L’associazione Agire Politicamente si è impegnate nelle settimane scorse per analizzare un recente documento del Ministero della Salute che indica finalmente un certo ripensamento del Servizio sanitario nazionale. Il documento che qui pubblichiamo, frutto di un gruppo di lavoro coordinato da Domenico Rogante, indica gli elementi positivi del piano del governo, ma ne evidenzia anche i limiti e avanza alcune proposte
Ripensare la sanità, per un umanesimo della cura
“Il malato è più importante della malattia” (Papa Francesco)
Tra i diritti fondamentali, garantiti dalla nostra Carta costituzionale, il diritto alla salute è apparso il più compromesso dall’emergenza sanitaria, sia per l’imprevedibilità del virus, sia per l’inadeguatezza delle strutture, pur in presenza di una generosa e qualificata professionalità degli operatori sanitari. La pandemia ha ricordato alla nostra distratta consapevolezza, la condizione di strutturale vulnerabilità della natura umana, mentre rivelava la mancanza di adeguati strumenti di prevenzione e di cura, di questa “epidemia totale”.
“Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico ha trasformato questo virus in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità, e in una minaccia per l’insieme dei nostri sistemi economici”. (La Civiltà cattolica, 4/18 apr. 2020 pag. 7).
L’associazione Agire Politicamente nella tradizione ideale e storica del cattolicesimo democratico, che ha fatto dell’umanesimo l’anima di ogni politica cristianamente ispirata, avverte e segnala l’urgenza di ripensare la Sanità, per restituire alla medicina la sua vocazione di “arte della cura”, al servizio del bene comune, che è il bene di tutti e di ciascuno.
Adeguare il servizio ai bisogni dei cittadini ed estenderlo a tutti è il modo concreto di garantire il diritto alla salute, quale condizione primaria di qualità della vita individuale e sociale.
Abbiamo preso visione del DM77: Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza nel territorio nel Servizio sanitario nazionale (Allegato 1) che condividiamo nell’ambizione innovativa e nell’ampia riprogettazione. Qui vogliamo portare l’attenzione sui punti che riteniamo fondamentali e che il documento trascura.
- Un servizio accessibile a tutti
Ci sembra opportuno ricordare che il Servizio Sanitario Nazionale nacque nel 1978 per superare il sistema mutualistico. Aveva tra gli obiettivi principali quelli dell’equità (uguali prestazioni per tutti), della partecipazione democratica (gestione affidata ai comuni e partecipazione dei cittadini nelle Unioni sanitarie locali), globalità degli interventi (prevenzione, cura, riabilitazione), territorialità dei servizi (prossimità al luogo di manifestazione del bisogno), organizzazione del distretto sanitario (erogazione dei servizi di primo livello e di primo intervento), centralità della prevenzione.
Purtroppo, negli anni successivi, si è andati sempre di più verso un’aziendalizzazione della sanità per rispondere alle pressanti esigenze finanziarie, con l’introduzione di una concezione di assistenza pubblica in cui la spesa sociale e sanitaria dovesse essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non più unicamente in rapporto all’entità dei bisogni. Concezione ulteriormente fortificata dalla privatizzazione di alcuni servizi e quindi dalla competizione tra Pubblico e Privato.
Oggi possiamo affermare che la disfunzione più grave del sistema sanitario è imputabile al fatto che i principi della riforma del ‘78 sono stati abbandonati o non attuati, senza che sia stata dimostrata la loro obsolescenza. Il sistema sanitario pubblico non sembra, almeno esplicitamente, messo in discussione, per quanto oggi stia diventando sempre più una consuetudine appaltare alcuni servizi ai privati. Questo, a nostro avviso, rischia di minare quelle che sono le fondamenta del nostro Sistema Sanitario Nazionale, che prevede il ricorso al privato solo come integrazione dei servizi, sulla base delle esigenze dovute alla programmazione, ma non deve mai sostituire completamente il servizio pubblico, anche perché vorrebbe dire un aggravio delle spese a carico dei cittadini.
Risulta pertanto urgente ripensare la sanità come servizio pubblico accessibile a tutti, così come auspicato più volte da Papa Francesco che peraltro ha sempre riconosciuto all’Italia la dotazione “di un buon servizio sanitario”.
Uno dei disagi maggiormente percepiti dai cittadini è sicuramente quello delle interminabili liste d’attesa che ogni anno spinge sempre più persone a rinunciare alle cure. In presenza di questo fenomeno così diffuso, è evidente che anche l’istituto dell’Intramoenia, spesso utilizzato da professionisti che paradossalmente non esercitano l’attività ambulatoriale, contribuisce a creare ulteriori DISUGUAGLIANZE tra le fasce di popolazione.
