Nel corso della “tre giorni” che l’associazione Agire Politicamente ha tenuto ad Assisi nella seconda metà di giugno è stato discusso un documento sulla Sanità redatto da un gruppo di lavoro coordinato da Massimo De Simone e Domenico Rogante. Il documento è aperto al parere ed all’eventuale apporto di tutti. In seguito, sarà rielaborato e presentato in diverse sedi
Nel corso della drammatica emergenza sanitaria conseguente alla diffusione del Covid-19, anche nel nostro Paese sono emerse questioni riguardanti in particolare il futuro del nostro sistema sanitario su cui si è già aperto un articolato dibattito.
C’è innanzitutto la questione della vulnerabilità di una organizzazione concepita per far fronte alla domanda della salute che era tipica del secolo scorso, e che ha subito forti tagli lineari specialmente negli ultimi dieci anni fino a raggiungere un definanziamento complessivo di circa 37 miliardi. Ne ha sofferto il numero di posti letto negli ospedali (ne abbiamo la metà di quelli su cui possono contare i tedeschi) e, in modo particolare, quelli per terapia intensiva. Ed abbiamo pochissimi infermieri ed altri operatori sanitari; anche se il numero dei medici non è inferiore rispetto alle medie comunitarie, dei quali però si prevede una grave carenza nei prossimi anni, frutto di una errata programmazione nell’ambito del sistema del numero chiuso che respinge sei studenti su sette.
Le altre questioni, sulle quali nel prossimo futuro dovranno farsi più attente analisi e proposte di eventuali necessari cambiamenti per superare le criticità emerse durante questa emergenza pandemica, riguardano l’assetto istituzionale, l’organizzazione integrata tra servizi ospedalieri e medicina territoriale ed il rapporto tra pubblico e privato.
È bene ricordare che il Servizio sanitario nazionale nacque nel 1978 per superare il sistema mutualistico. Aveva tra gli obiettivi principali quelli l’equità (uguali prestazioni per tutti), la partecipazione democratica (gestione affidata ai comuni e partecipazione dei cittadini nelle Unioni sanitarie locali), la globalità degli interventi (prevenzione, cura, riabilitazione), la territorialità dei servizi (prossimità al luogo di manifestazione del bisogno), l’organizzazione del distretto sanitario (erogazione dei servizi di primo livello e di primo intervento), la centralità della prevenzione.
Negli anni successivi, si è andati sempre di più verso un’aziendalizzazione della sanità per rispondere alle pressanti esigenze finanziarie, con l’introduzione di una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria doveva essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non più unicamente all’ entità dei bisogni. Concezione ulteriormente fortificata dalla privatizzazione di alcuni servizi e quindi dalla competizione tra pubblico e privato.
Successivamente, con la regionalizzazione del sistema, la tutela della salute è divenuta materia di legislazione concorrente Stato-Regioni: lo Stato determina i Livelli essenziali di assistenza (LEA); le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi sanitari e nel finanziamento delle Aziende Sanitarie. Questa organizzazione ha creato differenze sostanziali nei servizi offerti da ciascuna Regione, in particolare sui ticket per le prestazioni, sui prontuari farmaceutici, sul costo dei materiali.
Si ridefiniva inoltre il distretto ampliandone la matrice organizzativa tecnico-gestionale, ma se ne esaltava la versione burocratico-amministrativa del sistema, a discapito di quella di assistenza territoriale diretta, per la quale si affidava alla Regione la scelta tra soggetti pubblici o anche privati. Successivamente i piani sanitari nazionali 94/96 e 98/2000 hanno indicato la necessità dell’integrazione tra attività distrettuali, assistenza di base dei medici di medicina generale e assistenza domiciliare.
Con il decreto Balduzzi (2012) si tentò di dare concretezza al ruolo del territorio e della medicina generale, stabilendo modelli aggregativi dei medici di medicina generale e pediatri di libera scelta monoprofessionali (AFT) e multiprofessionali (UCCP), per garantire la continuità assistenziale, dall’ospedale verso i territori, con il distretto competente a garantirla. Si determinava la necessità del ruolo unico delle figure professionali mediche della medicina territoriale, con la previsione di utilizzo, negli studi dei medici di famiglia, di tecnologia di primo livello e strumenti di telemedicina.
Dai cenni indicati si può desumere che non mancasse la consapevolezza della rilevanza dell’integrazione complessiva dall’ospedale al territorio o, meglio, viceversa, ma i fatti sembrano contraddirla. Infatti, la riconversione degli ospedali e la rapida definizione degli standard dell’assistenza territoriale permettevano di superare il mito del posto-letto a favore della valorizzazione di una rete di servizi territoriali ed ospedalieri considerati in modo unitario.
