La questione della gestione dei soccorsi in mare e le nuove regole per le ONG che operano in quel campo e, in generale, la questione dei profughi sollevano interrogativi presso molte persone e in particolare fra i cattolici, un “popolo” sensibile “per statuto” (assieme a tanti altri credenti di altre fedi o non credenti) alla carità e al soccorso verso chi ha bisogno.
Credo sia doveroso affermare alcuni punti, forse banali, ma chiari.
Noi cattolici non potremo mai essere quelli che rifiutano di soccorrere e aiutare chi è nel bisogno, chiunque sia, da dovunque venga e ovunque si trovi. Il “buon Samaritano” – che Cristo tratteggia nella famosa parabola, parlando in realtà di sé stesso – non si chiede chi è l’uomo ferito lungo la strada, perché è ridotto così, da dove viene, dove va, in cosa crede, cosa ha fatto nella sua vita… Si china su di lui, cura le sue ferite e lo porta in un luogo sicuro. Paga di persona (dettaglio che spesso si tende a dimenticare) “l’albergatore” perché continui ad assisterlo, senza sapere se il ferito potrà mai restituirgli quella somma.
Questo non vuol dire negare o non vedere la complessità dei problemi, le difficoltà, le tensioni, la paura di chi magari è già in una situazione di disagio e teme di essere ulteriormente danneggiato, la presenza tra i migranti (come in ogni gruppo umano) anche di figure negative…
Ma per un credente tutti questi problemi non possono offuscare il Vangelo di Gesù e riconoscerne l’esistenza e la pregnanza non può mai divenire un alibi per sminuire o edulcorare il comandamento della carità, che è poi un comandamento a nostro vantaggio, perché ci rende davvero umani!
Detto ciò, è chiaro che ci sono molti modi per essere d’aiuto e certamente il primo è quello di creare le condizioni sociali ed economiche perché le persone non siano costrette a lasciare il proprio paese, correndo enormi rischi. Ma anche qui, vediamo di lasciarci alle spalle le ipocrisie: la comunità cristiana – con i nostri missionari, le nostre associazioni, il sostegno di singoli, gruppi, parrocchie, con le adozioni internazionali – è da decenni in prima linea per la difesa e la promozione delle popolazioni meno ricche, condividendo con loro progressi e sofferenze. Ma sono gli stessi missionari e lo stesso magistero della Chiesa a ricordarci che se non cambiano le regole dell’economia, se si continua a fornire armi alle fazioni in lotta, a sfruttare territori e popoli, se non c’è la pace, nessuna opera buona, per quanto intensa e organizzata, può risolvere da sola situazioni di grave crisi umanitaria.
Quindi, è giusto e doveroso investire in cooperazione internazionale, in aiuti in loco, ma solo se questa azione è accompagnata da una politica, innanzitutto europea (cioè dell’Unione Europea nel suo insieme), volta a creare condizioni di pace e se l’obiettivo è dare alle popolazioni strumenti per creare il loro proprio sviluppo, non imponendo tale e quale il nostro modello, come più volte ricorda Papa Francesco nella Laudato Si’.
Ma queste condizioni – ammesso che alcuni grandi potentati economici le consentano senza reagire, il che ovviamente è tutto fuorché scontato – non si affermano dall’oggi al domani: richiedono una costante e programmata implementazione che coinvolga le stesse popolazioni.
Va detto, a questo proposito, che c’è una responsabilità anche delle classi dirigenti locali, tante volte più interessate a ottenere e gestire il potere politico ed economico per sé e per i propri fedelissimi invece che al benessere dei loro popoli. E anche questa è una riflessione che va fatta, senza sconti. Perché aiutare governi corrotti e dispotici non significa, evidentemente, aiutare le popolazioni! E dunque anche la questione democratica deve essere presa in considerazione.
In ogni caso, finché ci sono guerre, violenze, fame, carestie, le persone continuano a fuggire per tentare di raggiungere un futuro migliore.
Molte di loro non sono ben consapevoli del viaggio spaventoso che dovranno compiere: e forse questo è aspetto su cui si potrebbe fare di più a livello informativo, per scoraggiare tentativi ad alto rischio di morte. Noi pensiamo alla traversata del mare Mediterraneo, che certamente è una roulette russa (l’avere o non avere pagato a caro prezzo un giubbotto di salvataggio può valere la vita), ma non è meno tragico e meno costellato di vittime senza nome il cammino per giorni e mesi tra foreste e soprattutto deserti, passati di mano in mano come oggetti da un gruppo di trafficanti a un altro, con la complicità dei militari e polizie locali corrotte, fino alla sosta, per mesi o per anni, nelle allucinanti prigioni libiche. E a questo proposito, ogni accordo con ciò che è ancora in piedi dello Stato libico dovrebbe prevedere un severo controllo sul trattamento delle persone in queste “prigioni”, dove spesso le condizioni sono disumane e le donne vengono violentate.
Veniamo dunque alle polemiche dei giorni nostri.
Il soccorso in mare va garantito, sempre e comunque, ma non bisogna lasciare sola l’Italia a gestire un problema che non può essere solo suo ma è europeo e anzi internazionale.
