Non è un caso che le prossime elezioni abbiano l’Europa al centro, dopo un anno di governo «tecnico» segnato dal continuo tormentone su cosa ci chiedesse l’Europa e su cosa potessimo fare per l’Europa. E dopo che il governo Berlusconi era caduto per aver perso la maggioranza data la pessima performance proprio sugli effetti della crisi europea del debito sovrano. Oggi è quindi normale che in campagna elettorale ci si divida tra chi è per l’Europa e chi no. Ci sono infatti molte forze che hanno fatto della polemica antieuropea il proprio messaggio (su tutti gli angoli dell’offerta politica). Populismi, dicono asciutti i detrattori. I cattolici democratici, dal canto loro, hanno l’Europa nel loro Dna.
Ma siamo sicuri che basti dirsi «per l’Europa»? A mio parere esiste un problema di «quale Europa». Segnalo telegraficamente alcuni aspetti da approfondire e da discutere in campagna elettorale (lo riprendiamo sul numero in uscita di «Appunti di cultura e politica»). Il primo: vogliamo parlare di un progetto per l’Europa? Esiste qualcuno che sia in grado di spiegare ai cittadini che l’Europa che vogliamo non è solo un occhiuto guardiano dei conti? Si dovrebbe saper raccontare un realistico e praticabile progetto inclusivo di interessi e prospettive diverse. Perché l’Europa purtroppo non è un dato scontato, non esistendo una identità europea di tipo tradizionale (lingua, cultura, storia). Non basta parlare del classico sogno degli Stati Uniti d’Europa: resta un mito, se non lo si sviluppa in un discorso credibile. Una classe dirigente europea questo dovrebbe fare.