Tarcisio Benedetti e Alborada: quelle decisive rotative di libertà

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Quando l’amicizia e la solidarietà col popolo cileno, schiacciato dalla violenza di Pinochet, spinse i lavoratori italiani  e i loro sindacati a un impegno di solidarietà forte e appassionato. Un libro di Tarcisio Benedetti, prima seminarista, poi operaio tipografo e marito, che aiutò i cileni a riprendere la parola

 

“La storia è nostra e la fanno i popoli! Perché è troppo vero, è troppo bello, è troppo giusto e opportuno”.

E’ l’incipit pieno di speranza dell’ultimo, drammatico discorso di Salvador Allende, pronunciato poco prima di perdere la vita, proprio per il suo popolo.

Il testo del discorso del presidente cileno è uno dei preziosi documenti contenuti in “Alborada. La tipografia della libertà”, lo splendido libro di Tarcisio Benedetti, pubblicato alla fine del 2020, da Edizioni Lavoro (pagg. 142, euro 15,00).

Un canto del cigno dopo una vita piena, raccontata dal tipografo dell’Arnoldo Mondadori a Verona, delegato sindacale della Cisl, protagonista di una vicenda, individuale e collettiva, stupenda e ancora poco conosciuta, pubblicata, purtroppo, poco mesi prima dell’improvvisa scomparsa dell’autore, avvenuta alla fine di marzo di quest’anno.

Alborada è, in realtà, molte cose. E’ una storia familiare e personale che, non a caso, non inizia in Cile, sulle Ande, ma intorno al 1920, nelle Prealpi venete, sui monti Lessini, quando Massimo, il nonno di Tarcisio Benedetti compra una piccola porzione di una casa signorile, riservata ai contadini.

Prosegue, nei primi anni Sessanta, con la storia di Tarcisio e la sua scelta di entrare in seminario, dividendosi tra l’ambiente diocesano e il seminario di Nostra Signora di Guadalupe, volto a preparare i futuri sacerdoti che, da Verona, si sarebbero trasferiti in America Latina.

E’ la storia del Concilio Vaticano II e di un ragazzo che si interroga sull’esistenza di Dio, non si accontenta di comode risposte, incontra una teologia che si interessa delle condizioni sociali delle persone, affronta la questione del latifondo e lo scandalo dei campesinos seminalfabeti, sfruttati.

E’ la storia dell’incontro di questo ed altri ragazzi che, a Verona, conoscono, da lontano, Paulo Freire, Helder Camara, don Pedro Casaldaliga e della scelta morale, e per alcuni concreta, totalizzante, spiazzante, di sconfinare, incontrare, abbracciare altri mondi.

E’ la storia, infine, di una coscienza conquistata e della voglia ostinata ed entusiasta di cambiare le cose, iniziando dalla propria quotidianità, a partire dalla scelta convinta e coraggiosa di sostenere l’obiezione di coscienza al servizio militare, anche quando questa era considerata reato e tradimento. Una scelta, quella di Tarcisio e degli altri ragazzi e ragazze di Verona di comprendere, testimoniare, con Don Milani, che “l’obbedienza non è più una virtù”.

Alborada inizia da qui, prima di Alborada. Ci racconta di una storia (anche qui individuale e collettiva) come campo aperto di possibilità. Di un giovane, come Tarcisio Benedetti, che inizia a lavorare alla Mondadori, dopo aver lasciato il seminario, e che, cinque anni dopo, non si tira indietro rispetto alla proposta di trasferirsi in Cile, per insegnare in una scuola professionale.

Ma la storia ha i suoi tornanti. E mentre divoriamo le pagine del libro ci troviamo proprio in un instante che ne precede uno di quelli decisivi: l’agosto del 1973, quando matura la proposta del trasferimento, meno di un mese prima del golpe di Pinochet.

In questa storia c’è anche l’amore, un Amore con la A maiuscola: quello tra Tarcisio e Alba (cui è dedicato il libro) e del loro fulmineo e duraturo matrimonio, proprio un attimo prima di partire da Genova per Valparaiso, verso la fine del mondo…

Tarcisio e Alba si trasferiscono in Cile, a Curanilahue, nel giugno 1974, in un contesto completamente capovolto rispetto a quello che avevano sognato: non c’è più il grande e plurale esperimento di socialismo e democrazia guidato da Salvador Allende, ma la feroce dittatura fascista dei militari, guidati da Augusto Pinochet.

Quattro anni: una scuola professionale nell’estrema periferia, un “fare del bene” in un contesto privo di libertà, ma in cui è comunque possibile operare per migliorare le condizioni di vita delle persone.

Ma sono anni che si concludono con una fuga rocambolesca, nel 1978, quando le condizioni, non solo per Tarcisio e Alba, ma per un intero popolo, a differenza di loro e degli esuli purtroppo imprigionato, non permettono di restare nemmeno un giorno di più, pena la vita.

Alborada prosegue negli anni, torna a Verona, travalica gli anni Settanta, si riveste di nostalgia e di amore per una terra lasciata, ma non abbandonata, mai smessa di amare.

