Risposta ai miei critici su sussidiarietà e statalismo

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La discussione su statalismo e sussidiarietà continua. Vorrei rassicurare Giorgio Armillei: non intendo affatto sminuire le differenze di impostazione che si stanno ampiamente manifestando nell’orizzonte dei cattolici che hanno più o meno in comune il riferimento del centro-sinistra. Anzi, ne sono molto consapevole, mi sembrano differenze cospicue e vorrei proprio riprendere e rilanciare il dibattito su di esse, per approfondirlo.

Intento più modesto delle mie note  apparse su «Tamtàm democratico» era quello di disinnescare quelli che a me paiono rischiosi paralleli storici. Frutto del tentativo di cercare nel passato quarti di nobiltà, oppure al contrario di creare schematiche immagini negative cui contrapporsi, per giustificare sé stessi. Lasciamo stare Dossetti e De Gasperi, suggerirei quindi. Se volessimo entrare nella discussione storica approfondita sulle loro divergenze reali, infatti, dovremmo fare percorsi un po’ più articolati che non appenderci a una frase di un maestro come Pietro Scoppola (in un libro-intervista che non è certo tra i suoi principali contributi). Beninteso, una fondazione storica della propria analisi della realtà è cruciale, ma comporterebbe appunto una lettura della parabola dell’Occidente – e del nostro  paese in esso, e di Dossetti e De Gasperi nel  cuore del suo processo di sviluppo – che non trascuri alcune dinamiche cruciali di cambiamento.

In questo senso non capisco perché Flavio Felice  ci riporti a un dibattito degli anni ’30-’40 per trovarci (a mio parere molto forzatamente) le premesse per affrontare questioni attuali. La mia battuta sul liberismo «spazzato via» dalla crisi degli anni ‘30 – che certo sarebbe da sviluppare in termini storiografici, ma passi come schema di primissima approssimazione – è da lui confermata «a rovescio» quando dice che era stato salvato da minoranze intellettuali: appunto! Era una eresia in controtendenza strutturale, allora, anche nel mondo anglosassone, lo posso ribadire. Per cui l’orizzonte delle scelte e delle contrapposizioni reali era «altro» da quello attuale, piuttosto profondamente distinto. Oggi nessuno proporrebbe di ripristinare l’Iri, che è stato salvato e rilanciato da De Gasperi, non da Dossetti!

In questo senso, suggerirei piuttosto di tornare a leggere come termine di riferimento principale la cruciale crisi del sistema capitalistico degli anni ’70 del Novecento e le vie d’uscita che ne sono state trovate, andando anche al di là dell’abusata categoria della «rivincita del liberismo», che dice solo una parte della realtà. In quel passaggio ci sono state forti scelte «politiche» (statuali, anche se non piacesse ai miei critici), che hanno accompagnato, curvato, amplificato alcune evoluzioni sociali ed economiche reali e «pesanti», tanto da portare a un orizzonte politico-economico complessivo profondamente diverso da quello degli anni ’30-’40. Quello in cui cominciano ad avere senso le differenze tra di noi. Sullo sfondo di quella «grande transizione» vogliamo (e dobbiamo…) discutere di interpretazioni e usi del concetto di sussidiarietà, di finalismo dello Stato, di poliarchia e quant’altro? Facciamolo in modo libero e diretto, radicando nell’evoluzione della storia la nostra discussione, ma evitando di usare in modo rassicurante alcuni spezzoni o personaggi del passato.  In questa linea, ad esempio, provo a porre due temi che vedo trasparire dagli interventi dei miei critici.

Il primo. In conseguenza del loro furore anti-statalista, essi tendono del tutto a scotomizzare la questione della democrazia. Preoccupati che non si voglia sostenere uno Stato che «tutto regola e dirige» si arriva a sostenere una linea che estenua talmente la funzione dello Stato, da trascurarne totalmente l’aspetto di istanza democratica. Di uno Stato che proprio in quanto democratico (cioè espressione dei «molti», non dei pochi privilegiati), è potuto diventare modernamente sociale, cioè caricato della responsabilità di «rimuovere gli ostacoli […] che impediscono il pieno sviluppo della libertà umana» (art. 3 Cost.). Siamo con quelle parole scelte dai nostri padri costituenti oltre il liberalismo, quantunque con e non contro il liberalismo. Questa conquista del costituzionalismo contemporaneo mi pare messa in discussione se torniamo alla visione di uno Stato che si limita a regolare il traffico e assicurare l’ordine pubblico. Il punto a me sembra questo: se la Repubblica ha questo compito lo ha giustamente e solamente per la sua legittimazione democratica. La società si dà in termini democratici le istituzioni per completare il proprio anelito al bene comune. Lo Stato-ordinamento deve esprimere (al meglio, riducendo gli inevitabili limiti) lo Stato-comunità.

