L’iniziativa della rete c3dem per riflettere sui pericoli per la democrazia ha rafforzato la convinzione che essa non si difenda da sola, che possiamo perderla o svilirla, e che tocca a ciascun cittadino prendersene cura
Introdotto da Fabio Caneri, che della rete c3dem è il coordinatore, si è tenuto a Milano, lo scorso 26 novembre, il convegno “Democrazia, in cerca di rigenerazione”, che era stato preceduto su questo sito da numerosi e interessanti contributi (leggibili qui accanto).
La giornata, dalle 10.00 alle 16.00, si è mossa su due binari collegati, certo, ma anche nettamente distinti. Al mattino la discussione, aperta dalle relazioni dell’ex fucino ed ex senatore del Pd Giorgio Tonini, e dal presidente della Acli Emiliano Manfredonia, ha ruotato attorno al tema della crisi della democrazia nella sua dimensione più generale e più politica, con qualche accenno alle vie di una possibile rigenerazione. Nel pomeriggio la discussione, aperta da Daniela Ciaffi, vicepresidente di Labsus (Laboratorio per la sussidiarietà), si è concentrata su alcune interessanti esperienze di cittadinanza attiva, potremmo dire di “democrazia dal basso”.
Impegnativa, e franca, la relazione iniziale di Giorgio Tonini si è articolata in questo modo: una premessa, cinque considerazioni di scenario, internazionale e nazionale, e una conclusione, sul che fare, appena accennata.
La democrazia e i suoi nemici esterni e interni
La premessa: non si può che convenire con il noto detto di Churchill secondo il quale la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora. La democrazia ha difetti di tutti i generi, ha detto Tonini, ma non è stato inventato nulla di meglio, e la sua forza sta nella capacità di adattarsi ai diversi contesti, di imparare dai suoi errori. Ha in sé tutti gli strumenti per potersi rigenerare.
Prima considerazione. A differenza che nel ‘900, quando tra democrazia e capitalismo si è riusciti a trovare un compromesso, mentre ad Est non si è riusciti a conciliare democrazia e socialismo (neppure il Pci di Berlinguer ci è riuscito), oggi, caduta la speranza che, dopo l’89, il modello occidentale di democrazia + capitalismo si sarebbe andato diffondendo ovunque, il capitalismo non è seriamente messo in discussione da nessuno ma, viceversa, la democrazia è messa in discussione, tanto all’esterno dell’Occidente quanto al suo interno. Oggi, se il capitalismo lo si dà per scontato, a Ovest come a Est, come forza trainante della crescita, si assiste invece allo scontro tra due modelli di democrazia: uno che continua a scommettere sulla connessione tra democrazia e capitalismo (è il modello occidentale, presente anche in India e altri paesi asiatici e in America latina), e l’altro che scommette invece sul capitalismo autoritario, sulla cosiddetta democrazia illiberale, esplicitamente teorizzati. La guerra russo-ucraina, dice Tonini, può essere letta su questo piano. Per la Russia si può e si deve avere capitalismo senza democrazia. Per l’Ucraina la linea seguita è l’altra: capitalismo + democrazia. Qui è la faglia. C’è dunque un mondo che rivendica un altro sistema politico rispetto a quello occidentale.
Seconda considerazione. La democrazia, oggi, ha dei nemici espliciti, i quali teorizzano che il modello delle democrazie liberali è inadeguato, e lo combattono. Anche con le armi, come la Russia oggi. La democrazia è dunque costretta a difendersi, fino al punto di dover sparare, di morire e di uccidere. Le democrazie devono potersi difendere, dice Tonini, perché c’è nel mondo chi non ripudia l’uso delle armi, anche a rischio della guerra nucleare. Non si può chiedere alle democrazie di non difendersi. La democrazia – insiste Tonini – o si arrende o si difende, non c’è altra via. E, del resto, la pace propugnata da Immanuel Kant poneva delle condizioni per potersi realizzare: che i diversi paesi avessero un regime interno di tipo democratico, che i paesi stabilissero una federazione tra loro, che ogni paese fosse aperto e ospitale.
Terzo. La democrazia ha oggi anche dei nemici interni. Sono il populismo e il sovranismo. L’uno mette in discussione i limiti del suffragio popolare, che per l’articolo 1 della Costituzione si deve esercitare nei limiti della legge, dello stato di diritto; il secondo che mette in discussione i limiti della sovranità nazionale. Populismo e sovranismo sono due virus, nota Tonini, che hanno colpito persino gli Stati Uniti e il Regno Unito, paesi che non hanno mai avuto rotture nel loro percorso democratico e che sono stati la culla della democrazia.
