i cristiani abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure portano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi(Chi sono i cristiani? Lettera a Diogneto, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose). La fede è vissuta non come paradosso (essere nel mondo ma non del mondo) ma come uno status civile e come tale assorbe tutti i tratti, anche quelli negativi, della società (individualisti, familisti, moralisti, populisti, etc.etc.).

Se i cattolici sapranno essere sempre più uomini di fede e meno di religione, se sapranno mettersi alla scuola di Francesco, saranno anche uomini capaci di vivere la carità politica, di costruire l’intelligenza cattolica in politica. Una intelligenza che assume come principio guida l’interesse generale della comunità e non gli interessi particolari, fossero anche quelli della Chiesa. Moro c’è lo ha insegnato, Lui che è stato il più spirituale e al tempo stesso il più laico dei cattolici politici.

Il grande consenso che nelle ultime elezioni hanno avuto anche da parte dei cattolici, forze che hanno fatto della demagogia populista e della paura la sostanza delle loro proposte, dovrebbe seriamente interrogare la Chiesa circa l’efficacia della sua pedagogia.

3. Tra il vecchio collateralismo dei tempi democristiani e il distacco dei tempi attuali  può esserci una terza via? Intanto non si possono ripetere  esperienze del recente passato come ad esempio i convegni di Todi, o quelli del family day promossi da organizzazioni di ispirazione cristiana. Queste iniziative sono state espressioni di una Chiesa “clericale”,  dimentica della lezione conciliare, impegnata a trafficare con i governi di centrodestra ai quali offriva il proprio sostegno in cambio della difesa dei cosiddetti principi non negoziabili, non di un vero progetto politico. Non è sul livello della “pressione lobbistica” che si assicura rilevanza politica. Una difesa meramente “legale” dei valori cristiani, per di più non di tutti ma prevalentemente di quelli attinenti l’etica sessuale, non solo condanna i cattolici ad un ruolo gregario ma li trasforma da soggetti di cambiamento a “estrattori di rendita”.

D’altra parte una presenza efficace non si assicura neppure privilegiando il livello “pre-politico”, se il pre-politico è inteso come un luogo neutro dove si coltivano i valori in forma astratta, senza la fatica della loro mediazione in un concreto progetto politico. Così inteso, il pre-politico sarebbe una retrovia che terrebbe i cattolici al riparo da ogni rischio derivante dal “prendere parte”. Attardarsi ancora su questo livello significherebbe ritagliarsi uno spazio autoreferenziale, abitare un territorio estraneo a quello reale della gente comune. Significherebbe al più limitarsi a contemplare un ricco patrimonio di idee e di esperienze ma rimanere praticamente fermi, contraddicendo l’appello di Francesco ad “uscire”, a compromettersi, a rischiare la propria responsabilità politica.

4. Dunque, né lobbisti, né prigionieri di una posizione di neutralità e di indifferenza. Come, allora, ritrovarsi nel mare aperto della politica? Innanzitutto non si può non fare i conti con il Pd, in quanto una parte rilevante del cattolicesimo democratico ha concorso alla sua fondazione.

Nell’attuale mercato della politica, con un elettorato “liquido”, non più ideologico, recettore di messaggi semplici, sempre più individualista e rancoroso, la distinzione destra/sinistra sembra rivelarsi inadeguata, superata da quella inclusi/esclusi, nord/sud, popolo/élites. La distinzione sturziana o sinceramente conservatori o sinceramente democratici oggi andrebbe declinata in quella o sinceramente popolari o sinceramente elitari. Si è democratici solo se si è popolari. Oggi, di fronte alla semplicità, alla chiarezza e anche alla gravità delle parole d’ordine leghiste, per riorganizzare una offerta politica attrattiva non basta più comprendere le ragioni di chi è escluso, di chi arranca, di chi rischia di vivere in un perenne stato di precarietà e prospettare soluzioni eque e innovative. Non basta più limitarsi ad indicare la strada giusta per ridare dignità e sicurezza alle persone. Non basta più l’etica e la sostenibilità delle proposte. E’ addirittura un lusso discutere di sovranisti ed europeisti.  Di cose da fare e di nobili propositi sono pieni gli archivi del Pd. Peccato che si sbagliano sempre i tempi.

Questo partito è prigioniero delle proprie èlites e non è dato capire cosa voglia essere. La sua classe dirigente, anche quella locale, vive un assordante isolamento. Perché continuare a declamare, come una stanca litania, i risultati conseguiti e far ricadere la responsabilità del catastrofico esito elettorale sul libero convincimento dei cittadini, significa condannarsi alla irrilevanza. Di fronte a questo Pd si avverte quello stato d’animo e senso di impotenza che fece dire a  Pasolini: “io so, ma”.  Si sa che c’è bisogno di maggiore giustizia sociale, di maggiore valorizzazione del merito, di maggiore solidarietà tra le generazioni, di più attenzione al lavoro che manca, di più scuola autorevole, di un Mezzogiorno che cessa di essere una questione, di una pubblica amministrazione efficiente. Si sa pure che il pensiero dominante è nuda e violenta demagogia. Ecco, si sa tutto questo, ma non si sa essere popolari, non si ha l’umiltà di riconoscersi popolari, di riconoscere che non si è migliori di chi ha orientato il proprio consenso verso i “nuovi barbari”. I democratici sanno stare con il popolo quando sono bene-educati: non cedono alla logica amico/nemico, non strumentalizzano le persone e i loro bisogni, non creano accampamenti di adulatori, non utilizzano le Istituzioni per costruire la propria carriera politica, non occupano spazi ma promuovono processi (anche quelli necessari per l’affermazione di nuova classe dirigente), lasciano il campo quando sono sconfitti e, soprattutto, non si fanno riconoscere come èlites.

Con un Pd ridotto ad una “monade senza porte e senza finestre”, al cui interno si combattono guerre di posizione tra capi-tribù, e da cui si emettono voci tanto ripetitive quanto prive di credibilità, è quasi impossibile dialogare. È mai possibile che non si avverta sui territori la necessità ormai vitale di una apertura di dialogo con quei pezzi di società di mezzo che, con fatica, sono ancora capaci di aggregare interessi e aspirazioni? Per chi sta nella cittadella fortificata per appartenenza ad una cordata, qualunque strategia, qualunque idea andrà bene se preserva la propria sopravvivenza. Quale proposta credibile di discontinuità potrà allora essere prodotta dall’interno di una monade? In questi giorni assistiamo ad uno spettacolo davvero indecente: anziché riflettere sulla fuga di milioni di elettori si occupa il tempo a discutere se trasformare il reggente in segretario effettivo. È il massimo dell’autismo politico.

C’è ancora qualcuno nel Pdche tiene vivo il ricordo delle ragioni della sua fondazione? Le ragioni alla base non di un nuovo partito ma di un partito nuovo di popolo? E i cattolici formati alla scuola di Francesco sanno e vogliono accettare la sfida del nuovo popolarismo?

 

Luigi Lochi

3 luglio 2018

 

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