L’attuale “mercato” della politica, purtroppo ispirato dal principio proporzionalista e mai così inflazionato di parole, di proclami e di offerte, costringe ad alcune considerazioni utili a costruire una sorta di piccola cassetta degli attrezzi che aiuti a comprendere la effettiva portata dell’imminente appuntamento elettorale.
Si dice, a ragione, che le idee camminino con le gambe degli uomini. Il pensiero senza l’azione è condannato alla inconcludenza. Può accadere, però, che l’azione messa in campo dagli uomini si riveli inefficace se non addirittura sbagliata. In tal caso è possibile che il pensiero che l’ha ispirata resti indenne? O il fallimento dell’azione porta con sé necessariamente anche il fallimento del pensiero? Fuori metafora, l’idea di un riformismo capace di vincere le sfide di questo tempo senza perdere la sua “anima valoriale”, coincide con l’azione politica promossa in questi ultimi anni da Renzi fino ad appiattirsi ad essa e seguirne le sorti? La verità di un idea, di una ispirazione, trascende di gran lunga la capacità e la intelligenza di chi cerca di tradurla in azione, e tuttavia, quand’anche trovasse una adeguata traduzione storica, sarà sempre più avanti in virtù di quel principio di “non appagamento” che don Milani ha splendidamente esplicitato nella famosa lettera a Pipetta. Prima ancora di Renzi, è il PD il nome nuovo del riformismo italiano: esso nasce, infatti, come partito nuovo al crocevia dei diversi riformismi che hanno animato la storia politica della Repubblica. L’unità dei riformisti ne è il suo fondamento. E’ davvero paradossale che Bersani & C, dopo aver studiato sul campo il modello italiano dei distretti industriali nel famoso “Viaggio nell’economia italiana” (Donzelli, 2004), scommettendo sulla sua attualità e sulla voglia di fare impresa, cui fece seguito la realizzazione di un ricco programma di liberalizzazioni (le famose lenzuolate), tornino a sostenere idee e linguaggi tipici dell’età fordista quando capitale e lavoro erano su fronti contrapposti. Perchè questa improvvisa chiusura al nuovo che, con tutte le sue contraddizioni, inesorabilmente si afferma e che chiede capacità di lettura e possibilmente di governo? Perché questa paura di perdere l’anima se solo si abbandonano alcune parole d’ordine come lavoro garantito sempre e comunque, possibilmente sotto casa e per un periodo non troppo lungo, nonostante l’allungamento delle aspettative di vita? Nessuno che abbia un minimo di buon senso considera la precarietà la condizione ottimale per seri programmi di vita e tuttavia essa, per tutti penso, rappresenta quasi naturaliter un primo passo verso la costruzione di più stabili prospettive di lavoro: un lavoro buono deve essere l’obiettivo di un percorso, più o meno articolato, fatto tuttavia di progressiva acquisizione di diritti e doveri. Il passaggio dalla cultura del lavoro alla cultura dei lavori, di cui il Job acts insieme a Industria 4.0 sono le espressioni più significative anche se ancora migliorabili, ha rappresentato una delle scelte discriminanti il riformismo del PD. Perché dimenticare, poi, che in molti territori la diffusione delle giovani start-up e la valorizzazione anche imprenditoriale dei beni comuni sono i risultati delle politiche innovative dello sviluppo locale promosse grazie alla cultura riformista dei democratici?