L’intramoenia istituita con D.leg. 517 del 1993, doveva rappresentare “un corretto equilibrio fra attività istituzionale e professionale” con un volume di prestazioni non superiore a quello in attività istituzionale e “al fine di concorrere alla riduzione delle liste di attesa”. Purtroppo, negli anni questo strumento ha perso la sua vocazione originaria e le cause sono riconducibili a diversi fattori:
- mancati interventi di ristrutturazione edilizia finalizzati a dedicare strutture delle Aziende all’ALPI (attività libero-professionale intramuraria)
- l’assenza in alcune regioni delle linee guida richieste e stabilite dal Decreto-legge del 2012
- al fine di un controllo dell’insorgenza di conflitti di interesse o concorrenza sleale e per definire le misure sanzionatorie, Regioni e Governo avevano stabilito di creare organismi paritetici regionali con le organizzazioni sindacali, ma questi in alcune regioni non sono ancora presenti e, laddove sono stati attivati, sono trattati come meri adempimenti formali.
Per questa ragione, in attesa che il servizio pubblico si attrezzi per smaltire le liste d’attesa attraverso una migliore organizzazione territoriale (per es. coinvolgendo i medici di base in possesso di una idonea specializzazione), riteniamo che sia necessario sospendere l’istituto dell’intramoenia in quelle aziende in cui è accertato il mancato rispetto del rapporto tra i volumi delle prestazioni erogate in regime istituzionale e quelli delle prestazioni erogate in regime di ALPI.
Il sistema sanitario nazionale come erogatore del servizio pubblico dovrebbe comprendere anche le cliniche e gli ospedali cosiddetti privati. Riteniamo infatti che comunque, indipendentemente dal soggetto di erogazione, il servizio sanitario sia pubblico perché sempre rivolto al benessere individuale e sociale dei cittadini, pertanto dovrebbe essere rivisto lo stato giuridico degli ospedali e delle cliniche private ai quali può essere riconosciuto un ruolo di servizio sussidiario nella misura in cui rispondano a determinate condizioni, compresa la dotazione dei servizi essenziali (pronto soccorso, terapia intensiva ecc.), calmierando il tariffario non convenzionato, collegandolo in proporzione al reddito individuale (ISEE).
La terminologia con la quale la riforma indica i nuovi istituti (Casa di Comunità, Ospedale di Comunità), come anche la Medicina di popolazione, ci sembra dimostri, anche da parte del governo, l’intenzione di sostenere la natura pubblica del servizio sanitario.
Proprio alla luce di questo, auspichiamo che vengano presto sciolti i dubbi relativi al reperimento dei fondi per il personale da assumere. Stando agli standard individuati servirebbe un surplus di personale tale da richiedere un investimento di risorse aggiuntive di circa il 25% in più. Quando finiranno le risorse del Recovery Plan, il piano di potenziamento dell’assistenza territoriale sarà a regime e dovrà essere sostenuto dai finanziamenti nazionali. Il personale aggiuntivo delle Case della Comunità, dell’ADI (assistenza domiciliare integrata) e degli Ospedali di Comunità costerà circa 2 miliardi l’anno e ad oggi sarebbero coperti solo con circa 745 milioni (art. 1 del D.L 34/2020), mentre la restante parte della spesa, secondo il governo, dovrebbe essere coperta dall’attuazione di un Piano di sostenibilità.
L’auspicio è che si possa provvedere con largo anticipo a reperire tutti i finanziamenti necessari per garantire la prosecuzione dei servizi già attivati, assumere il personale e avviare i servizi che partiranno dal 2027, evitando, in mancanza di fondi, di ricorrere alla privatizzazione dei servizi che sarebbe sicuramente contradittorio rispetto allo spirito originario della riforma.
- Una medicina di prossimità
La nuova riforma sanitaria indica l’assistenza territoriale o assistenza primaria – come la prima porta d’accesso al sistema sanitario. Essa costituisce l’approccio più inclusivo, equo, conveniente ed efficiente per migliorare la salute fisica e mentale degli individui, così come il benessere della società. In un paese, che secondo le recenti previsioni si avvia ad essere sempre più “anziano”, deve rappresentare una priorità la gestione delle cronicità, per ridurre gli esiti legati a queste malattie, ma soprattutto la prevenzione. Per questo, nella proposta viene introdotto il concetto di Medicina di Popolazione, che ha l’obiettivo di mantenere l’utenza di riferimento in condizioni di buona salute, rispondendo ai bisogni del singolo paziente in termini sia di prevenzione sia di cura.
In una nuova concezione della Sanità Territoriale diventa centrale l’Assistenza Domiciliare e quindi l’idea della Casa come primo luogo di cura, attraverso l’erogazione di interventi caratterizzati da un livello di intensità e complessità variabile nell’ambito di specifici percorsi di cura e di un piano personalizzato di assistenza.
