Sul filo sottile

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Il governo Letta è nato sotto il segno della necessità, ci è stato detto. E’ un governo che probabilmente era ormai dovuto, ma non è un governo qualunque. Poteva essere diverso. Sarebbe stato ancora possibile scegliere un governo con un profilo più basso, legato a un programma specifico e determinato. E’ invece stato scelto, con il determinante impulso del capo dello Stato, con l’assenso gaudioso di Berlusconi e con l’accettazione forzata del Pd un governo propriamente politico senza vincoli specifici. La sua composizione ha fatto parlare di un salto generazionale e ha evitato molti tra gli scogli possibili. Il suo programma proclamato è per ora un sapiente collage di posizioni, in cui si evita di prendere di petto molti problemi controversi. La navigazione è iniziata.

Occorre ragionare però sul suo orizzonte politico. Intanto e soprattutto, cosa pensare delle «larghe intese»? Si sono scomodati illustri precedenti nella storia della repubblica, come la «solidarietà nazionale» del decennio ’70. Mi pare un parallelo piuttosto forzato. In quel caso un governo comune tra avversari politici propriamente non si fece. Moro non lo voleva (lo avrebbe voluto Berlinguer, perché per il Pci era la rivincita sulla rottura del 1947, ma senza i numeri per farlo). Si fece piuttosto un accordo su una formula parlamentare di attesa (prima le astensioni, poi il Pci nella maggioranza su un programma concordato). La logica di Moro era appunto quella di utilizzare fino in fondo questo periodo di tregua per portare il Pci a sostenere definitivamente la democrazia (in un periodo di emergenza per la crisi economica e il terrorismo), e quindi poter mettere in grado il sistema di giungere a una legittimazione reciproca definitiva e (forse) all’ipotesi dell’alternanza.

Oggi si scambiano i passaggi fondamentali: il governo fatto assieme dovrebbe essere il presupposto di una «pacificazione» invocata, di un superamento delle delegittimazioni reciproche. Si sono cominciate a suonare molte sirene in questo senso. Vasto programma, diremmo a occhio e croce. Intendiamoci, non è che le intese tra diversi non si possano fare (e siano tutti inciuci deteriori): la nobile mediazione è l’arte somma della politica e si fa tra diversi, non tra uguali. Non è che svelenire il clima non sia positivo: non siamo tanto sfascisti da pensarlo. Non è che le istituzioni e le regole possano essere monopolio solo di una parte. Ma tutto ciò si deve verificare e sottoporre ad alcune condizioni, per non cadere nel rischio di andare molto oltre il dovuto. Proviamo sinteticamente a indicarne alcune.

La prima: per legittimarsi reciprocamente ci vuole la verità delle parole e dei fatti. Non si può chiedere al Pd di dimenticare il passato, quando Berlusconi ha governato allegramente screditando le istituzioni e l’immagine italiana nel mondo (fino a far sbellicare dalle risa l’Europa preoccupata e incerta). Cosa dire del presunto statista fallito che ha aumentato la spesa, tollerato l’evasione fiscale e lasciato l’austerità ai tecnici: non contento, è ritornato in campagna elettorale promettendo l’abolizione dell’Imu? Ci siamo dimenticati le leggi ad personam e l’uso disinvolto del potere a fini personali? Basta adesso il profilo prudente assunto negli ultimi due mesi per modificare l’esperienza di vent’anni? Difficile da sostenere. La legittimazione della destra italiana chiede di superare definitivamente il berlusconismo: gli elettori non vogliono? I politici non sono in grado? Prendiamone atto, prima di correre a disegnare scenari improbabili. Il macigno è ancora lì.

La seconda: la prima scelta per sostenere le larghe intese è concordare sulle regole in modo sobrio. Senza ributtare tutto all’aria a ogni pié sospinto. C’è stato tutto il tempo, sotto il governo Monti, per fare alcune riforme precise da moltissimi invocate (legge elettorale, bicameralismo, numero dei parlamentari). Chi ha impedito di farlo? Questa vicenda della convenzione per le riforme puzza invece di bruciato, come autorevolmente è stato sostenuto. Da una parte, invocare la «grande riforma» è sempre stato il modo migliore per menare il can per l’aia e in conclusione non fare niente, paralizzati dalle paure e dai veti reciproci. Dall’altra, ributtare per aria tutto (dalla forma di governo in giù) presenta il rischio di stravolgere gli assetti esistenti, con un progetto in cui si infarciscano provvedimenti disparati, lasciando poi anche di fronte all’eventuale referendum il cittadino incerto sul giudizio e facendo passare assieme provvedimenti popolari e provvedimenti potenzialmente ambigui. Sarebbe ben meglio presentare alcuni specifici progetti di riforma costituzionale (o di legge ordinaria) sui punti ormai maturi e procedere sollecitamente in parlamento.