Oggi si può affermare che la disfunzione più grave del sistema sanitario è imputabile al fatto che i principi della riforma del ‘78 sono stati abbandonati o non attuati, senza che sia dimostrata la loro obsolescenza. Il sistema sanitario pubblico non sembra, almeno esplicitamente, messo in discussione, per quanto oggi stia diventando sempre più una consuetudine appaltare alcuni servizi ai privati. Questo, a nostro avviso, rischia di minare quelle che sono le fondamenta del nostro Sistema sanitario nazionale, che prevede il ricorso al privato solo come integrazione dei servizi, sulla base delle esigenze dovute alla programmazione, senza che debba mai sostituire completamente il servizio pubblico, anche perché vorrebbe dire un aggravio delle spese a carico dei cittadini.
L’aspetto che viene messo maggiormente in discussione è la capacità sul lungo periodo, da parte di questo sistema, di mantenere, se non di migliorare, il livello dell’assistenza, soprattutto con un trend di invecchiamento della popolazione sempre crescente che rischia di superare la soglia di sostenibilità.
Ciò che sicuramente si è dimostrato indispensabile è l’attuazione di una continuità assistenziale dall’ospedale al territorio, per la quale necessita l’integrale implementazione della Riforma Balduzzi, ruolo unico dei medici di base compreso. A tal proposito è da notare che non a caso la relativa previsione, che risale al 2012, non ha avuto concretizzazione. Forse non si tratta solo di resistenze corporativistiche, forse c’è da riflettere su quale possa essere il ruolo e la natura stessa del medico di base, per l’oggi e per il futuro. È un bene prezioso il rapporto di fiducia tra il medico, la persona e la famiglia; il medico di base deve essere una figura di primo piano nella medicina del futuro. Occorre assicurare il permanere di quel rapporto anche se inserito nel ruolo unico, che ne realizzi una identità nuova ed esaltante in una struttura di prossimità. Occorre poi una riflessione sul ruolo complessivo che il distretto può giocare se mantenuto in dimensioni tali da conservare la prossimità al territorio.
Il rapporto Stato – Regioni dopo la pandemia
L’emergenza Covid-19 ha messo in luce la vulnerabilità dell’organizzazione/articolazione istituzionale del sistema, acutizzando le ben note criticità esistenti nel rapporto tra Stato- Regioni. In questi mesi molte regioni hanno dato cattiva prova di sé nella gestione amministrativa della pandemia. Il continuo rivendicare la propria autonomia, più per esigenze politiche che per altro, non ha fatto altro che creare ulteriore confusione e disservizi, in una situazione che invece richiedeva necessariamente interventi centralizzati da parte dello Stato. La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 37, ha dovuto chiarire che: “a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, ragioni logiche, prima che giuridiche radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività.”
Per queste ragioni, l’esperienza di questi mesi deve servire per tentare un nuovo approccio al tema del rapporto tra lo Stato e le Regioni e le autonomie differenziate, inquadrandolo in una riflessione più ampia del ruolo dell’amministrazione centrale e dell’indirizzo politico di ciascuna regione, rafforzando gli strumenti di coordinamento e collaborazione tra il governo e le autonomie, con la consapevolezza che lo Stato deve esercitare funzioni di indirizzo e coordinamento delle attività amministrative regionali in materia sanitaria e che può anche esercitare il potere sostitutivo in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Sarà importante avviare questa riflessione anche alla luce del processo in corso sul federalismo fiscale, cui fa riferimento il PNRR, che deve comportare la ridefinizione dei criteri di ripartizione delle entrate e delle spese, per evitare di aggravare in maniera definitiva il divario tra il Nord ed il Sud del Paese.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: un’occasione da non perdere
Tra le novità più importanti emerse in questo ultimo anno così difficile, rappresenta sicuramente una fonte di speranza per il futuro l’iniziativa denominata Next Generation Eu (NGEU) con cui l’Unione europea assegnerà agli Stati membri fondi finalizzati a favorire la ripresa economica e sociale dopo la pandemia, ricorrendo alla combinazione di due linee di sostegno: il Recovery and Resilience Facility (Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza) e il REACT-EU (Assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa), all’insegna della transizione ecologica, della digitalizzazione, della competitività, della formazione e dell’inclusione sociale, territoriale e di genere.
Entro il 30 Aprile 2021 ogni stato membro ha presentato il proprio Piano di Nazionale di Ripresa e Resilienza, cominciando così un’interlocuzione formale con le autorità europee che porterà all’approvazione dei piani per sbloccare la prima parte delle risorse e finalmente dare l’avvio alla realizzazione.
La parte del piano presentato dall’Italia, riguardante i fondi per la Sanità. è rappresentata dalla Missione 6 Salute, per un finanziamento complessivo di 15,63 miliardi di euro. A questi si aggiungono le risorse del REACT-EU e del Fondo Nazionale Complementare per ulteriori 4,6 miliardi, per un totale di 20,22 miliardi da spendere nel periodo 2021-2026.
Ulteriori finanziamenti provenienti dal bilancio statale integrano la Missione Salute del PNRR con altri 3,72 miliardi nel quinquennio.