A questo proposito, la riforma prevede l’istituzione delle Centrali operative territoriali (Cot), una ogni 100.000 abitanti, con la funzione di coordinare i servizi domiciliari con gli altri servizi sanitari, assicurando l’interfaccia con gli ospedali e la rete di emergenza-urgenza.
In funzione di questo, riteniamo importante che si vada verso l’équipe di medici per l’Assistenza Domiciliare Integrata, dotata anche di specialisti convenzionati (es. Geriatra per gli anziani, o Internista per tutti gli altri), infermieri professionali, Fisiatra, Assistente sociale, e tutte figure che potranno poi alla bisogna attivare i vari servizi necessari (Terapisti della Riabilitazione, OSS, Chirurghi vascolari o Plastici per la cura dei decubiti etc.).
Per potenziare l’integrazione complessiva dei servizi assistenziali socio-sanitari per la promozione della salute e la presa in carico globale della comunità e di tutte le persone, siano esse sane o in presenza di patologie (una o più patologie) e/o cronicità, il PNRR prevede l’attivazione entro la metà del 2026 di 1.288 Case di Comunità: strutture fisicamente identificabili (nuove o già esistenti) che si qualificano quale punto di riferimento di prossimità e punto di accoglienza e orientamento ai servizi di assistenza primaria di natura sanitaria, sociosanitaria e sociale per i cittadini, con particolari bisogni e patologie (dipendenze patologiche, servizi per la salute della donna e del bambino) garantendo interventi interdisciplinari attraverso la contiguità spaziale dei servizi e l’integrazione delle comunità di professionisti che operano secondo programmi e percorsi integrati, tra servizi sanitari (territorio-ospedale) e servizi sociali.
La Casa di comunità è messa in rete con gli altri settori assistenziali territoriali, quali assistenza domiciliare, specialistica, ambulatoriale, territoriale e ospedaliera, ospedali di comunità, RSA (Allegato 2), hospice e rete delle cure palliative, Consultori familiari e attività rivolte ai minori ove già esistenti, servizi per la salute mentale, dipendenze e disabilità e altre forme di strutture intermedie e servizi;
Inoltre, verranno anche istituiti gli Ospedali di Comunità entro la metà del 2026, una struttura da 20 a 40 posti letto che avrà anche il compito di facilitare la transizione dei pazienti dalle strutture ospedaliere per acuti al proprio domicilio, consentendo alle famiglie di avere il tempo necessario per adeguare l’ambiente domestico e renderlo più adatto alle esigenze di cura dei pazienti.
Quello che viene chiesto è un vero e proprio salto culturale che coinvolga non solo i cittadini, che sono i destinatari di questi servizi, ma anche i medici e gli operatori sanitari stessi e che ci permetta di guardare al futuro con maggiori speranze. Non si può ragionare in termini di aggregazione con la mentalità individualistica del medico che lavora da solo all’interno di una struttura, in questo modo non faremmo altro che riproporre uno schema del passato che si è dimostrato non adatto alle nuove esigenze. Per questo, l’elemento davvero innovativo e caratterizzante della nuova riforma sanitaria è rappresentato dall’introduzione dell’approccio multidisciplinare che porterà i medici di famiglia non solo a lavorare in squadra fra loro ma ad associarsi necessariamente alle altre figure professionali presenti all’interno delle nuove strutture, come gli specialisti, gli infermieri e gli operatori dei servizi sociali.
Infatti, un altro elemento distintivo della riforma è rappresentato dalla volontà di offrire un’assistenza che sia sempre di più sociosanitaria. Per fare ciò, riteniamo imprescindibile il coinvolgimento dei comuni, enti responsabili dei servizi sociali del territorio, affinché si possa creare una sinergia con le amministrazioni centrali che possa favorire la giusta integrazione dei servizi. A questo proposito, è importante che le attività consultoriali familiari e rivolte ai minori, indicate nella riforma solo come “facoltative” o “raccomandabili”, siano in realtà garantite, insieme con i servizi per la salute mentale e la neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza una necessità registrata a più livelli in particolare dopo l’esperienza della pandemia, non solo per i cittadini ma anche per chi è in prima linea nell’offerta dei servizi per la comunità. L’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sulla salute mentale con presidente Beatrice Lorenzin è sicuramente un passo importante nell’attenzione a questi problemi.
L’emergenza Covid-19 ha messo in luce la problematicità dell’organizzazione/articolazione istituzionale del sistema territoriale, acutizzando le ben note criticità esistenti nel rapporto tra Stato-Regioni, con eccessiva rivendicazione di autonomia da parte di alcune. Riteniamo che in una situazione come quella che stiamo vivendo in questi anni, debba prevalere il criterio di uniformità e all’occorrenza interventi centralizzati da parte dello Stato come la stessa Corte costituzionale, con la sentenza 37, ha precisato (Allegato 3).