Il secondo problema è la finalità che ci proponiamo. Possiamo cioè anche dividerci sui mezzi (lo Stato, il mercato, il terzo settore…), ma cerchiamo almeno di non dimenticarci i fini. E qui dobbiamo prendere sul serio gli squilibri esistenti nel mondo attuale (dopo la svolta trentennale cui sopra alludevamo). Almeno un triplice squilibrio: quello geo-economico tra popoli e paesi in cui impera un fordismo primitivo e popoli e paesi contrassegnati da un post-fordismo esangue, quello tra settore finanziario ed economia reale, quello tra redditi di una élite in qualche modo agganciata a dinamiche finanziarie e redditi da lavoro (sicuro e precario che sia, dato che lo squilibrio tra queste due forme mi appare tutto interno a quello precedente). Ora, possiamo sostenere che sia un obiettivo per qualsiasi forza democratica e riformista del mondo occidentale oggi quello di ridurre contemporaneamente questi squilibri? Abbiamo in mente una società da costruire, in cui le disparità attuali si riducano, in cui ci sia più lavoro buono e ben retribuito, meno instabilità provocata da scorribande finanziarie, più coesione sociale, più diritti e tutele per i lavoratori dei paesi emergenti, meno privilegi di una ristretta fascia di super-manager? Se sì, allora siamo d’accordo. E possiamo cominciare a discutere di come arrivarci, cosa non banale: sarà del tutto ragionevole che si possano confrontare diversi itinerari e diverse priorità, ma almeno avremo in comune un orizzonte finalistico. Se invece mettiamo in discussione l’orizzonte finalistico, mi pare che le cose prendano una piega molto molto diversa.

Ora, vorrei chiedere, non so se nelle nostre divergenze prevalga un problema di fini o di mezzi (o di ambedue). Ma quando leggo alcune delle riflessioni dei miei critici, o molte delle posizioni culturali (e delle successive ricadute programmatico-politiche) che vedo emergere su Landino e dintorni, non riesco a nascondere un mio personale dissenso profondo. Per fare solo qualche esempio, preso dal recente scambio di battute. Nessuno discute che il sistema finanziario sia «uno degli strumenti più potenti con i quali far crescere opportunità e benessere» (Armillei), ma se si aggiunge: «Non spetta solo o primariamente alla politica correggere gli squilibri», il mio assenso si ferma. Non ci rendiamo conto che le dinamiche finanziarie sono altrettanto rischiosamente autodistruttive di quanto sono creatrici? Oppure ci fidiamo della capacità di auto-regolazione di quel mondo, dopo quello che è successo dal 2008 in qua? Un altro esempio: come non «riconoscere la rilevanza delle singole istanze» (Felice) personali, familiari e sociali? Ma se si comincia a sostenere che questo comporta «non attribuire il potere di sintetizzarle all’autorità statale», emerge la domanda: che ci sta a fare la politica democratica? Dire che il bene comune è insito nel finalismo dello Stato non è affatto dire che lo Stato ne abbia il «monopolio», come argomenta Felice, perché mai?

Esemplifichiamo ancora, con un riferimento all’attualità: perché mai i nostri amici di Landino si affannano tanto a sostenere una certa riforma del mercato del lavoro, diversa da altre? Non stanno «sintetizzando», scegliendo, selezionando opzioni forti che interessano la vita dei cittadini? Vedo invece una sorta di rifiuto di assumere questa responsabilità come fortemente connessa alla politica: la riforme sarebbero semplicemente l’adeguamento a una presunta necessità socio-economica. Giustificato con una specie di nuova versione di un’antica illusione cattolica sulla società totalmente capace di autoregolazione: una visione ottocentesca, eccessivamente sospettosa verso la politica e lo Stato. E in questo senso, vedo appannarsi anche (e fatalmente) il  problema della finalità dell’azione sociale e politica in generale. Discutiamo di come le istituzioni statuali si organizzino, del giusto mix tra indirizzo-regolazione-gestione-controllo, e quant’altro. Discutiamo di gerarchie e di opzioni concrete. Scontiamo il «limite» della politica, come presupposto radicale di qualsiasi riformismo: abbiamo interiorizzato profondamente i rischi del pan-politicismo e di ogni illusione di salvare l’umanità per via politica. Ma il problema di ridurre gli squilibri ce lo vogliamo porre? Se interpretiamo invece sussidiarietà e poliarchia come semplici maschere culturalmente raffinate per assecondare una deriva banalmente quanto pregiudizialmente anti-statuale e a-democratica, o addirittura corriva a una sorta di forzata accettazione degli squilibri strutturali delle nostre società post-moderne, ebbene, il dissenso c’è ed è marcato.

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