I finanziamenti si articolano in due componenti: circa 9 miliardi per il potenziamento delle reti di prossimità, delle strutture e della telemedicina per l’assistenza territoriale, e circa 11 miliardi per l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del Servizio sanitario nazionale.
La sfida del Recovery Plan rappresenta una nota positiva che contribuisce ad invertire la rotta che ormai da decenni si era intrapresa, ovvero quella di considerare la sanità il “comparto da sacrificare” per far quadrare i conti dello Stato. Importanti segnali di cambiamento in questo senso sono desumibili dal fatto che per la prima volta i finanziamenti complessivi per la sanità territoriale superano quelli per la sanità ospedaliera, un orientamento che ci sentiamo di condividere largamente dopo anni di depauperamento delle risorse sanitarie territoriali. Inoltre, la componente ospedaliera della Missione Salute del PNRR è beneficiaria di 1,67 miliardi destinati alla digitalizzazione del Servizio sanitario (FSE e sistema informativo del Ministero della Salute) che coinvolge orizzontalmente non solo gli ospedali ma tutta l’organizzazione sanitaria.
L’entusiasmo che ci coglie nel prendere atto di questo cambiamento epocale alla quale il nostro paese si prepara, non ci impedisce di rilevare alcune criticità che emergono dalla lettura della Piano realizzato dal governo. Un aspetto che balza subito agli occhi è l’assenza di finanziamenti diretti per la riorganizzazione e il potenziamento del settore della prevenzione, alla quale sono destinati solo piccoli finanziamenti statali. Riteniamo che ogni tipo di riorganizzazione e miglioramento del Servizio Sanitario non possa prescindere dal potenziamento dei dipartimenti di prevenzione per far fronte a rischi attuali e future pandemia. Per questo, auspichiamo che si possa porre rimedio a questa grave carenza, tenuto conto che anche a livello internazionale, sono attesi provvedimenti di riorganizzazione della rete dei servizi di prevenzione proprio per contrastare i rischi di pandemie globali.
Un altro aspetto sulla quale ci sembra opportuno richiamare l’attenzione è che il PNRR attualmente provvede solo in piccola parte a finanziare le spese gestionali relative al personale, ma sembra ovvio che per far funzionare i nuovi servizi occorrerà assumere il personale e finanziare i suoi costi insieme a tutti gli altri necessari per avviare le nuove attività.
In generale, le maggiori perplessità derivano dal fatto che quando finiranno le risorse del Recovery Plan, il piano di potenziamento dell’assistenza territoriale sarà a regime e dovrà essere sostenuto dai finanziamenti nazionali. Il personale aggiuntivo delle Case della Comunità, dell’ADI e degli Ospedali di Comunità costerà circa 2 miliardi l’anno e ad oggi sarebbero coperti solo con circa 745 milioni (art. 1 del D.L 34/2020), mentre la restante parte della spesa, secondo il governo, dovrebbe essere coperta dall’attuazione di un Piano di sostenibilità.
L’auspicio è che si possa provvedere con largo anticipo a reperire tutti i finanziamenti necessari per garantire la prosecuzione dei servizi già attivati, assumere il personale e avviare i servizi che partiranno dal 2027, per evitare di vanificare le speranze che stanno nascendo intorno a questo importante progetto.
Al netto delle criticità alla quale abbiamo fatto riferimento, è importante sottolineare che questi fondi costituiscono un’importante opportunità di crescita e di innovazione del sistema. Ci auguriamo che si crei un proficuo dialogo tra le istituzioni, gli enti che saranno chiamati ad attuare questo piano, i cittadini, le associazioni e le categorie interessate, affinché si possa arrivare a realizzare un Servizio sanitario che sia sempre più vicino ai bisogni della gente ed in particolari ai più fragili.
La nostra Associazione, con questo modesto contributo, intende porre l’attenzione su alcune questioni che riteniamo essere prioritarie e dalla quale bisognerà partire se si vuole immaginare una sanità che sia più a misura del paziente.
Verso un nuovo sistema sanitario nazionale
La Sanità territoriale: il nuovo centro del SSN
Come abbiamo già anticipato, la maggior parte dei fondi presenti nella Missione 6 del PNRR sono destinati al potenziamento della Sanità del territorio, che nel periodo pandemico ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. La mancanza di una reale alternativa di cura territoriale in questi anni non ha fatto altro che peggiorare l’offerta dei servizi per i pazienti, con il problema delle liste d’attesa che rappresenta ormai una “piaga sociale” non più tollerabile. Una delle conseguenze di queste carenze è stata quella di rendere provvedimenti come il D.M 70 inadatti e molto spesso dannosi per i territori, in quanto percepiti come un‘imposizione dall’alto di un numero minimo di posti letto che non teneva conto della reale domanda che veniva dai cittadini. L’esperienza di questi mesi ha ribadito che quando si parla della salute dei cittadini non possono essere applicati i canoni ferrei dell’economia industriale ove esiste un prodotto finale. Nella sanità vengono prodotti servizi non valutabili nel breve periodo, in quanto il prodotto finale di valutazione è l’outcome di salute della popolazione che ha un tempo di analisi ampio e quindi esula da tutti i canoni economici di valutazione. Perciò, prima di introdurre dei parametri di riferimento per l’allocazione delle strutture, è necessario introdurre un’analisi dei flussi e una verifica dei processi della domanda di assistenza.
