Sul cattolicesimo democratico

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Scritto a fine luglio per l’Avvenire, ma finora non pubblicato, l’articolo propone una pista di riflessione per il cattolicesimo democratico dopo l’articolo di Marco Damilano su Domani e il dibattito che ne è seguito. L’autore, insigne teologo moralista, si richiama ad un recente libro di Lino Prenna che ha rilevato nell’idea di “popolo” di papa Bergoglio una base feconda per un ripensamento del ruolo politico dei cattolici democratici

 

 

L’interessante (e originale) articolo di Marco Damilano sul “cattolicesimo democratico”, apparso su Domani del 4 luglio u.s. ha dato il via a un dibattito (ripreso sul sito C3Dem) tuttora aperto sullo status attuale del movimento e sulle prospettive per il futuro. Damilano gettava anzitutto uno sguardo retrospettivo sul movimento con particolare riferimento ai due centri – Roma e Bologna – in cui si era, a suo tempo, particolarmente sviluppato e su una serie di famiglie che nelle due città hanno avuto un ruolo determinante in tale sviluppo. Ma l’intento era soprattutto quello di sollecitare la presenza dei cattolici democratici sullo scenario politico; presenza resa oggi ancor più necessaria per dare vita, in un contesto di forti contrapposizioni e di pericolosi estremismi, a spazi di mediazione, di ascolto e di non radicalizzazione dei conflitti, avendo come riferimento i valori della Costituzione.

Nel formulare questa sollecitazione Damilano attribuisce un valore simbolico alla nomina papale del cardinale di Bologna Matteo Zuppi a Presidente della Cei. Nella sua persona si assommano infatti le tradizioni delle due città ricordate – Roma e Bologna – che hanno avuto in passato, come si è detto, una funzione di primo piano. La riflessione di Damilano non manca poi di delineare gli obiettivi che il cattolicesimo democratico deve perseguire, se intende dare un contributo decisivo alla politica del momento. Ciò che manca a tale contributo e anche al dibattito successivo (si vedano gli interventi di Franco Monaco e di Sandro Antoniazzi) è una ridiscussione dei contenuti del popolarismo per renderli capaci di affrontare le sfide della società attuale.

Il richiamo al popolarismo sturziano è senza dubbio imprescindibile, ma non si può ignorare l’apporto di altri interventi, che hanno concorso a dilatare gli orizzonti interpretativi del cattolicesimo democratico, facendone emergere connotati nuovi più in sintonia con la situazione odierna. Decisivo risulta, a tale riguardo, l’apporto di papa Francesco, il quale fornisce una versione di popolarismo – come ci ha ricordato Lino Prenna in un recente volume dal titolo Dal cattolicesimo democratico al nuovo popolarismo. Sui sentieri di Francesco (Il Mulino, Bologna 2021) – più ampia e più elaborata.

Partendo dalla “teologia del popolo”, un ramo (meno ideologico) della “teologia della liberazione”, papa Francesco conferisce alla categoria di “popolo” una valenza “culturale” i cui contorni riflettono le modalità con cui si tende a dare un senso alla vita e esprimono modalità di azione – usi, costumi, stili di vita, ecc. – che rappresentano altrettante linee-guida della propria condotta. Una cultura  aperta e plurale, che esprime la varietà delle persone e dei gruppi che la compongono, la quale, riconoscendo i limiti della propria visione del mondo, è pronta ad accogliere esperienze che vengono da altre tradizioni culturali (e religiose).

La concezione politica che ne deriva ruota dunque attorno a un’idea di “popolo” capace di rigenerare la democrazia, dando vita a quello che Prenna definisce un “umanesimo politico, che integri il sentimento di fratellanza ai diritti di libertà e ai doveri di uguaglianza” (Agire politicamente). La “cultura della mediazione”, che costituisce l’asse portante del cattolicesimo democratico, è qui messa in relazione con la dialettica delle “opposizioni polari”, che rendono trasparenti le contraddizioni della realtà e alimentano la “tensione politica”. Si fa così strada una nuova forma di popolarismo che, oltre a far perno su una concezione comunitaria della società, dove la cittadinanza si sviluppa nel segno della solidarietà e dell’”amore sociale” (Fratelli tutti), fa della composizione delle antinomie (mai del tutto raggiunta) lo stimolo alla valorizzazione della politica e insieme alla sua relativizzazione, dovuta alla consapevolezza della sua precarietà. Non possono essere proprio questi alcuni elementi preziosi per un ripensamento dell’identità del cattolicesimo democratico che ne renda più incisiva e feconda l’azione politica?