Quarto. Bisogna chiedersi perché stia succedendo questo, da dove viene la fiammata populista. Quello che, intanto, si vede è che i nemici esterni della democrazia fanno il tifo per i suoi nemici interni. Poi c’è il fenomeno evidente dell’impoverimento della classe media nei paesi occidentali. Tonini, a questo proposito, fa riferimento al “Grafico dell’elefante” proposto dieci anni fa dall’economista Branko Milanovic in un rapporto per la World Bank. In un diagramma a forma di elefante, in cui si analizza l’evoluzione dei redditi della popolazione mondiale tra il 1988 e il 2008, Milanovic mostra come si possa dividere la popolazione mondiale in quattro fasce, di cui due hanno tratto scarso o nullo beneficio dal ventennio della globalizzazione galoppante, mentre due ne hanno tratto grande beneficio. La prima fascia (pari al 5%) è quella dove si collocano i poverissimi, i quali non hanno visto alcuna crescita del proprio reddito (la coda dell’elefante). La seconda fascia (pari al 65%) è quella in cui si collocano i due terzi più poveri della popolazione mondiale, ai quali il ventennio ha portato una straordinaria crescita del reddito: dal 40 all’80 per cento (la schiena dell’elefante; si tratta dei cinesi, degli indiani, di larga parte dell’America latina e perfino di una parte dell’Africa). La terza fascia (20%) è quella in cui si collocava, nel 1988, all’incirca, la classe media europea e americana, e in cui nel corso del ventennio ha incominciato a entrare anche la parte più ricca di quella cinese; qui si è registrata una crescita molto bassa, non superiore al dieci per cento, e per una parte addirittura una riduzione (è la parte bassa della proboscide). La quarta fascia (10%) è quella in cui si colloca la popolazione che gode del reddito più alto e che nel ventennio ha avuto una crescita del reddito fra il trenta e il sessanta per cento (la parte alta della proboscide).
I due elementi più negativi del periodo travolgente della globalizzazione, nota Tonini, sono stati la crisi della sostenibilità ambientale e l’impoverimento (relativo) della classe media occidentale, ma questo a fronte del forte miglioramento delle condizioni dei due terzi della popolazione mondiale. Quanto all’Italia, il processo di crescita dei redditi degli anni ’60 e ’70, con la crescita anche del livello di uguaglianza, si è ormai arrestato da molti anni e la percezione è che il futuro vedrà un ulteriore peggioramento. E’ caduta l’aspettativa di costruire un compromesso sempre più alto tra democrazia e capitalismo. Si è avuto anche una sorta di esaurimento dei mondi vitali che avevano caratterizzato gli anni ’60 e 70. Quel tessuto vitale non c’è più, osserva Tonini; e anche le chiese appaiono assai meno vitali.
Così, sia le basi materiali che quelle immateriali della società si sono indebolite. Ed è però inutile, dice Tonini, reagire alla situazione coltivando la nostalgia del passato. Non si può più fare la grande distribuzione dei redditi che si fece cinquant’anni fa. Si rischia di aumentare il già enorme debito pubblico.
Quinta considerazione. Ci si deve dunque chiedere che cosa possiamo fare oggi, in che direzione lavorare. Ma qui Tonini si limita a un sommesso suggerimento. Come dirà poi nel dibattito seguito alla sua relazione e a quella di Manfredonia, lui stesso non ha idee chiare in proposito né tanto meno ricette già pronte. Il suo suggerimento è ai partiti, e in primis al Partito Democratico. I partiti, dice, devono oggi, per prima cosa, generare capitale sociale. Per tanto tempo i partiti hanno usato e consumato il capitale sociale di cui era ricca la società. Ma ora, al contrario, i partiti devono impegnarsi a creare le condizioni della rigenerazione del capitale sociale, devono stimolare la partecipazione dei cittadini.
