Sono passati una decina di giorni dalla conclusione dal Summit delle ONU sulle questioni ecologiche e lo sviluppo sostenibile “Rio+20”, e sembrano confermate le prime impressioni, che parlano quasi unanimemente di un “fallimento”. O, perlomeno, di risultati al di sotto delle pur realistiche attese. Secondo il Ministro Clini, non sarebbe proprio tutto da buttare: “Rio+20 è stato un miracolo più che un successo, perché fino a due giorni prima della conclusione l’ipotesi più concreta era il fallimento, che avrebbe significato la chiusura a livello internazionale di una prospettiva di lavoro, di progresso, verso lo sviluppo sostenibile, cioè avrebbe significato che la stagione aperta nel ’92 si sarebbe chiusa nel 2012. Questo era atteso da molti, a partire dall’industria energetica mondiale che si augurava che da Rio+20 uscissero allentati i vincoli internazionali sulle politiche ambientali”. Invece, secondo Clini, la Green economy rappresenta ancora una chiava importante per lo sviluppo futuro: “La domanda crescente di energia, di acqua e cibo a livello globale mette sotto stress le economie nuove la possibilità di affrontare il futuro è legata ai sistemi che consentono di garantire la crescita senza consumare risorse naturali ed energetiche in maniera tale da compromettere il futuro. La chiave quindi è l’efficienza, e questa è la green economy”.
Per un’analisi critica del documento finale – “Il mondo che vogliamo” – (e per poterlo leggere in inglese o in francese) si veda l’articolo di Matteo Conci apparso sul sito della Ong Unimondo il 25 giugno:
http://www.unimondo.org/Notizie/Rio-20-un-fallimento-che-chiama-in-causa-tutti-135715
Per Legambiente, si è trattato di un vertice, a vent’anni dal primo summit sulla sostenibilità ambientale, caratterizzato “da una mancanza assoluta di leadership politica, che ha prodotto un documento debolissimo, che non contiene nessun tipo d’impegno concreto, in particolare per quanto riguarda l’aiuto finanziario ai paesi poveri per sostenere la loro transizione verso un’economia verde equa e solidale”. “Il carattere bilaterale e volontario delle risposte giunte sul fronte degli aiuti finanziari ai paesi in via di sviluppo per supportarli nella transizione verso una green economy equa e solidale rischia di compromettere l’approccio multilaterale e di penalizzare ulteriormente quelli più poveri – dice il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza -. L’unica nota positiva è la forte vitalità della società civile e la dinamicità di un pezzo non trascurabile delle imprese, che creano le condizioni per l’avvio di una forte mobilitazione verso un’economia verde equa e solidale, con cui combattere anche la povertà. Per il resto, il fallimento è triste anche se era prevedibile. Una partita giocata da un’Europa incapace di esercitare un potere reale, Usa distratti, economie emergenti dall’atteggiamento altalenante e il forte peso delle lobby del petrolio affinché nulla cambi”.
Sergio Marelli, in un’intervista a Radio Vaticana del 23 giugno, dice che un aspetto positivo di Rio 2012 è che “finalmente ci si è accorti che la crescita economica non può essere disgiunta dal rispetto dell’ambiente e soprattutto non può non fare i conti con la limitatezza delle risorse naturali. Tuttavia – ha aggiunto – c’è un grande rischio dietro l’angolo, ed è che sotto la ‘maschera’ dell’economia verde si passi oggi a mercificare i beni naturali, i beni comuni. La green economy va praticata e applicata alla luce del rispetto dei diritti umani fondamentali.
Anche ADISTA si è occupata del Vertice di Rio con una nota di Claudia Fanti: “Rio+20: la natura può attendere, il mercato no. Il fallimento annunciato della Conferenza Onu”. Quel che emerge da Rio è, scrive, “nient’altro che una carta di intenzioni, che, per esempio, sollecita «un’azione urgente» contro la produzione e il consumo insostenibili, ma senza indicare né il come né il quanto né il quando. O sottolinea la necessità di una diversificazione della matrice energetica, ma senza alcun riferimento a obiettivi reali di riduzione dei gas ad effetto serra (proprio nel momento in cui l’Agenzia internazionale per l’Energia riferisce che le emissioni mondiali di anidride carbonica nel 2011 sono aumentate del 3,2% rispetto all’anno precedente, mentre dovrebbero scendere almeno del 3% annuo, e diverse stazioni di ricerca hanno registrato nell’Artico una quantità di anidride carbonica superiore alle 400 parti per milione, ben oltre il limite massimo delle 350ppm fissato da un ampio numero di scienziati ed esperti)”. “Non meraviglia dunque – aggiunge – che l’unica vera proposta emersa dal Vertice sia quella della cosiddetta green economy, quell’economia verde che, secondo i movimenti popolari, di verde rischia di avere soltanto il nome, puntando piuttosto a garantire la continuità dell’attuale modello di produzione e consumo, piegando alle logiche del mercato tutto ciò che ancora resta della natura (v. Adista nn. 98/11 e 6, 8, 18 e 24/12). È il senso appunto della ‘Dichiarazione sul Capitale Naturale’ resa pubblica dalle grandi banche e dal settore finanziario in un incontro a latere del vertice, in cui, come denuncia Re:Common (l’associazione che ha preso il posto della Campagna per la riforma della Banca Mondiale), «gli istituti di credito pretendono una sorta di diritto indiscusso di fare business, che permetta l’accesso a ogni settore della natura e dell’ambiente, identificando e dando un costo a ogni ‘servizio’ e bene che può essere identificato in quegli ambiti». Al contrario, secondo Re:Common, «una vera Green Economy dovrebbe basarsi su presupposti diametralmente diversi, invertendo la tendenza attuale di mercificare e finanziarizzare ogni bene naturale» e «riconoscendo in modo molto chiaro i limiti del mondo degli affari nell’ambito delle altre sfere della vita», oltre che «rafforzando il controllo democratico sopra i beni comuni naturali del globo». «Invece di una Dichiarazione sul Capitale Naturale – ha dichiarato Antonio Tricarico -, avremmo bisogno di una Dichiarazione sulla Natura Senza Capitale»”.
Infine ADISTA dà conto delle due diverse letture che, di Rio 2012, hanno dato la chiesa “istituzionale” (l’arcivescovo di São Paulo Odilo Scherer, capo della delegazione della Santa Sede alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile), una lettura positiva, e la chiesa “di base” (Leonardo Boff e altri), invece negativa. Vedi in:
http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=51831