 

Giannino Piana       

 

2 Comments

  1. Ho letto l’articolo di Marco Damilano da voi opportunamente riportato. Vorrei soffermarmi su un tema che Damilano accenna: quello dell’aborto; in particolare sulle parole del teologo Giuseppe Lorizio (Avvenire 1 luglio): “C’è una sorta di sapienza umanistica dietro la legge 194. (…) Tuttavia il diritto che si è affermato, attraverso questa o analoghe legislazioni, non è stato il diritto all’aborto, ma il diritto alla tutela della salute, perché, se di vita si tratta, non è in gioco solo quella del nascituro, ma anche quella della donna, che non può essere costretta a pratiche clandestine, che ne mettano a rischio la sopravvivenza.”
    Confesso la mia ignoranza teologica, ma devo ammettere che fatico a vedere questa sapienza umanistica dietro la legge 194. E insieme provo un certo disorientamento, una momentanea confusione. Il fatto è che il 1 giugno 1997 la Democrazia cristiana per bocca di Mino Martinazzoli, autorevole esponente di un’altra “famiglia” , bresciana in questo caso, di cattolici democratici, declinava con nettezza l’invito a “non isolarsi” che proveniva da più parti politiche, soprattutto dal Pci.
    Mi sono riletto quell’intervento. E, parafrasando Manzoni, ho trovato e trovo vere quelle parole; stando così le cose, non posso allo stesso tempo condividere le altre parole, quelle da me riportate all’inizio.
    Credo che potrebbe risultare un esercizio non pleonastico la rivisitazione (a vostra discrezione) di quell’intervento, del quale mi permetto trasmettere, una sintesi.
    Daniele Venturelli

    Senato della Repubblica
    Seduta del 1 giugno 1997
    Intervento dell’on. MINO MARTINAZZOLI