“Delineare quella prossimità al mondo degli anziani, che sino ad oggi è stato scartato dall’attenzione pubblica” (Papa Francesco, Fratelli Tutti)
In un paese, che secondo le recenti previsioni si avvia ad essere sempre più “anziano”, deve rappresentare una priorità la gestione delle cronicità, per ridurre gli esiti legati a queste malattie, ma soprattutto la prevenzione. Per questo, gli investimenti presenti nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza vanno nella direzione di creare un’assistenza territoriale per la presa in carico del cittadino che abbia un approccio sempre più sociosanitario.
Per far fronte ai problemi legati all’invecchiamento della popolazione italiana non sarà sufficiente aumentare i posti letto negli ospedali ma la sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale sarà legata alla capacità di adeguare l’offerta sanitaria ai reali bisogni degli anziani che necessitano sempre più di autonomia e integrazione. È importante non solo assicurare agli anziani non autosufficienti un’assistenza finalizzata a migliorare la condizione di non autonomia dei pazienti fuori e dentro casa, ma soprattutto creare opportunità di maggiore integrazione attraverso un ambiente esterno che deve favorire la partecipazione e l’inclusione sociale.
Secondo le recenti stime, solo il 50% degli anziani oggi viene preso in carico dai servizi di assistenza esistenti, con una percentuale abbastanza alta che ricorre invece alla figura del badante, molto spesso in una condizione di irregolarità. Il resto degli anziani che non vede soddisfatta la propria domanda di assistenza, in questo particolare momento di pandemia, si rifugia nella famiglia. Infatti, il numero degli adulti coinvolti nell’attività del caregiving, in particolare nell’ultimo anno, è aumentato considerevolmente. Parliamo di persone che rinunciano a lavori a tempo pieno e alla loro vita sociale, per accudire gratuitamente i propri cari. È necessario quindi valorizzare la figura del caregiver, investendo nel loro tempo e nella loro formazione e sostenendoli non solo da un punto di vista economico ma anche sociale.
A questo va affiancato una riqualificazione degli ambienti di vita per gli anziani ancora in buona salute attraverso servizi finalizzati alla tutela di uno stile di vita salutare che soddisfino il bisogno di attenzione e intimità che caratterizza la “terza età”.
Le RSA: una possibilità di cura all’interno di una rete di servizi più ampia
Il discorso sulle RSA merita un capitolo a parte, in quanto, come abbiamo potuto constatare in questi mesi, la gestione della pandemia ha riportato alla luce vecchi e nuovi problemi, con la conseguenza di aver portato queste strutture ad essere protagoniste della cronaca quotidiana per i focolai multipli che sono scoppiati al loro interno. Le RSA, nel pieno della prima ondata, si sono ritrovate da sole ad affrontare i problemi legati all’infezione da Covid-19, con il SSN che nell’immediato non ha saputo dare il giusto supporto a queste realtà, sia nella fornitura di DPI ma anche nella gestione degli spazi per gli isolamenti e della regolamentazione delle visite esterne. Questa situazione emergenziale ha reso ancora più critica la già difficile situazione economica all’interno delle RSA: la riduzione della saturazione dei posti letto, il contingentamento degli ingressi, i posti letto per la quarantena, l’acquisto continuo dei DPI, la sostituzione degli operatori che si ammalano o finiscono in quarantena, ha messo a dura prova i bilanci, soprattutto di quelle strutture più piccole, vicino alle comunità e gestite dal no-profit.
Tuttavia, l’analisi su queste strutture non può essere circoscritta alla gestione della pandemia, in quanto le avvisaglie di carenze strutturali c’erano già da diversi anni. Il problema italiano è che gli anziani sono ricoverati nelle RSA ormai quasi a fine vita e in condizioni di fragilità estrema, ma i finanziamenti pubblici non sono sufficienti a garantire l’assistenza sanitaria necessaria. Il DPCM del 22/12/1989 definiva le caratteristiche strutturali, organizzative e gestionali delle RSA. Prevedeva la suddivisone degli spazi con nuclei di 20 posti (per un massimo di 60 ospiti) e i diversi servizi comuni. Sostanzialmente si trattava di una tipologia strutturale che metteva insieme l’impostazione del reparto ospedaliero con aspetti che ricordavano la casa (salotto, sala da pranzo ecc.). Negli anni questa impostazione è stata un po’ stravolta: si sono realizzate strutture più grandi, motivate da esigenze economico e gestionali di ottimizzare i costi sempre più crescenti. Tutto questo si è accentuato anche a seguito dell’ingresso nel settore di fondi d’investimento e soggetti multinazionali di assistenza che, a differenza del no-profit, si aspettano un ritorno remunerativo dell’investimento effettuato e quindi ampliano la capienza delle strutture.