Ho l’impressione che le risposte che vengono date a queste domande si posizionino, in realtà, su un livello molto più basso e prosaico di quello valoriale: esse tradiscono una forte dose di opportunismo e di arroganza. L’arroganza di chi rinnega le regole che sono alla base della comunità politica di appartenenza; l’opportunismo di chi, sfruttando il ritorno al proporzionale, ritiene più giusto affossare i compagni di strada di un tempo anzicchè il nemico di sempre: il populismo in tutte le sue varianti di destra e di sinistra. Di più, tradiscono un livore che finisce per offuscare l’intelligenza degli avvenimenti: come non accorgersi che la vera posta in gioco non è il piccolo recinto all’interno del quale esercitare ricatti e rivalse, ripristinare carriere politiche ormai desuete, declinare libertà e eguaglianza mediante una grammatica, quella tipica della socialdemocrazia del Novecento, che di fronte alla nuove sfide rivela tutta la sua inadeguatezza. La vera posta in gioco non è il provincialismo delle soluzioni e delle aspirazioni. Al contrario, come molti osservatori denunciano, in particolare Sergio Fabbrini, è la legittimazione o meno a concorrere al processo di costruzione delle nuove regole dell’Unione Europea. Quelle nuove regole della governance europea che consentiranno di riscrivere tra l’altro le nuove politiche di sviluppo e di welfeare. Definire la propria identità politica muovendo dal proprio particulare, che di fatto coincide con l’interesse di fortificare il proprio piccolo accampamento (da riserva indiana) in cui si vuole abitare, quando nello scenario europeo si consolida sempre più la volontà da parte dei maggiori Paesi di ricominciare il processo politico di unificazione secondo programmi più ambiziosi, significa semplicemente rifiutare di confrontarsi con le sfide vere e farsi risucchiare dalla politica politicante. Significa condannarsi alla irrilevanza. E per la politica vera, quella capace di dare risposte, le più condivise, ai problemi concreti della comunità, rappresenta la più grande sconfitta.
Ammetto che affermare questo punto di vista e discernerne le implicazioni pratiche, è una impresa difficile. Difficile perché ragionare della collocazione dell’Italia in Europa in un ruolo di protagonista del processo di rifondazione e non in quello di semplice gregario è un lusso. Le disillusioni, le paure, il rancore, la stanchezza sono sentimenti diffusi nelle nostre comunità, specialmente nella vasta area di popolo che non ne può più delle parole vuote della politica e che perciò si astiene da ogni forma di partecipazione. Attenzione, questo popolo sembra dire che con l’Europa non si mangia, che non è più tempo di coltivare i sogni, prigionieri come si è di concreti e quotidiani bisogni. Vincere questi sentimenti è la responsabilità della Politica. Una responsabilità che si esercita non con parole suadenti ma terribilmente false, bensì con linguaggi di verità e stili di vita sobri e umili. Ma non basta. La soluzione non sta soltanto negli abiti virtuosi della Politica. Occorrerebbero modalità nuove di presenza territoriale. Forse è ancora attuale l’intuizione di Adriano Olivetti: chi intende svolgere una responsabilità politica dovrebbe assumere i tratti di un vero e proprio animatore di comunità, una sorta di agente di sviluppo capace di riannodare le relazioni comunitarie ( le reti corte) e di ripristinare il legame con le Istituzioni (le reti lunghe) intorno alle concrete domande di sviluppo del territorio. Non penso che di fronte ad un voto di opinione ormai largamente attratto dalle demagogie populiste, la soluzione, come qualcuno cinicamente propone (Massimo Adinolfi Il Mattino 24 gennaio), sia quella di mettere in campo i cacicchi di varie risme esperti nell’attrarre il voto clientelare, immaginando così di fornire un argine al possibile smottamento verso il voto antisistema. Mi pare un ragionamento speculare a quello di chi dice “meglio un sistema illegale che però assicura lavoro, che uno legale ma incapace di produrre benessere”. Sono tanti i pifferai magici che allignano le piazze mediatiche e che si guardano bene dall’abitare le periferie delle nostre città. Quanti sono in grado di non lasciarsi ammagliare dai cantori di promesse mirabolanti? Il punto di vista europeo, squarciando i veli del tempio, ci restituisce una coscienza politica nuda che facilmente si riveste di populismo e di ideologismo. Colpa di tutti, nessuno escluso. Se anche non ci fosse più tempo per correre ai ripari, la sfida, indicata dal cardinale Bassetti, di “ricucire” i legami della comunità, di tornare a guardare “dal basso” gli invisibili, resta la vera fondamentale sfida di una Politica dal volto umano.
Luigi Lochi
Lecce, 24 gennaio 2018