Da una domanda come questa nasce l’interrogativo che attraversa tutto il libro: “Il banco e le stelle. Lettere di un prof a una ragazza in cerca di avvenire”, di Giancarlo Dilauro e Smilla Zicarelli Pedersen, SBS Edizioni, (2023) In questi tempi, in cui si parla sempre di più di responsabilità, difficoltà, disagi, crisi del sistema educativo, sarebbe interessante se su queste colonne si aprisse un dibattito e non solo tra gli addetti ai lavori.
Ovvero: se provassimo veramente a ribaltare la domanda? Se ci chiedessimo come l’istituzione può mettersi a servizio dell’uomo e valorizzarlo invece che inquadrarlo dentro l’organizzazione data? Se ci chiedessimo cosa può fare la scuola per lo studente e non cosa debba fare lo studente per la scuola? Se provassimo a mettere un attimo da parte il discorso su voti e diploma e rimettessimo al centro quello su cultura, bellezza, formazione? Probabilmente apriremmo il vaso di Pandora su un mare di fallimenti, di frustrazioni, d’insoddisfazioni di tutti: studenti, docenti, dirigenti scolastici, personale scolastico e genitori. E sarebbe un bene. Soltanto un bene. Le crisi possono aiutare a ritrovare motivazioni. E la nostra scuola è in crisi ed è senza motivazioni: insegna sempre meno (lo dicono dati ufficiali, nazionali!) e annoia sempre di più. Anzi, provoca talvolta un vero e proprio disagio emotivo: si entra in classe ansiosi e scontenti. Ma come si fa a imparare così? E come si fa a insegnare in questo contesto? Questo tipo di riflessione sulla scuola non è per niente nuovo. Si inscrive piuttosto in un alveo molto più grande. Nel Novecento tanti maestri e maestre hanno messo la questione sul tavolo in maniera radicale, basti pensare, solo in Italia, a Maria Montessori, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Alberto Manzi. C’è ancora adesso il grande Mario Lodi che dall’alto della sua età ed esperienza si chiede a cosa diavolo servano i voti!
A Roma, sta prendendo piede l’indirizzo montessoriano alle scuole medie inferiori. Pare sia un gran successo, si chiede di renderlo stabile oltre il periodo di sperimentazione e di incrementarlo, anzi, di diffonderlo di più. Questo significa scommettere su un apprendimento che si basa su creatività, libertà, interesse.
Quando a scuola, studenti o professori, mi chiedono di parlare di questo libretto, io rispondo con una domanda: è possibile fare una scuola che ci piace? La prima reazione di solito è un viso allibito e uno sguardo stupito. Siamo talmente assuefatti a fare le cose che facciamo sempre nello stesso modo, anche quando è fallimentare, che non ci chiediamo più neanche se quel modo ci piace, ci corrisponde. Siamo così abituati a subire certe cose che non ci chiediamo neanche più come vorremmo che fossero.
Quindi, il succo del libro è questo: guardare al presente della scuola, un presente per certi aspetti molto sconfortante, ma ripartire. E ripartire sollevando lo sguardo, rivolgendolo alle stelle come i naviganti. Vogliamo provare a pensare una scuola bella perché, come scriveva proprio Maria Montessori, “una prova della correttezza del nostro agire educativo è la felicità del bambino”. Siamo felici di fare scuola?