A questa organizzazione già di per sé precaria, si è aggiunta l’esigenza di dover far fronte alla presenza di ospiti con demenza che ha portato ad interventi di compartimentazione e chiusura che hanno dato a queste strutture un’organizzazione sempre più “sanitaria”, con un prevedibile peggioramento delle condizioni di vita all’interno e con pesanti ripercussioni sull’umore dei pazienti.
Tutto ciò è stato accentuato dalla pandemia in corso, in quanto la soluzione “sanitaria” necessaria è stata quella di impedire ogni accesso per evitare l’ingresso dell’infezione. Ma se si riflette, anche in precedenza queste strutture risultavano essere isolate rispetto al mondo esterno, con le famiglie spesso poco coinvolte nel percorso di cura.
In realtà, le famiglie sono attori del processo di cura e interlocutori fondamentali nella relazione con il paziente e questo richiede una riflessione che valorizzi il loro ruolo di alleati nel perseguire il benessere dell’anziano.
Alla luce di queste valutazioni, riteniamo fondamentale che si offrano una serie di servizi utili per dare risposte graduate secondo l’evolversi del bisogno di assistenza che l’invecchiamento può determinare.
In questo modo, le RSA diventerebbero una delle possibilità di cura, dedicate prevalentemente alle situazioni più gravi, dentro una rete di servizi più ampia, che veda come primo luogo di cura la casa, attraverso un’efficiente assistenza domiciliare.
La tipologia di anziani che le RSA continueranno ad assistere sarà quella di anziani gravemente compromessi, pluripatologici e con disturbi cognitivi complessi, per i quali le cure sanitarie saranno indispensabili, ma non si potrà prescindere dalla necessità di questi pazienti di mantenere una vita di relazione, per quanto possa essere limitata dalle patologie acquisite.
Occorrerà inoltre che le RSA siano in rete con tutti i servizi territoriali: mmg, assistenza domiciliare, altre strutture residenziali leggere, ospedali, ambulatori specialistici, servizi sociali, associazioni di volontariato ecc., diventando a loro volta un centro di servizi per la comunità circostante.
Accanto alle RSA, sarà necessario potenziare anche la rete degli Hospice, centri destinati prevalentemente agli ammalati terminali, essenzialmente oncologici, che dovrebbero essere maggiormente diffusi nel territorio lì dove sono operanti le strutture ospedaliere, come rimedio all’accanimento terapeutico, per assicurare la migliore qualità di vita possibile attraverso la terapia antidolore.
La pandemia ha confermato quello che era noto già prima, ovvero che le strutture con più personale di assistenza hanno retto meglio all’impatto del COVID-19. Un adeguato rapporto tra personale di assistenza e ospiti delle strutture residenziali permette di garantire un’assistenza migliore. Per questo, occorre investire su una formazione più puntuale degli/delle ASA/OSS, operatori fondamentali dell’assistenza nelle RSA, che sia non solo focalizzata sulle tecniche assistenziali, ma completata con competenze relazionali fondamentali per l’assistenza agli anziani. La formazione è strettamente legata anche al riconoscimento professionale ed economico di tutti gli operatori che lavorano nel settore sociosanitario. Per questo, sarà necessario aprire una seria riflessione sulla proposta di equiparazione dei contratti per gli infermieri delle RSA a quelli della sanità ospedaliera, al fine di frenare la fuga di personale sanitario dalle strutture residenziali.
Le Case di Comunità: un nuovo modo di promuovere la salute
Per potenziare l’integrazione complessiva dei servizi assistenziali socio-sanitari per la promozione della salute e la presa in carico globale della comunità e di tutte le persone, siano esse sane o in presenza di patologie (una o più patologie) e/o cronicità, il PNRR prevede l’attivazione entro la metà del 2026 di 1,288 Case di Comunità: strutture fisicamente identificabili (nuove o già esistenti) che si qualificano quale punto di riferimento di prossimità e punto di accoglienza e orientamento ai servizi di assistenza primaria di natura sanitaria, sociosanitaria e sociale per i cittadini, garantendo interventi interdisciplinari attraverso la contiguità spaziale dei servizi e l’integrazione delle comunità di professionisti che operano secondo programmi e percorsi integrati, tra servizi sanitari (territorio-ospedale) e servizi sociali.
Nella Casa di Comunità tutte le persone saranno accolte, ascoltate, riconosciute nella loro dignità e unicità e messe in condizione di poter trovare una risposta consapevole nella rete comunitaria.
L’obiettivo è quello di garantire parità di trattamento di cure e di accesso alle strutture, oltre che costruire percorsi personalizzati per la salute impegnando per questo tutte le risorse: sanitarie, sociali, culturali, economiche e relazionali.
