Secondo il CNEL i lavoratori italiani stanno tutti bene.

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di Sandro Antoniazzi

Il parere del CNEL in tema di salario minimo si è risolto in un documento di sostanziale appoggio alla linea governativa.

Citando dati statistici e documentazioni, peraltro già note ai sindacati e agli addetti ai lavori, il CNEL ha concluso che non necessita alcuna legge.

Non c’era bisogno del CNEL per arrivare a questo risultato.

Non serve entrare in una discussione dei dati, perché appunto conosciuti: sono dati che assicurano che la contrattazione collettiva copre abbondantemente (per il 95%) i lavoratori italiani.

Il problema vero è che si tratta di una copertura formale: la non applicazione dei contratti, il mancato rinnovo, il livello troppo basso di alcuni minimi contrattuali fanno sì che la realtà sia spesso molto diversa.

Avrà qualche significato se l’Eurostat (l’Istat europeo) segnala che il 63% delle famiglie italiane fanno fatica ad arrivare a fine mese. Come è possibile che sfugga al CNEL questa realtà macroscopica?

Chi ha contatti col mondo del lavoro quotidianamente incontra lavoratori che guadagnano una miseria (cooperative dei servizi, pulizie, case di riposo, mense annuali non stagionali!).

Il problema ha assunto un carattere “politico” fuorviante dividendo la scena schematicamente in due forze: chi era a favore e chi era contro la contrattazione collettiva.

Ma si può essere a favore della contrattazione e contemporaneamente a favore di un salario minimo fissato per legge? Un minimo legale non avrebbe potuto dar più forza proprio a quelle aree più deboli che il sindacato fa fatica a difendere e spesso anche a raggiungere?

Personalmente penso di sì e questo avrebbe dovuto essere il compito del CNEL: trovare la compatibilità, l’accordo tra la contrattazione e il salario minimo.

Dunque, in sostanza, il CNEL ha rinunciato al proprio ruolo e invece di cercare una soluzione, ha deciso politicamente di schierarsi da una parte: è forse la prima volta nella storia che il CNEL assume una posizione politica, di fatto a sostegno del governo. Non è certo un bell’esempio.

Solo una minoranza di consiglieri ha cercato di proporre una soluzione di mediazione che, per quanto limitata, rappresentava più coerentemente una posizione costruttiva.

Si può dire che questa assenza di coraggio da parte del CNEL ha trovato un punto di appoggio nell’assenza di un dibattito da parte di giuristi, economisti, sociologi che avrebbero potuto portare argomenti e proposte a favore della ricerca di una soluzione.

Forse, più a monte, ciò che ha contato di più è stata la mancanza di una posizione unitaria da parte di Cgil-Cisl-Uil.

L’iniziativa è partita a livello politico, quasi prendendo in contropiede il sindacato, che si è schierato su posizione di bandiera: la Cisl a difesa della contrattazione, la Cgil e Uil più disponibili politicamente.

Nessuna di loro ha preso l’iniziativa di verificare se era possibile trovare una posizione comune, non su un problema qualsiasi, ma su un problema centrale, come è quello del salario.

La questione è ritornata così a livello politico e avrà il suo contrastato iter parlamentare.

Ma è molto difficile che scaturisca qualcosa di buono e di utile senza che il sindacato dia un contributo decisivo in proposito.

La proposta di salario minimo non era un atto contro la contrattazione, ma intendeva rappresentare un elemento di stimolo, di sostegno, di rafforzamento della contrattazione; sostegno che poteva essere opportuno in questo momento problematico (il 54% dei lavoratori è in attesa di rinnovo e anche l’azione del sindacato è più rivolta al governo che non alle aziende).

In questa direzione bisognerebbe continuare a studiare e lavorare per trovare soluzioni valide.

 

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