Si riveste dell’impegno dell’Italia e in particolare del sindacato italiano, tutto, nel sostenere la democrazia politica e sindacale nel Cile violato, ferito, insanguinato dalla dittatura e dai “Chicago Boys” neo liberisti, cui Pinochet aveva delegato la politica economica, estremizzando le già dure ricette di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Un sindacato italiano che, come ben scrive Alberto Cuevas nell’introduzione al volume, si divide profondamente a metà degli anni ottanta con lo scontro sulla scala mobile, ma che continua, a Roma come nei territori, a mobilitarsi unitariamente per la questione cilena, rappresentando il paese latino americano addirittura un ponte di dialogo per le organizzazioni sindacali italiane, tra loro lacerate.

In questo contesto, grazie anche alle nascenti Ong promosse dai sindacati, in primis l’Iscos Cisl, si sviluppano attività di cooperazione socio-economica, sindacale, comunicativa, politica per contribuire prima a portare fuori il paese dalla dittatura e poi accompagnarlo nella fragile, complessa e lunga tradizione verso la democrazia.

Ed è qui che arriva una vicenda stupenda, di quelle che cambiano in meglio e di molto i tornanti della storia: quella di Alborada, in questo caso, non il libro di Benedetti, ma il progetto, la tipografia da cui il volume prende il nome.

Il progetto, coordinato dall’Iscos e guidato da Tarcisio Benedetti, tornato con la famiglia in Cile, è, infatti, quello di avviare nel 1987, una grande tipografia per la stampa dei giornali e delle riviste di opposizione, che finalmente poterono tornare ad essere pubblicate nell’ultimo anno della dittatura, pur scontando boicottaggi e sabotaggi di ogni genere.

Un progetto che accompagna la grande mobilitazione della campagna per il NO al proseguimento della dittatura militare, nell’ambito di una lotta politica coraggiosa, quasi temeraria, svoltasi nel contesto di un plebiscito realmente e sorprendentemente aperto (e al cui positivo esito contribuì l’importante, anche se controverso, viaggio di Giovanni Paolo II in Cile nel 1987). Un’occasione elettorale non completamente scontata, ma certo di facciata come quella realizzatasi dieci anni prima, sempre voluta da Augusto Pinochet.

E’ la storia di un vecchio capannone, di una rotativa che stampa senza sosta quotidiani, settimanali, (in particolare “Fortin Mapocho” e “La Epoca”), volantini, tazebao, e che si affianca al vecchio macchinario proveniente dalla Germania Est, acquistato da Pablo Neruda (con i soldi del premio Nobel per la letteratura) e salvato dalla distruzione voluta dal regime.

Il racconto è appassionante: deve molto alla straordinarietà dell’impegno di Tarcisio, ma anche di un team di operai e militanti cileni sempre più ampio, che riesce in un appassionante miracolo. Il tutto all’interno dell’innovativa, dirompente campagna per il No, ben illustrata anche nel bel film di alcuni anni fa: “No! I colori dell’arcobaleno”, citato anche nel libro di Benedetti.

Due anni dopo, Alborada accompagnò anche la vittoria di Patricio Aylwin, nel dicembre del 1989: il primo presidente eletto democraticamente dopo Salvador Allende, che sconfisse il candidato espressione degli ambienti militari e della dittatura.

Benedetti ci racconta delle visite di Franco Marini, Antonio Pizzinato, Giorgio Benvenuto, Bruno Trentin, alla tipografia Alborada, ma anche dell’ampia mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici italiane per questa coraggiosa scommessa di libertà.

Una scommessa che si pensò, ad un certo punto, di esportare in Sudafrica, per supportare il complesso e bellissimo percorso di transizione dal regime dell’apartheid che portò Nelson Mandela alla presidenza di un paese inaspettatamente unito.

Il libro ci lascia certamente nostalgia, in particolare di Tarcisio Benedetti, che, per uno scherzo del destino, ci ha lasciato improvvisamente, proprio quando la sua voce e la sua testimonianza avrebbero potuto dare carne e parole ad Alborada in tanti incontri, purtroppo per ora solo digitali, organizzati durante la pandemia.

Ma ci lascia anche l’allegria di una vita spesa bene, delle parole, prima sussurrate, poi recitate, cantate della campagna per il No: “Cile, l’allegria sta arrivando / Perché sento che è l’ora / di ottenere la libertà / E’ finito il tempo degli abusi / E’ tempo di cambiar / perché basta la miseria / Andiamo a dire no!”

Un No che è soprattutto un Sì condiviso, quello di Tarcisio, dei lavoratori cileni e italiani uniti e solidali, e che ci riguarda, anche oggi, a trent’anni di distanza.

Come scrive papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti: “Se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese”.

Questo, a partire dai monti Lessini e dal Veneto, regione del mondo, ci hanno insegnato Tarcisio Benedetti e quel soffio impetuoso di libertà, che è arrivato fino al Cile di Alborada e ai sogni di rinascita di un intero popolo.

 

Francesco Lauria

 

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