Questa proposta viene messa in campo anche per superare la cultura ospedalocentrica che caratterizza da anni la nostra società e che la pandemia ha dimostrato essere inadeguata per le esigenze della persona. In ospedale bisognerà andarci solo per una malattia grave o un intervento chirurgico. Per ricoveri brevi, e per pazienti a bassa intensità di cura che non hanno la possibilità di ricevere prestazioni al proprio domicilio, il PNRR prevede 1 miliardo di euro per l’istituzione di 381 Ospedali di Comunità entro la metà del 2026, una struttura da 20 a 40 posti letto che avrà anche il compito di facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per adeguare l’ambiente domestico e renderlo più adatto alle esigenze di cura dei pazienti. La responsabilità igienico-organizzativa e gestionale complessiva dell’Ospedale di Comunità sarà del direttore del Distretto o un suo delegato, che svolgerà anche una funzione di collegamento con i responsabili sanitari, clinici ed assistenziali, e con Ia direzione aziendale. La responsabilità clinica sarà invece di un medico di medicina generale, dipendente o convenzionato, che operi all’interno di una struttura pubblica o privata accreditata con il Servizio sanitario nazionale. La responsabilità organizzativa e assistenziale sarà in capo agli infermieri, con un coordinatore di riferimento.
Tornando alle Case di Comunità, al loro interno avranno:
- gli ambulatori dei medici di famiglia, ambulatori specialistici e servizi di diagnostica strumentale;
- i servizi infermieristici con le attività di assistenza domiciliare;
- i servizi sociali;
- spazi per attività di promozione e prevenzione;
- servizi consultoriali, di partecipazione sociale, ambiti di sostegno alle fragilità, sedi del volontariato, con particolare attenzione alla tutela del bambino, della donna e dei nuclei familiari.
La proposta delle Case di Comunità ha destato non poche perplessità, in quanto ha riportato alla mente l’esperienza, in molte regioni deludente, delle Case della Salute, nate per diventare il nuovo polo di riferimento per il cittadino, davvero alternativo all’ospedale, ma che non hanno saputo rispondere ai bisogni emergenti del territorio. Tra le criticità che hanno maggiormente causato il fallimento di questo progetto troviamo gli orari di apertura limitati, con servizi minimi nei giorni prefestivi e completamente assenti nei giorni festivi, estrema variabilità tra le diverse regioni per quanto riguarda la tipologia di servizi offerti, carenza di personale, scarsa integrazione multiprofessionale e difficoltà di accesso alle strutture a causa di un’inadeguata distribuzione territoriale
Anche per queste ragioni, per evitare che l’attuale proposta si trasformi in un ulteriore flop, le Case di Comunità non dovranno essere istituite in base al numero di abitanti, ma dovranno tener conto della densità di popolazione e delle potenzialità d’accesso alla struttura, prevedendo magari una sede unica nei territori con densità abitativa alta e degli ambulatori periferici e locali (utilizzando anche gli studi dei medici di medicina generale) per i territori a più bassa densità o dove le difficoltà di spostamento rischierebbero di allontanare ulteriormente il medico di base dalle case dei pazienti, soprattutto dei più fragili.
Gli operatori sanitari in questo modo non presterebbero servizio in una sede unica, ma lavorerebbero a rotazione periodica, muovendosi all’interno di tutto il territorio, coadiuvando il medico di medicina generale, che è stanziale, presso il suo studio o al domicilio dei pazienti.
E’ evidente che sarà necessario dotare queste strutture con strumentazione di primo livello: Spirometri, ecografi, POCT (tutti quei test eseguibili vicino al paziente o nel luogo nel quale viene fornita l’assistenza sanitaria, per diagnosi di laboratorio). Non dovranno mancare nemmeno gli strumenti di telemedicina, mezzi di supporto utili da affiancare all’indispensabile rapporto vis à vis tra il medico e il suo paziente.
Il PNRR prevede inoltre l’attivazione di 602 Centrali operative territoriali (Cot), una in ogni distretto, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza – urgenza.
In funzione di questo, è importante che si realizzi l’equipe di medici per l’Assistenza Domiciliare Integrata, formata oltre che dal medico di base, da specialisti convenzionati (Es. Geriatra per gli anziani, o Internista per tutti gli altri), infermieri professionali, Fisiatra, Assistente sociale, e tutte figure che potranno poi alla bisogna attivare i vari servizi necessari (Terapisti della Riabilitazione, OOSS, Chirurghi vascolari o Plastici per la cura dei decubiti etc.)
È bene sottolineare che i singoli provvedimenti e le innovazioni che verranno introdotte, potrebbero risultare insufficienti se non si garantirà la giusta integrazione fra tutti i servizi del territorio, attraverso una rete in cui distretto, Case di Comunità e ospedali siano sempre in contatto e collaborino in armonia per assicurare la massima assistenza al paziente.