Lo si è detto mille volte, è ora che questo concetto diventi realtà.
Non sono in grado di giudicare se le nuove regole introdotte dal Governo italiano sulle ONG che operano nel Mediterraneo siano formulate nella maniera migliore; dalle proteste finora emerse sembra che si possa far meglio… Ma che ci sia una forma di controllo sull’operato delle Organizzazioni credo sia giusto ed esse non dovrebbero temerlo. Perché lo dico? Perché anche nell’ambito degli aiuti umanitari e della cooperazione internazionale sappiamo che non sempre tutto è andato come doveva andare, sia a livello italiano che internazionale. Ed è proprio a causa di gestioni poco oculate – se non peggio – di alcuni decenni fa nel nostro Paese che si è verificata poi una “frenata” in questo ambito, che ha finito per penalizzare proprio quelle realtà che operavano con maggiore serietà e risultati.
Quindi, le realtà sane – che sono certamente la schiacciante maggioranza – devono essere a favore del massimo di trasparenza e chiarezza. La loro credibilità ne uscirà rafforzata, mentre verrebbero emarginati – se ci sono – coloro che non operano correttamente. Ma guai se non riconoscessimo il valore e l’indispensabile apporto di chi si impegna a salvare vite umane e confondessimo l’esigenza di alcune forme di controllo con accuse generalizzate senza fondamento!
La seconda parte del ragionamento dovrebbe riguardare la gestione dell’accoglienza e dell’inserimento dei profughi e richiedenti asilo nel nostro Paese. Lo spazio comincia ad essere corto… e quindi, con una sintesi brutale: accoglienza di piccoli gruppi in ambiti locali, in famiglia e nelle comunità (anche parrocchiali!), programmi di insegnamento dell’italiano, integrazione nel nostro tessuto sociale attraverso l’incontro e la reciproca conoscenza, progetti di lavoro – a breve termine per evitare di passare il tempo senza sapere cosa fare e al fine di rendersi utili, poi, pur nelle difficoltà, per il medio e lungo periodo.
In sostanza, la strada tracciata dallo SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), che si si avvicina molto a questi criteri, sembra essere finora quella migliore. Anche perché coinvolge associazioni e realtà di base che hanno volontà, esperienza e competenza per fare un lavoro di grande qualità e efficacia.
Un’ultima annotazione. L’anno scorso ho accompagnato un gruppo di giovani in un viaggio di volontariato a Bangkok e dintorni (Thailandia). C’erano profughi birmani e pakistani, alcuni in regola, la maggior parte no. Ho saputo che gli stessi thailandesi, in alcune aree, si spostano in altri paesi confinanti e viceversa.
Ci sono campi profughi immensi in Africa, in Asia, ai confini della Turchia…
Apriamo gli occhi, c’è un mondo in ebollizione, gruppi di migliaia di persone che fuggono, si spostano, cercano, sperano!
Rendiamocene conto… così i nostri giudizi su quello che sta accadendo in Europa e in Italia sarebbero forse più equilibrati.
E diamoci da fare per l’equità in questo nostro villaggio globale: altrimenti nessuna motovedetta potrà fermare il flusso della storia.
Sandro Campanini
Coordinatore rete c3Dem
11 Agosto 2017 at 23:08
Le osservazioni di Sandro Campanini sono, una per una, di molto buon senso. Vorrei aggiungere che quello che mi sembra grave, nel dibattito politico e sui media, è la quasi totale assenza dello sforzo e dell’interesse di capire di più, di ascoltare di più, dai diretti interessati, i migranti, e da chi meglio ne conosce i problemi, quale è la realtà dei loro territori di provenienza, e quali sono le ragioni e le aspettative che li muovono. Farlo aiuterebbe tutti noi ad allargare e sviluppare una qualche intelligenza di quanto accade, e anche di quanto sarebbe possibile fare per rispondere ai problemi, tenendo insieme le esigenze degli uni e degli altri. Così come, ad esempio, avrei preferito ascoltare dibattiti su come sarebbe possibile creare in Libia e nei paesi limitrofi centri gestiti dalle agenzie delle Nazioni Unite e dell’Unione europea in cui valutare le storie e le richieste di ciascuno e gli eventuali diritti all’asilo e alla protezione umanitaria, in cui offrire comunque un’accoglienza dignitosa, in cui dare corretta informazione sulle procedure di ingresso e di lavoro nei paesi europei. E questo sulla base di una riapertura pur limitata dei flussi regolari di ingresso in paesi, come l’Italia, che, secondo tutti gli esperti, hanno bisogno di manodopera, ai vari livelli di qualificazione, per mansioni che restano attualmente scoperte. Insomma, quello che è davvero mancato è un serio dibattito nel paese su come realmente aiutarli (tanto a casa nostra quanto a casa loro) e non, invece, su come riuscire a fermarli. Ritenere un successo il fatto che la guardia costiera libica abbia mano libera (aiutata da noi italiani) per rispedire nei campi di detenzione coloro che sono arrivati, dopo viaggi estenuanti, a lambire le acque del Mediterraneo, è davvero triste, e quasi incomprensibile.