Manfredonia: combattere la disintermediazione, promuovere il protagonismo dei giovani
Più circoscritta la relazione del presidente nazionali delle Acli Emiliano Manfredonia, toscano, formatosi nel movimento studenti dell’Azione cattolica. Un’altra generazione la sua (classe 1975). Inizia con una critica ai partiti: “non si chiedono più il senso, il perché di quello che si fa”. Non fanno più riferimento a valori e principi. Dà una stoccata al Pd, rimproverandogli di aver appoggiato il referendum sul fine vita (dichiarato inammissibile dalla Consulta il febbraio scorso) senza aprire un dibattito nel partito. Ha detto che le Acli stanno ragionando su una riforma seria della legge elettorale e anche sul sistema dei partiti e su una riconsiderazione del loro ruolo. Obiettivo primo delle Acli, in questo senso, è sconfiggere la disintermediazione.
Al Pd ha rimproverato anche la distanza dalle persone in carne e ossa, osservando che vicino alla gente c’è stato quasi soltanto il Terzo settore, che non solo porta aiuto materiale ma offre una prospettiva di senso. Ha sostenuto che due sono, e debbono essere, i caratteri basilari dell’impegno sociale, il coraggio e il realismo. Coraggio nel senso di unire all’amore verso il prossimo la determinazione a sanare le ingiustizie, a combattere l’esclusione. Realismo nel senso di saper fare i conti con la realtà, con i limiti.
Manfredonia ha mostrato anche alcuni elementi di dissenso nei confronti della relazione di Tonini. Ha tenuto a dire che è necessario combattere il liberismo sfrenato che oggi non solo impoverisce ma esclude. Si è richiamato, in questo senso, alle encicliche di papa Francesco.
La sua proposta per il futuro della democrazia sta nell’impegnarsi a costruire cittadinanza attiva e, soprattutto, a motivare i giovani all’impegno dando loro occasioni di responsabilità e protagonismo.
Dalla società del lavoro alla società della cura
Il dibattito della mattina ha visto gli interventi di Sandro Antoniazzi, di Franco Totaro (filosofo e già aclista), di Paolo Danuvola (già consigliere regionale della Lombardia nel Ppi), di Andrea Rinaldo (aclista), di Lorenzo Basso (senatore ligure del Pd e formatosi nell’Azione cattolica), ai quali hanno brevemente replicato Tonini e Manfredonia.
Antoniazzi, da vecchio sindacalista e studioso del mondo del lavoro, ha sottolineato la “corsa al ribasso” che la globalizzazione comporta per i lavoratori, sia per la distruzione di posti di lavoro sia per la disuguaglianza di redditi che acuisce e per l’impoverimento che determina in alcuni strati sociali. Ha detto che la democrazia va cambiata, così come va cambiato il capitalismo, ma restando all’interno del sistema democratico e cercando di allargare la partecipazione. Per esempio nel mondo del lavoro, delle imprese. Ha parlato di una “democrazia economica”, cioè di un cambiamento del tradizionale rapporto di lavoro che vede i dipendenti essere, appunto, soltanto dei dipendenti senza voce nella vita delle aziende. Ha ricordato come sia in crescita il fenomeno degli abbandoni del lavoro dipendente da parte di chi vuole avere “più vita”.
Antoniazzi ha guardato in avanti prospettando una trasformazione della società del lavoro in “società della cura”, nel senso di una maggior centralità, in ogni realtà lavorativa, delle persone e dei loro bisogni e delle loro attitudini. Così come ha prospettato una “democrazia ambientalista”, basata sulla partecipazione dei cittadini nei territori per modificare stili di vita e di consumo. Soprattutto, ha esortato ad avere ambizioni più forti e maggiore radicamento nei propri valori ideali, per ridare passione all’impegno sociale e politico.
Il filosofo Franco Totaro ha lamentato la distanza sempre maggiore tra gli intellettuali e i militanti di base, le associazioni del territorio, persino i partiti politici. Ha riferito della sua associazione “Persona al centro” e ha osservato che troppo si parla, anche nelle comunità ecclesiali, di bene comune, sorvolando sul fatto che il bene comune si realizza quando i beni vengono messi a disposizione di tutti, e in particolare dei più esclusi. Cioè c’è in molti discorsi troppa ipocrisia.
Ha concordato con lui e con Antoniazzi Paolo Danuvola, che ha rilevato come ci sia ormai poca vera passione politica in giro; e quei pochi che ce l’hanno sono sparpagliati e divisi. “Dobbiamo ritrovare le parole – ha detto Danuvola – per dire gli aspetti valoriali che ci motivano nell’agire politico. Siamo afoni”.
Critico verso le tesi di Giorgio Tonini è stato l’intervento dell’aclista di Como Andrea Rinaldo. ”Perché – si è chiesto – non dobbiamo pensare che il sistema capitalistico non possa aver fine? Perché dobbiamo considerarlo un paradigma irriformabile?”.