    Il limite che sta di fronte a noi in tutta la sua drammaticità è appunto questo: che si è fondata la risoluzione del problema
    sull’autodeterminazione della donna. (…)
    Abbiamo cercato di impegnarci su una linea risolvente… Ma – ripeto – questo non può accadere finché tutta la legge si incentra (…) sul dato ineliminabile della indiscriminata determinazione della donna.
    Io faccio da lunghi anni un mestiere che mi ha portato qualche volta ad incontrare il volto più atroce dell’ipocrisia sociale. Mi è capitato di vedere sui tavoli degli obitori le macerie dell’aborto clandestino. Non sono insensibile a questa violenza, non la giustifico, ma mi pare di scorgere un’altra più diffusa violenza che la vostra legge asseconda, avalla, organizza. La violenza di un costume, di una perversione, di un cinismo che inducono a credere nella illimitata disponibilità da parte della donna del proprio corpo come in una sorta di riconquistata appropriazione e dunque nell’aborto come alla cifra di una libertà. Ma come distinguere, allora, se prima si abortiva perché così esigeva il fantasma della morale ed oggi così vuole il fantasma della libertà?
    Non vale qui richiamare quella ragione laica e pragmatica che è stata più volte evocata. Occorrerebbe chiedersi quali sono le ragioni di questa ragione, o se forse non sia vero che la ragione non serve, che la ragione bisogna servirla sul paragone di valori che sono perenni anche se devono coniugarsi sui paradigmi mutevoli delle diverse contingenze storiche.
    Questa è, alla fine, la nostra amarezza: che si ragiona qui di qualcosa che va assai al di là di un tentativo che sia insieme serio e realistico di affrontare in termini corretti questo problema. In verità si è travolti qui da una specificazione di qualcosa che è più ampio, che ci assilla, che appartiene al mondo nel quale oggi viviamo. Un mondo che – penso non vi siano dubbi – è di demenza, di violenza, di avvilimento delle migliori possibilità dell’individuo. (…)
    E poi, soggiacere all’idea che le storture intellettuali, che la violenza assurda, che le rivolte prive di senso, che le rivendicazioni idiote siano importanti solo perché occupano il campo dell’attualità significherebbe rassegnarsi a quella duplice superstizione che è alle origini del disordine attuale. La superstizione della storia e la superstizione della politica; l’idea, cioè, che l’uomo sia interamente padrone della sua storia e che la politica sia l’unico mezzo per la realizzazione integrale della sua natura morale. Unite e concomitanti come sono, queste superstizioni producono la falsa religione del nostro tempo; che non è una fede definita, ma piuttosto il credere soltanto a ciò che si può tradurre in atto, l’inseguire il mito di un’Azione Immediata e Risolutiva.
    Credo che questa sia la temperie che attraversiamo, intorno alla quale dovremmo interrogarci…
    Sta di fatto che se i tempi fossero meno stretti, se le stagioni fossero meno roventi, forse basterebbero ironia e pietà per ricondurre ad una traiettoria comprensibile questo dato di irrazionalità. Ma oggi (…) occorrono altri gesti. Servono parole taglienti. Serve, anche su questo tema specifico, il coraggio di una solitudine purché duri un’obbedienza alla ragione, ad un presentimento di verità. È per questo che non possiamo raccogliere l’esortazione a non volerci isolare, l’esortazione a non chiuderci in una gretta difesa delle questioni di principio. Non siamo mica qui a difendere passivamente la consistenza di una fede che pure ci appartiene, e non ci stringe la tentazione di una impossibile Vandea, non siamo indotti a dispettose chiusure. Chi conosce la nostra storia, chi non la dimentica, chi non la deforma, sa che non abbiamo mai immaginato di stare nel paese come dentro un recinto di chiusa e integrale parzialità. La nostra non è la storia dell’Italia cattolica; è semmai la storia dei cattolici in Italia, dei cattolici democratici nel rapporto, nel confronto con le altre forze politiche e ideali. Questa è la nostra storia e questo è il nostro destino, che non ci consente, appunto, abdicazioni o rese incondizionate. (…)
    Per conto nostro non temiamo questo momento di solitudine anche perché sappiamo che non siamo isolati, che le nostre radici sono salde, che la nostra presenza è ricca di solidarietà nel paese. Non temiamo questa nostra diversità, amiamo il nostro destino. (…) Profeti disarmati di profezie parlano come in un tramonto, quando anche gli uomini corti fanno le ombre lunghe. Ebbene, colleghi, a noi interessa piuttosto l’intensità della luce. Noi non pronunceremo mai l’elogio dell’ombra.”

  2. L’intervento di Martinazzoli evidenzia bene quanto sia difficile (soprattutto per un uomo) esprimersi sul dramma del conflitto tra la vita di una donna e la vita di quell’essere sconosciuto che cresce piano piano nel suo corpo.
    La legge 194/78 si fa carico di questo dramma e cerca di dare una risposta: aiutare le donne e gli uomini a scegliere responsabilmente il concepimento, definire le condizioni all’interno delle quali abortire non è più illegale, porre fine agli aborti clandestini.
    Si poteva fare meglio? Può darsi. Chi ha idee le esponga. Ma non credo che “fare meglio” possa significare tornare semplicemente a rendere illegale l’interruzione volontaria della gravidanza.
    Ai tempi del referendum sulla 194 ero una giovane di Azione Cattolica poco più che ventenne e mi impegnai moltissimo nella campagna “Sì alla vita” per l’abrogazione della legge.
    Poi mi sono sposata e ho avuto tre figli. Una gioia immensa, una gratitudine di cui il mio cuore trabocca ancora oggi che sono nonna. Ma solo allora ho capito quanto sconvolgente sia la maternità, quanto insensato sia imporla a chi non l’ha scelta o accettata.
    Applicare in toto la 194, questo si deve fare. Mettendo molte energie e risorse per educare alla procreazione responsabile e al valore della vita nascente. Prevenzione, prevenzione, prevenzione!

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