Riformare le RSA, non chiuderle

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C’è indubbiamente di che essere sorpresi leggendo che la Commissione Nazionale istituita dal ministro Speranza allo scopo di definire il progetto di riforma delle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) – Commissione la cui presidenza è stata affidata lo scorso anno a mons. Vincenzo Paglia – sia arrivata alla conclusione che le RSA vanno chiuse per favorire l’assistenza domiciliare[1].

Credo sia importante richiamare l’attenzione sulle RSA, e dunque sull’assistenza alle persone anziane fragili e non autosufficienti. È un tema troppo ignorato e altrettanto spesso relegato in ambito privato, quasi a dire “chi ha il problema se lo risolva”, che è la stessa logica che sembra emergere dai lavori della citata Commissione Nazionale.

In proposito una prima affermazione: in una “società perfetta”, che si caratterizza come “comunità che cura”, cioè come soggetto in grado di attivare tutti i soggetti e tutte le risorse disponibili sul territorio, nelle famiglie, nelle istituzioni e nella società per consentire a quella comunità, ad ogni comunità, di affrontare e  rispondere “facendosene carico” del bisogno in essa presente e da essa generato, l’ipotesi dell’abolizione delle RSA  sarebbe senz’altro condivisibile e di urgente attuazione, ma la nostra non è una “società perfetta” anzi, è sempre più “anziana e individualista”, con reti familiari e sociali sempre più deboli e inefficaci, ben lontane da ciò che sarebbe necessario ci fosse per garantire una efficace assistenza domiciliare, o meglio, una assistenza modello RSA diffusa fino al livello familiare.

Di ciò ne è la dimostrazione quanto messo in evidenza dalla pandemia da Covid 19: la debolezza, quando la non esistenza, della rete territoriale dei servizi sociosanitari quale articolazione di base del Servizio Sanitario Nazionale e Regionale, rete che negli anni è stata prima ridotta e poi distrutta a favore centralità dell’ospedale e della privatizzazione delle prestazioni sanitarie di base. Basti guardare alla realtà lombarda nella quale il distretto sociosanitario non esiste più e le prestazioni diagnostiche e specialistiche ambulatoriali sono cresciute, dal 1997 al 2017, di quasi il 500% per il settore privato, a fronte del 120% del settore pubblico.

Chi è chiamato a decidere deve rendersi conto che esiste una realtà “annunciata” dalla legge, sia essa nazionale o regionale, ed esiste una realtà “attuata”, spesso molto diversa da quella annunciata, ma è di questa, quella attuata, che si deve ragionare e progettare il futuro. Non mi pare che questo sia stato il criterio che ha ispirato la Commissione Nazionale, perché se così fosse non sarebbe pervenuta all’ipotesi di chiusura della RSA, ipotesi che appare di natura meramente “ideologica” non certo di attenzione e cura delle persone fragili e non autosufficienti.

Credo che, volendo ragionare con realismo sulle politiche sociosanitarie e socioassistenziali del nostro Paese e, dunque, del ruolo delle RSA, due aspetti sono strategicamente importanti:

1)    La centralità dell’integrazione sociosanitaria intesa come integrazione tra il sistema dei servizi sanitari e il sistema dei servizi socioassistenziali deputati alla tutela della salute delle categorie deboli e a rischio di emarginazione: Anziani, handicappati, minori, tossicodipendenti, ecc., al fine di creare un percorso di continuità assistenziale in grado di rispondere alla domanda di salute di queste persone a prescindere dalle competenze assegnate ai diversi sistemi di servizi. Se dell’integrazione questo è l’aspetto importante, non meno importante è come misurare il costo delle “prestazioni sanitarie” di cui le persone hanno bisogno e che, come tali, devono essere poste a carico del Fondo Sanitario e come misurare il costo delle “prestazioni sociosanitarie” anch’esse da porre a carico del Fondo Sanitario in quanto, senza queste, le prestazioni sanitarie non producono risultati apprezzabili, e infine il costo delle “prestazioni assistenziali” da porre a carico della retta pagata dall’assistito.

