Riforma del lavoro. Un commento di Luigino Bruni

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Per Radio Vaticana Adriana Masotti ha intervistato Luigino Bruni, docente di economia politica all’università “Bicocca” di Milano e all’Istituto Sophia di Loppiano, nonché responsabile del progetto di Economia e Comunione, in merito alla riforma del mercato del lavoro, approvata “salvo intese” dal Consiglio dei ministri, ma senza un accordo pieno con le parti sociali. La Cgil, anzi, ha subito proclamato una serie di scioperi. “Questa riforma – dice Bruni – si basa su una cultura molto anglosassone, dove si vorrebbe creare un’economia pura, senza le scorie, i limiti e le vulnerabilità della vita, e scaricare da qualche altra parte – ma non si comprende bene dove, se nella famiglia o nella comunità – i limiti, le vulnerabilità e le fragilità. In realtà, bisogna riconoscere che l’impresa è un luogo che ha gli stessi limiti e le stesse vulnerabilità di tutta la vita comune. Il sogno dell’efficienza pura, di espellere le persone poco adatte al lavoro, non ha mai funzionato nel modello comunitario europeo, perché il nostro è un modello più sociale”.

Che cosa significa il mancato accordo generale sulla riforma?

Significa innanzitutto che oggi c’è una divisione anche interna ad una certa Cgil, nel senso che esistono delle posizioni più moderate e più forti che rendono difficile il dialogo e l’avere una linea comune e condivisa internamente alla Cgil stessa. Però vuol dire soprattutto che questa riforma del lavoro è una riforma complessa. Sarei stato stupito se la Cgil avesse accettato una riforma del genere senza protestare e senza sollevare delle problematiche, perché questa è una riforma che certamente tutela meno il lavoratore fragile. Lo ripeto: avrei preferito una maggiore concertazione ed un maggior ascolto delle posizioni, anche di una parte così importante del sindacato, perché la materia del lavoro è una materia davvero molto delicata.

Il ministro del Lavoro dice che la modifica dell’articolo 18 non calpesta i diritti dei lavoratori…

Io la vedo un po’ diversamente. I motivi economici sono molto poco oggettivi se facciamo riferimento ad un momento di crisi e di difficoltà. Se questa nuova normativa viene considerata come un “pagare per licenziare”, capiamo benissimo che quando si parla del lavoro non si tratta di un semplice problema di indennizzo, ma di identità, ossia: ‘che cosa faccio dopo’? In questo momento, secondo me, c’è bisogno di maggior tutela del lavoro e non minore, perché siamo in una fase di grandi cambiamenti e di grandi difficoltà per il lavoro, come anche per il capitale. Capisco che c’era necessità di riformare il mercato del lavoro, però non credo che questa normativa sia stata introdotta per i più fragili. Piuttosto, va a vantaggio delle grandi imprese.

Però non c’è soltanto l’articolo 18: tra i punti centrali della riforma vi è anche la valorizzazione dell’apprendistato, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, costi maggiori a carico delle imprese per i contratti a termine…. Che ne dice di tutto questo?

Questi sono tutti interventi che mi piacciono, soprattutto quello che concerne l’apprendistato, che mi piace moltissimo, perché significa riavvicinare i giovani al mondo del lavoro. Questo è un tema immenso: in Italia, negli ultimi decenni, abbiamo allontanato i giovani dalle imprese. Questa, lo ripeto, è una legge che comprende più elementi: alcuni li apprezzo e li condivido, altri meno. Se rendo più semplice l’uscita, dovrei quantomeno incentivare l’entrata… Questa riforma si basa su una cultura molto anglosassone, dove si vorrebbe creare una zona economica, un’economia pura, senza le scorie, i limiti e le vulnerabilità della vita e scaricare da qualche altra parte – ma non si comprende bene dove, se nella famiglia o nella comunità – i limiti, le vulnerabilità e le fragilità. In realtà, bisogna riconoscere che l’impresa è un luogo che ha gli stessi limiti e le stesse vulnerabilità di tutta la vita comune. Il sogno dell’efficienza pura, di espellere le persone poco adatte al lavoro, non ha mai funzionato nel modello comunitario europeo, perché il nostro è un modello più sociale. Dobbiamo, quindi, stare molto attenti: questa ondata di neo-liberismo – che è arrivata anche da noi – non deve farci perdere un’identità storica di secoli e di civiltà cristiana, che va dal Medioevo in poi, dove il lavoro è stato sempre visto all’interno di un patto sociale molto più ampio, che coinvolgeva la comunità, la famiglia, le istituzioni e dove il lavoro non è una merce, ma un bene fondamentale che viene prima di qualsiasi altro bene, perché riguarda la persona. Tra i fattori di produzione – capitale, terra e lavoro – il lavoro ha un piccolo particolare: ci sono di mezzo le persone. In passato – e ancora oggi – è stato visto come un bene speciale, soprattutto in Europa, che ha una vocazione molto più forte dal punto di vista sociale e comunitario.

Nel suo complesso, questa riforma servirà comunque per creare nuova occupazione e nuova crescita, che sono poi i problemi centrali dell’Italia di oggi?

Lo spero, perché c’è davvero molto bisogno che sia così. Personalmente, credo che oggi i nuovi posti di lavoro non verranno creati nella grande industria e neanche nello Stato. Occorrerà inventarsi altri posti di lavoro, da altre parti. Cioè, secondo me, nell’ambito civile, nel mondo cooperativo, partendo dalla voglia che hanno le persone di mettersi insieme e creare lavoro, come in realtà è stato fatto, in passato, nei momenti di crisi: pensiamo alla fine dell’Ottocento, al dopoguerra, quando anche i cristiani e le persone di buona volontà si sono messi insieme per creare loro stessi dei lavori. Si sono inventati casse rurali, cooperative, che oggi tradurremmo con l’impresa sociale, il no-profit, l’economia civile, l’economia di comunione. Bisognerà quindi creare lavoro dal basso, dalla gente.

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