- Deontologia professionale e formazione sanitaria
Con la Pandemia è ritornato alla ribalta il tema della carenza di medici e del personale sanitario a breve e a lungo termine che rischia di far collassare il nostro sistema sanitario.
Finalmente, dopo anni di battaglie da parte delle associazioni universitarie, si percepiscono segnali di un netto cambio di mentalità nell’assegnazione delle borse di specializzazione, con criteri che tengano conto della domanda di salute proveniente dal territorio. La decisione di rendere permanenti 12 mila borse di specializzazione va in questa direzione ed è sicuramente una prima risposta importante all’annoso problema dell’imbuto formativo che vedeva tanti giovani medici sospesi nel limbo tra la laurea e la specializzazione
Per una soluzione più strutturale, riteniamo fondamentale intervenire sul percorso formativo degli aspiranti medici, riflettendo sulla possibilità di un corso unico di studi (5 anni di base, con passaggio diretto a 4 anni di specialistica in rapporto sempre alla programmazione dei bisogni), considerato che il mercato del lavoro italiano, ma anche quello europeo, non rende spendibile il solo possesso della laurea in medicina e chirurgia, almeno nel suo campo proprio, senza l’acquisizione del titolo di specializzazione post-laurea.
Questa proposta dovrebbe essere accompagnata da altre innovazioni che mirino al miglioramento della formazione dei giovani medici, per rispondere ai bisogni di cura sempre più complessi e che necessitano di un approccio sociosanitario integrato e coordinato. Si dovrebbe valorizzare maggiormente la formazione negli ospedali non universitari del territorio, attraverso un canale di formazione specialistica alternativo al classico percorso di specializzazione, ma perfettamente equipollente ad esso, da esercitarsi presso le strutture del SSN (Aziende ospedaliere, IRCCS, presidi ospedalieri ecc.) non universitarie, con contratti non più di formazione specialistica ma veri e propri contratti di formazione-lavoro da estendere non solo agli specializzandi ma anche a chi non ha vinto il concorso nazionale. Questi provvedimenti garantirebbero ad ogni paziente la miglior cura possibile da parte di personale estremamente qualificato e competente. Inoltre, si eviterebbe l’eccessivo carico di lavoro dei medici già in servizio.
Su questi temi, il disegno di legge del 5 Agosto 2021, d’iniziativa della senatrice Boldrini, rappresenta un importante passo avanti che ci auguriamo possa aprire una vera riflessione sulla formazione medica, con l’obiettivo riformare il percorso specialistico dei medici e delle altre professioni sanitarie. (Allegato 4)
Un altro aspetto che merita una profonda riflessione riguarda l’entità del numero programmato per l’accesso ai corsi di laurea in medicina e chirurgia. Riteniamo sia necessario eliminare il concorso nazionale che si basa su un asettico ed ingiusto test, per favorire invece metodi di selezioni basati sul merito e sulla valutazione della carriera del singolo studente nei primi anni di studio, attraverso sbarramenti oppure immaginando un limite minimo di esami necessario alla continuazione della carriera.
È evidente che questo non basta. Senza investimenti adeguati, se aumentassero solo i posti a Medicina ma non le strutture, le aule, i docenti e la rete formativa dove poter svolgere le attività pratiche integrative, la qualità della didattica ne risentirebbe di conseguenza. A questo va affiancata anche una seria riflessione, da parte delle Università e delle Scuole di specializzazione, sulle tipologie di professionisti da formare, ad oggi ancora troppo orientate a formare medici a vocazione ospedaliera e poco rispondenti alle esigenze della medicina di comunità. Parte integrante della formazione deve essere la coscienza deontologica della professione, da riconoscere anche attraverso un’adeguata e perequata retribuzione.
Riteniamo infine che sia necessario scongiurare ad ogni costo il rischio di interrompere il rapporto di fiducia tra medico e paziente che deve essere però rivisto in chiave dinamica e non dato per acquisito una volta per tutte. L’alleanza terapeutica tra medico e paziente, che rappresenta il primo atto che muove le risorse della persona verso la guarigione, va consolidata e alimentata giorno dopo giorno. La collocazione del medico di famiglia alle dipendenze statali riteniamo sia auspicabile a patto che non comprometta il rapporto fiduciario tra medico e paziente che deve diventare centrale anche per la specialistica ambulatoriale e ospedaliera; perciò, è fondamentale lasciare al paziente la libertà di scegliersi il proprio medico.
Documento coordinato da Domenico Rogante
Con i contributi di:
Pietro Pergolari
Leopoldo Rogante
Alvaro Bucci
Gabriella Bonciarelli
Natalia Conte
Alberto De Gaetano
Massimo De Simoni
Francesca Sanseverino
Vedi qui una sintesi del Decreto 23 maggio 2022 , n. 77, “Regolamento recante la definizione di modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”