La terza: governare assieme tra avversari politici che restano tali è possibile appunto ricordandosi ogni giorno che siamo nell’emergenza. E’ un’eccezione nella normalità parlamentare. Chiederebbe quindi di evitare vaghi e ampi disegni, che rischiano puntualmente di essere smentiti. Facile parlare di «crescita senza debito», «lavoro ma senza nuova spesa», «riduzione delle tasse, ma con i conti in ordine» e via di questo passo. Mi paiono palesi formule che coprono la contraddittorietà delle intenzioni delle parti contraenti l’accordo. La manfrina che Berlusconi ha avviato sull’Imu è il primo segnale dei problemi che possono nascere ogni giorno. Occorrerebbe forse piuttosto un programma sostanziale il più possibile definito e limitato, per poter in qualche modo gestire le condizioni dell’emergenza e riaffidare quindi sollecitamente ai cittadini lo scettro del decisore. Le prime settimane del governo saranno importanti per capire se ci sono queste priorità di fatto su cui il governo si qualificherà.

di Guido Formigoni

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  1. Capisco Guido Formigoni quando indica alcune condizioni per camminare sul filo sottile delle larghe intese del Governo Letta. Ma mi sembra che, da un lato, egli non poggi sufficientemente la sua riflessione sulla situazione reale in cui si trova il Paese, e, dall’altro, immagini che si possano fare delle intese, anche ben definite e a tempo, sulla base di un riconoscimento della “verità dei fatti” così come è vista da una delle parti in campo.
    Quanto al primo punto – la situazione del Paese -, mi sembra che i punti di fragilità e di carenza del sistema Italia, che tutti insieme concorrono a frenarne la ripresa, sono numerosi e interconnessi (dalla fiscalità alla pubblica amministrazione, dalla produttività alle regole del mercato del lavoro, dalla legge elettorale alla lentezza provocata dal bicameralismo perfetto, etc.), e questo obbliga il governo a mettere in agenda un “vasto programma”, come con comprensibile ironia lo chiama Guido. Del resto, ritengo che, in sostanza, su non poche questioni si possa convenire, tanto da destra quanto da sinistra, su cosa sia necessario (e urgente) fare; e il lavoro dei dieci saggi lo ha abbastanza dimostrato. Certo, non potrà essere questo governo a tratteggiare il percorso di costruzione di un progetto capace di ripensare globalmente il modello del capitalismo italiano, come pur sarebbe legittima aspirazione della sinistra.
    Quanto al secondo punto – la necessità di riconoscere “la verità dei fatti”, e dunque non perdere la memoria delle responsabilità politiche dei due decenni che abbiamo alla spalle -, mi sembra che se si vuole perseguire, ora, questa strada, questo significhi impedire che il governo agisca, perchè il chiarimento delle responsabilità passate (attribuendole, per altro, alla destra berlusconiana) non è compatibile con l’accordo con la stessa destra sulle cose da fare ora; è necessario non insultarsi se si deve camminare insieme per un tratto di strada.
    Credo, infine, che impegnarsi al meglio per quel che si può fare con questo governo, con uno spirito costruttivo e con intenti chiari, porterà alla sinistra gratitudine e fiducia da parte della popolazione. Questo varrà anche per la destra? Certo, in una misura più o meno simile. Ma questo significherà – se avverrà – che il pericolosissimo distacco tra la società e la politica si sarà almeno un po’ ridotto. E, a quel punto, ciascuna parte, andando alle elezioni, potrà giocare le sue carte (e per farlo la sinistra deve intanto riflettere su come modificare o superare il modello di capitalismo così come è strutturato in Italia, partecipando anche ad una riflessione a livello europeo).
    Se poi, invece, questo governo dovesse fallire per le intemperanze della destra, cosa ben possibile e visto che giustamente Enrico Letta ha detto che non guiderà il governo “ad ogni costo”, la sinistra avrà ancora più carte da giocare (anche se meno tempo per prepararsi a giocarle). Ma non me lo augurerei per nulla.

  2. Noto una straordinaria identità di giudizio con quanto scritto su: http://www.camaldoli.org/2013/05/quella-lenta-partenza-dellultimo-treno-fra-lacrime-e-sventolio-di-fazzoletti-di-bartolo-ciccardini; e su http://bartolociccardini.net/2013/05/07/la-pacificazione-della-disperatissima/.
    Questa tua esposizione la trovo condivisa da molte persone che avrebbero una parola importante da dire in politica, ma che sono assurdamente separate. L’Anniversario di Camaldoli (24-26 Luglio 1943) non sarebbe una magnifica occasione per registrare questa preziosa identità di giudizio?

  3. Condivido molto dell’analisi di Guido Formigoni: l’emergenza non può essere un colpo di spugna su identità diverse, anche perché le differenze di identità – sia pure tra “larghe intese” – sono emerse già durante il discorso sulla fiducia al Senato (Imu). Ma sul governo di scopo aveva appena fallito Bersani: allora per salvare i cavoli si rischia di perdere le capre (rapporto reale con la società)? Il discorso di insediamento aveva solenni toni politici, la realtà è una debolezza ma che per ora mi pare senza alternative. Penso che meriti più attenzione in questa analisi l’emergenza economica: un new deal italiano, misure innovative e tempestive, sono la vera ragione di un patto che definirei per necessità più economico che politico e che mette tra parentesi (ma non cancella!) le altre questioni, prettamente politiche. Spero, per il bene comune, che questi obiettivi producano i due giorni del governo in abbazia: misure anti crisi economica e uno stringere i tempi sulla legge elettorale. Sarebbe già molto. Pochi provvedimenti e obiettivi precisi.
    Poi, appunto: i cento giorni di Letta mi sembrano un buon traguardo per uscire da quel senso del vago sulle larghe intese. E dare un giudizio tutto politico.

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