Spunti frammentari sulla cosiddetta «nuova evangelizzazione»

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“Solo una radicale distinzione tra fede ed etica consentirà alle minoranze credenti di essere testimoni di Dio nel mondo”.

Il pensiero della settimana (n. 384) di Piero Stefani    (http://pierostefani.myblog.it)

Ci sono assai pochi dubbi che il futuro dei cristiani europei è di essere in minoranza. Come avviene quasi sempre, le statistiche non fanno che confermare quanto, a grandi linee, si sapeva già. La sfida per i credenti in Gesù Cristo è di diventare minoranze non settarie. Per far ciò occorre vincere da un lato il complesso dell’arroccamento e dall’altro quello del rammarico e del risentimento. Si deve, perciò, divenir consapevoli che essere minoranza significa venir riconsegnati a quanto fu proprio delle origini cristiane. Per evitare la deriva settaria bisogna conoscere le culture e dialogare con esse senza identificarsi in modo integrale con alcuna. In altri termini, il vangelo va liberato da una sua definizione monoculturale.

In quest’ambito l’eterogenesi dei fini dell’esperienza missionaria può fornire indicazioni preziose. Lo slancio tipico delle missioni ottocentesche fu, sulla scia del colonialismo e dell’imperialismo, quello di esportare nel mondo un cristianesimo legato a culture nate in Occidente. Lo scopo era tanto di convertire alla fede intere popolazioni quanto di sradicarle dalle loro culture indigene. L’esito fu, il più delle volte, di creare minoranze cristiane e di favorire l’insorgere di sincretismi tanto più rigogliosi quanto più ristretti sono divenuti gli spazi per un’autentica inculturazione. Oggi i missionari sanno di essere spesso chiamati a vivere in comunità di minoranza, a cercare il dialogo con le culture e a manifestare una solidarietà concreta nei confronti di tutti coloro che si trovano nel bisogno qualunque sia la loro appartenenza religiosa. La «nuova evangelizzazione» (espressione peraltro del tutto impropria) si dimostrerebbe all’altezza dei tempi solo se si attenesse anche per l’Europa a queste caratteristiche. Ciò esige la consapevolezza di sapere cosa sia il proprium della fede.

All’interno della società va tenuto fermo prima di tutto ciò che accomuna, vale a dire la condizione umana colta nella sua pienezza e nelle sue fragilità. Ciò comporta la capacità di rideclinare i diritti umani anche sul versante della precarietà. Per esempio, perché non affermare, accanto all’astratto «tutti gli uomini nascono uguali», che «tutte le persone umane nascono bisognose di aiuto»? Quest’ultima non sarebbe forse una proposizione esistenzialmente vera ed eticamente accomunante? Senza solidarietà non c’è sopravvivenza.

In secondo luogo va dato un giusto spazio a quanto distingue. In questo contesto rientrano le culture, le lingue, i comportamenti, le convinzioni. Essi non vanno forzatamente ricondotti a unità. Tuttavia, quando questo secondo ambito non tiene conto del primo, le diversità si trasformano in contrapposizioni. Da espressione dell’umano, le differenze si trasformano in definizione pratica dell’umano, vale a dire in settarismo culturale, in sperequazione economica e in prepotenza politica (il Novecento ha conosciuto espressioni aberranti di tutto ciò e, in proposito, il razzismo ne resta il simbolo più facilmente individuabile).

 Una fede che si incontra in modo organico con una cultura non riesce a giocare la partita delle diversità. Il suo assolutismo rivestito di panni culturali univoci la consegna, per forza di cose, a un atteggiamento settario (e ciò avviene anche nel caso in cui fosse ancora maggioritaria). Quest’ultimo è riassumibile in un sol punto: noi abbiamo ragione perché loro hanno torto. Nel cattolicesimo contemporaneo forse solo il Vaticano II è uscito, per breve tempo, da quest’ultimo schema. L’attuale ossessione nei confronti del cosiddetto relativismo è la prova provata della incapacità di saper affrontare il problema della diversità.

La fede non si oppone alle culture e alla diversità. Essa è invece chiamata a prendere le distanze dalla contrapposizione. Ciò è tutt’altra cosa dall’affermare che ci si astiene da ogni denuncia. Anzi quest’ultima svolge un ruolo insostituibile allorchè, in nome della diversità, si calpesta quanto vi è di comune. Una fede autentica è chiamata a smascherare, dentro e fuori di sé, ogni settarismo. Ma per far ciò è necessario rinunciare alla pretesa di fondare in proprio una mappa valoriale universale. Occorre tagliare i ponti con la pretesa di essere, nella propria specificità, garanti di quanto è comune. Solo una radicale distinzione tra fede ed etica consentirà alle minoranze credenti di essere testimoni di Dio nel mondo.

 

Piero Stefani

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