Quello che ci viene chiesto è un vero e proprio salto culturale che coinvolga non solo i cittadini, che sono i destinatari di questi servizi, ma anche i medici e gli operatori sanitari stessi e che ci permetta di guardare al futuro con maggiori speranze. Non si può ragionare in termini di aggregazione con la mentalità individualistica del medico che lavora da solo all’interno di una struttura, in questo modo non faremmo altro che riproporre uno schema del passato che si è dimostrato non adatto alle nuove esigenze. Bisogna assolutamente evitare che medici che si ritrovano nello stesso luogo, continuino a ragionare, a vivere e ad organizzare la propria professione come se fossero da soli.
Il dibattito intorno alle Case di Comunità ha riacceso la diatriba se sia meglio lasciare il rapporto a convenzione o portare i medici di famiglia a dipendenza. Consapevoli della delicatezza dell’argomento, in attesa che il governo sciolga i dubbi in merito alla governance di queste nuove strutture, auspichiamo che il confronto tra le istituzioni e i rappresentanti di categoria porti ad una posizione condivisa e ad un modello organizzativo a gestione pubblica, che abbia come unico scopo quello di migliorare la qualità dei servizi e l’assistenza dei pazienti. Riteniamo che sia necessario scongiurare ad ogni costo il rischio di interrompere il rapporto di fiducia tra medico e paziente che deve essere però rivisto in chiave dinamica e non dato per acquisito una volta per tutte. L’alleanza terapeutica tra medico e paziente, che rappresenta il primo atto che muove le risorse della persona verso la guarigione, va consolidata e alimentata giorno dopo giorno, ma non deve mai rappresentare un limite per la riorganizzazione ed il rinnovamento del servizio sanitario, soprattutto per quanto riguarda l’inquadramento degli operatori sanitari all’interno del nuovo sistema.
La digitalizzazione per essere sempre più vicini alle nuove esigenze dei pazienti
Prima di parlare di innovazione tecnologica ci teniamo a fare una premessa da cui non si può prescindere nell’affrontare il tema della digitalizzazione: investire nel digitale è una scelta che deve andare di pari passo con gli investimenti nella cultura, nell’istruzione e nella formazione delle competenze. Una nazione lungimirante che volge il proprio sguardo al futuro deve prima di tutto investire nella formazione dei propri cittadini. Investire sulla persona significa investire indirettamente sulla crescita economica di un paese, in una forma più stabile e duratura nel tempo. L’obiettivo che ci si deve porre, ancor prima di parlare di investimenti in settori specifici, deve essere la creazione di una “cittadinanza digitale” che sia funzionale non solo ad una crescita di carattere economico ma soprattutto culturale. La rivoluzione digitale che abbiamo in mente inoltre, non può prescindere da un tempestivo adeguamento infrastrutturale, perché come è noto, in molte zone di Italia la velocità di connessione a internet è ad un livello troppo scarso per poter pensare a qualsiasi tipo di nuove possibilità, questo perché la tanto attesa Fibra è mancante ancora in molte zone. Inoltre, la dotazione informatica e tecnologica nelle aziende sanitarie risulta essere tutt’oggi ancora obsoleta.
Prima di passare ad interventi specifici, è bene quindi riflettere su come sia cambiata la dimensione del paziente. Oggi siamo di fronte ad un paziente che pretende di risolvere i suoi problemi ed i suoi dubbi con un click e che, non tollerando più le farraginose procedure del servizio sanitario, si affida sempre più frequentemente all’immediatezza di internet, rimanendo spesso vittima delle cattive informazioni e delle “bufale” che impazzano sul web.
Per queste ragioni, la sfida della digitalizzazione assume un valore cruciale. Ribadiamo l’importanza di promuovere la diffusione del Fascicolo Sanitario Elettronico (alcune regioni sono già avanti) per permettere al paziente di avere sempre a disposizione la propria cartella clinica completa online, con la possibilità quindi di abilitare, in base alle esigenze, il proprio medico, gli operatori sanitari e gli specialisti alla consultazione dei contenuti del fascicolo. Questo non solo eliminerebbe le difficoltà della trasmissione cartacea dei referti medici ma soprattutto aprirebbe la strada alle televisite e alle teleconsultazioni, attraverso piattaforme apposite che prevedano l’interazione tra paziente e medico/specialista e addirittura che possa permettere l’interazione di più medici per la definizione di una diagnosi e la scelta di una terapia. Un sistema sanitario organizzato in questa maniera aumenterebbe in maniera considerevole la qualità dei servizi nell’assistenza medica e dei servizi di prevenzione, con screening di massa per la prevenzione delle patologie più gravi con chiamate e controlli automatici coordinati attraverso un Registro degli utenti. Questo tipo di organizzazione contribuirebbe a risolvere il problema delle liste d’attesa e rappresenterebbe anche un’occasione di risparmio dal punto di vista economico. Per fare ciò, chiaramente è necessario integrare i corsi universitari affinché si possano formare professionisti non solo preparati ma anche molto più digitali.