Lorenzo Basso, genovese, classe 1976, imprenditore, già consigliere regionale in Liguria, poi deputato dal 2013, oggi senatore e segretario del gruppo Pd in Senato, e dal 2017 responsabile della Scuola di Politiche (SdP) di Letta in Liguria, introduce nella discussione sulla democrazia il tema del cambiamento tecnologico che stiamo vivendo, un cambiamento che definisce davvero epocale, e la cui ultima fase è quella della interconnessione. Questo cambiamento presenta elementi negativi di non poco conto, che bisogna capire come fronteggiare. Cambiamenti che stanno conducendo a una disintermediazione in tutti i campi. Non si pensa più, dice Basso, che sia utile il sindacato o il partito, perché si ritiene di poter aver voce direttamente presso i vertici istituzionali. Non solo, ma si stanno distruggendo i beni relazionali, e dunque si impoverisce quel capitale sociale a cui Tonini si era riferito come risorsa che è urgente rigenerare. Anche per Basso la scommessa, oggi, è saper costruire esperienze di partecipazione specialmente tra i giovani.
Usare gli strumenti della democrazia per modificare le dinamiche dello sviluppo
Nella breve replica, a fine mattina, Giorgio Tonini, sul capitalismo, ha risposto alle osservazioni critiche degli aclisti citando Emilio Gabaglio (sesto presidente nella storia delle Acli): “il capitalismo ha i secoli contati”. Tonini dice non vedere all’orizzonte la fine del capitalismo, ma piuttosto tanti cantieri per una sua riforma. Si dice d’accordo con Antoniazzi sulla democrazia economica, e cioè con l’impegno a democratizzare l’impresa. Sulla globalizzazione ribadisce che ha portato miglioramenti fondamentali di vita a miliardi di persone (la schiena dell’elefante), ma concorda che nel nostro contesto, non solo italiano ma occidentale, ha comportato una “corsa al ribasso”, come detto da Antoniazzi. Di fronte a questi nuovi e pericolosi elementi precarietà e di impoverimento di larghi strati sociali non resta che usare gli strumenti della democrazia per operare dei cambiamenti nelle dinamiche dello sviluppo. Alle critiche e alle preoccupazioni sul ruolo sempre più debole dei partiti e in particolare del Pd, torna a sottolineare la “funzione generativa” che i partiti, il Pd in primis, devono imparare a svolgere. Si tratta di costruire leadership democratiche che sappiano fare sintesi dei contributi di tutti. Leader capaci di fare da catalizzatori. Oggi, ammette, si è creata una sorta di oligarchia, e il circolo virtuoso società-partito si è interrotto.
Cittadinanza attiva: la democrazia che riparte dal basso
Nel pomeriggio, come si diceva, il convegno ha preso un’altra piega, ma ovviamente non del tutto disgiunta. Si è andati a vedere cosa si muove nella società civile, nei luoghi di quel capitale sociale che Tonini ha detto essersi molto impoverito e che i partiti dovrebbero impegnarsi a rigenerare (capitale che forse così povero non è , ma che resta fuori dal terreno della rappresentanza politica).
Daniela Ciaffi, docente di Sociologia urbana al Politecnico di Torino e vicepresidente del Labsus, ha introdotto i lavori pomeridiani con una bella relazione sulla “democrazia contributiva”. Ha esordito segnalando che è da decenni che si segnala che la democrazia rappresentativa è in crisi, e che dunque si deve guardare anche ad altri scenari. Ad esempio alla democrazia deliberativa, quella cioè che cerca di creare momenti e situazioni di ascolto delle opinioni dei cittadini su determinate decisioni politiche, in modo che esse siano largamente discusse e ponderate.
Poi, dice Daniela Ciaffi, ci si è occupati di come certe politiche possano essere non solo deliberate con l’ascolto dei cittadini da parte degli eletti, ma anche “partecipate” dai cittadini stessi. Ma il nodo è che cosa si intende per “partecipazione”. Il termine è abusato. Partecipazione c’è effettivamente quando si fanno dei tavoli in cui siedano anche coloro che non hanno mai voce, e possano averla davvero.