2)    Ma l’integrazione sociosanitaria è anche un modello in grado di far interagire le prestazioni territoriali con quelle residenziali e specialistiche sulla base del principio che sia il ricovero ospedaliero, ma ancor più quello nelle RSA o nelle altre tipologia di istituti sociosanitari e assistenziali, è da considerarsi come l’ultima delle possibilità, e non l’unica, a cui far ricorso dopo che tutte le altre, finalizzate a mantenere la persona il più a lungo possibile al proprio domicilio, organizzando e portando i servizi a questo livello, hanno esaurito le loro potenzialità e la loro efficacia. Questo è l’anello debole di tutto il sistema “attuato” che ha ridotto di molto anche il poco che esisteva in termini di servizi territoriali mentre doveva essere fortemente sviluppato e incentivato. Risulta, pertanto, in tutta la loro evidenza come le scelte politiche, economiche ed organizzative che hanno presieduto all’organizzazione delle rete dei servizi di tutela della salute, abbiano sempre considerato maggiormente opportuno trasferire la persona che manifesta una domanda di salute in strutture dedicate (Ospedali, RSA, CRH, ecc.), piuttosto che trasferire prestazioni, servizi e personale, dove si manifesta la domanda di salute.

Affermata la contrarietà all’ipotesi che emerge in seno alla Commissione Nazionale, altrettanto chiaramente si deve affermare che esistono molti problemi che devono essere affrontati affinché le RSA siano realmente “parte” di un sistema di servizi organico e integrato di tutela della salute, di una moderna rete di Welfare State.

Non è questa l’occasione per definire il quadro degli interventi necessari per le finalità sopra indicate. Due sole indicazioni:

a)     dal punto di vista formale tutte le RSA siano esse pubbliche o private per poter operare devono essere “autorizzate” cioè rispettare tutti i parametri strutturali e organizzativi definiti dalla Regione, e se intendono far parte della rete “pubblica” devono essere “accreditate”, cioè devono possedere ulteriori parametri definiti dalla legge. E’ con l’accreditamento che si determina la condizione per la quale il Fondo sanitario interviene nel finanziare le prestazioni sanitarie e sociosanitarie, rimanendo a carico delle rette di degenza le prestazioni socioassistenziali.

b)    Si può certo discutere di pubblico/privato, ma credo che nella situazione attuale valga sempre il detto “non importa il colore del gatto, l’importante è che prenda i topi”. Ciò per dire che sia il pubblico, ma anche il privato sociale o il privato a fini di lucro, hanno una ragione di essere se e in quanto rispondono agli standard organizzativi e strutturali e alle indicazioni operative che l’ordinatore generale pubblico, cioè i governi ai diversi livelli, definisce per l’accreditamento e il funzionamento dell’insieme del sistema dei servizi. Il vero problema allora sono i controlli e le verifiche relative al rispetto di tali standard e indicazioni.

A mio giudizio, convenendo sulla assoluta necessità di rivedere e riformare il sistema delle RSA, occorre riprendere le intuizioni, i principi e i criteri contenuti nelle Leggi 833/1978 (riforma sanitaria) e 328/2000 (riforma dei servizi sociali), e successive modifiche e integrazioni, e su questa base misurare la distanza che esiste tra quel modello “annunciato” e la realtà attuale “attuata”, essendo questa la condizione per definire il cosa fare per riformare e adeguare il sistema dei servizi di tutela della salute alla mutevole domanda di salute delle persone, in particolare di quelle più deboli.

Non esistono soluzioni semplici a problemi difficili. La scelta di abolire l’oggetto del problema, le RSA, (soluzione semplice),  è destinata a creare molti più problemi di quelli affrontabili e risolvibili con una innovativa politica di welfare state che ancora, e purtroppo, manca nel nostro Paese.

 

Rodolfo Vialba

[1] Cfr. Riformare le Rsa è necessario, chiuderle è follia – Lettera di Uneba e Aris al card. Bassetti (CEI).

 

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