Carenza di medici: investire nella formazione prima che sia troppo tardi
Nonostante la Pandemia abbia messo in luce la carenza di medici a breve e a lungo termine che rischia di far collassare il nostro sistema sanitario, al momento non ci sono tracce di riforme importanti che ci facciano pensare a dei cambiamenti sostanziali su questo tema.
Secondo alcune stime, nel 2025 mancheranno più di 16 mila medici specialisti. È il risultato di una assurda dinamica per la quale negli anni si è continuato a non assegnare un numero di borse di specializzazione proporzionate al fabbisogno del Paese, problema questo ulteriormente appesantito da provvedimenti come “Quota 100”, con cui nel solo triennio 2019/2021 potranno andare anticipatamente in pensione tra i 17 e i 18 mila medici specialisti.
Solo quest’anno sono rimasti fuori dal test di specializzazione 12.000 medici, di cui circa 1500 come ogni anno emigrano in altri paesi, per una spesa a carico dei cittadini italiani di 225 milioni. Tutti gli altri vanno ad ingrossare il già abbondante numero di medici fermi nella terra di mezzo, al centro di un limbo, sospesi tra laurea e specializzazione. Una condizione in cui i medici neolaureati possono scegliere se lavorare sottopagati nelle Guardie Mediche, oppure lavorare in Ospedali che, per via della carenza di personale, sono costretti ad assumere medici non specializzati con contratti atipici che non ne tutelano affatto i diritti, sebbene il carico di responsabilità finisca per essere esattamente quello di un medico specialista. Un’alternativa estrema resta quella di scegliere una specializzazione tra quelle “disponibili”, non assecondando le proprie aspirazioni né la propria vocazione ma assecondando un sistema fatto di precedenze, scelte di vita che si consumano nei limiti di poche ore e in base alla legge del “chi prima arriva”. Per questo riteniamo prioritario che ogni sforzo debba essere mirato ad intervenire per evitare l’imbuto formativo tra la formazione della laurea e quella specialistica, magari ipotizzando un corso unico (5 anni di base, con passaggio diretto a 4 anni di specialistica in rapporto sempre alla programmazione dei bisogni), considerato che il mercato del lavoro italiano, ma anche quello europeo non rende spendibile il solo possesso della laurea in medicina e chirurgia, almeno nel suo campo proprio, senza l’acquisizione del titolo di specializzazione post-laurea. In questo senso, i fondi REACT-EU, con i 210 milioni stanziati per l’aumento dei contratti di formazione dei medici specializzandi, dagli attuali 6.700 posti in specializzazione a circa 10.400 l’anno (di cui 72 milioni al Sud), rappresentano sicuramente una “boccata di ossigeno”.
L’aumento delle borse di specializzazione però deve essere accompagnato ad altre innovazioni che devono mirare al miglioramento della formazione dei giovani medici, per rispondere ai bisogni di cura sempre più complessi e che necessitano di un approccio sociosanitario integrato e coordinato. Si dovrebbe valorizzare maggiormente la formazione negli ospedali non universitari del territorio, attraverso un canale di formazione specialistica alternativo al classico percorso di specializzazione, ma perfettamente equipollente ad esso, da esercitarsi presso le strutture del SSN (Aziende ospedaliere, IRCCS, presidi ospedalieri ecc.) non universitarie, con contratti non più di formazione specialistica ma veri e propri contratti di formazione-lavoro da estendere non solo agli specializzandi ma anche a chi non ha vinto il concorso nazionale. Questi provvedimenti garantirebbero ad ogni paziente la miglior cura possibile da parte di personale estremamente qualificato e competente. Inoltre, si eviterebbe l’eccessivo carico di lavoro dei medici già in servizio.
In caso di emergenze, come quella odierna del Covid-19, non ci sarebbe più bisogno di ricorrere a misure straordinarie di assunzione che portano a dotarsi di personale sanitario non adeguatamente preparato e completamente allo sbaraglio. Ciò, fra l’altro, sarebbe anche meno dispendioso per le casse dello Stato.
Un altro aspetto che merita una profonda riflessione riguarda l’entità del numero programmato per l’accesso ai corsi di laurea in medicina e chirurgia. Riteniamo sia necessario eliminare il concorso nazionale che si basa su un asettico ed ingiusto test, per favorire invece metodi di selezioni basati sul merito e sulla valutazione della carriera del singolo studente nei primi anni di studio, attraverso sbarramenti oppure immaginando un limite minimo di esami necessario alla continuazione della carriera.
È evidente che questo non basta. Senza investimenti adeguati, se aumentassero solo i posti a Medicina ma non le strutture, le aule, i docenti e la rete formativa dove poter svolgere le attività pratiche integrative, la qualità della didattica ne risentirebbe di conseguenza. A questo, va affiancata anche una seria riflessione, da parte delle Università e delle Scuole di specializzazione, sulle tipologie di professionisti da formare, ad oggi ancora troppo orientate a formare medici a vocazione ospedaliera e poco rispondenti alle esigenze della medicina di comunità.