Un altro scenario si è aperto con la “democrazia contributiva”, come la chiamano soprattutto in Francia. Si intende mettere in risalto soprattutto il protagonismo di tutto il mondo associativo del Terzo settore, un mondo che dà straordinari contributi alla qualità della vita sociale. Questi contributi, sostiene Daniela Facci, sono una forma di democrazia. Il punto è capire bene chi contribuisce e facendo che cosa. Democrazia contributiva è quando qualcuno, in base alla sua esperienza, dice “Io vorrei contribuire”. Si parla, soprattutto, di tutto il settore dei servizi. Si tratta di dare spazio a quei cittadini che non vogliono solo consumare ma sentono l’esigenza anche di “prendersi cura” di qualcosa. E’ quella realtà che in Inghilterra da qualche tempo fa parlare di “società della cura” (di cui ha fatto cenno anche Sandro Antoniazzi nel suo intervento).
In Italia il terreno della democrazia contributiva è stato arato soprattutto da Gregorio Arena, fondatore del Labsus, il Laboratorio della sussidiarietà sociale, di cui Ciaffi è ora la vicepresidente. Arena, docente allora di Diritto amministrativo all’Università di Trento, fin dal 1997 coltivava l’idea di andare verso una “amministrazione condivisa”. La sua utopia concreta era che l’amministrazione la si potesse condividere: cittadini che lo vogliano e dirigenti, funzionari, politici seduti allo stesso tavolo con pari dignità.
Nel 2001 il Parlamento approva una riforma del Titolo V della Costituzione. Una delle modifiche riguarda l’art. 118, che viene riscritto, così che, al terzo comma, si afferma che Stato, Regioni, Province e Comuni “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. Ora, dunque, l’interesse generale non è più questione solo della Pubblica amministrazione. Si è aperta la porta al cammino dell’amministrazione condivisa, realizzata attraverso i “Patti di collaborazione”, cioè accordi tra cittadini e amministrazioni locali per la gestione condivisa di beni comuni sia materiali che immateriali. Tali patti sono regolati da un Regolamento sull’amministrazione condivisa che, via via, un numero sempre maggiore di Comuni italiani ha approvato. Dice Daniela Ciaffi che il Patto di collaborazione è un istituto che ci invidiano in tutto il mondo.
Sui patti Daniela Ciaffi ha fornito alcuni dati: il 40% sono stati stipulati da associazioni, il 20% da singoli cittadini. Poi ci sono gruppi informali, scuole e altri soggetti. Il 48% dei patti riguarda l’ambiente, il 18,8% l’arredo urbano, il 7,3 i beni culturali, il 7,2 le attività educative nelle scuole, il 7% l’inclusione sociale (dice Ciaffi: “Avrei voluto che sull’inclusione sociale fossimo al 70%).
Questa, dunque, la via aperta dall’impegno di Gregorio Arena e di quanti hanno creduto alla sua utopia concreta. Una via che può concretizzarsi in una grandissima molteplicità di direzioni. Qualcuna è stata ricordata dalla stessa Ciaffi, come un’esperienza di donne braccianti pugliesi per poter accudire ai propri figli durante il lavoro. Un’altra è stata raccontata da Raffaele Giovine, consigliere comunale di Caserta, relativamente alla gestione di un parco del capoluogo campano, da anni abbandonato e chiuso. Giovine ha spiegato come queste esperienze di partecipazione nell’amministrazione di beni pubblici siano un apprendistato per i cittadini e talvolta li spingano a candidarsi poi alle elezioni amministrative locali, a tornare a credere nella politica.
Altre esperienze sono state portate al convegno dal Gruppo Davide di Parma, da Carla Mantelli per il Laboratorio per studenti organizzato dall’associazione Il Borgo, anch’essa di Parma. Sono iniziative di cui daremo materiali informativi nei prossimi giorni. Un convegno dunque che ha spaziato dalla geopolitica alle marmellate di quartiere (a Cosenza), ma che non ha perso la direzione di marcia per cui era stato pensato: dirci l’importanza di difendere la nostra democrazia, la nostra Carta costituzionale, a tutti i livelli, rafforzando e rigenerando, con l’impegno di ciascuno, la democrazia rappresentativa (e dunque i partiti e le leggi che regolano la scelta dei rappresentanti) e anche quelle forme di democrazia – deliberativa, contributiva – che nascono dal basso e che hanno bisogno di politici e amministratori locali che capiscano l’enorme potenziale democratico che può attivarsi nelle persone, nei cittadini, se si sanno costruire spazi e pratiche di partecipazione di cui possano essere protagonisti.
Giampiero Forcesi