Gianni Cuperlo, intervistato il 14 marzo su Libero, ha affermato che le riforme costituzionali in preparazione profilano “un sistema presidenzialista senza i contrappesi del vero presidenzialismo”, con “un Senato di nominati dagli enti locali e un Camera di nominati dai partiti”, e conclude dicendo che, “se l’Italicum non cambia, esiste il rischio scissione nel Pd” (“La scissione nel Pd? Un rischio“). A Cuperlo ha risposto Giorgio Tonini sul sito Landino.it, osservando che le riforme proposte dal governo Renzi, sia sul Senato sia sulla legge elettorale, ricalcano il sistema tedesco, che nessuno ha mai accusato di essere antidemocratico; e che parlare di scissione per questo è poco comprensibile (qui). Nino Labate ha inviato, a sua volta, a Tonini il commento che qui pubblichiamo.
Caro Giorgio, condivido le fondamenta delle tue osservazioni a Cuperlo: per quello che osservo, la scissione non la vedo neanche io, e sarebbe peraltro un suicidio; la tesi di antidemocrazia è poi sin troppo provocatoria. Chiarito ciò, è però necessario spaziare di più e andare oltre.
Il problema non è tanto nell’ingegneria elettorale e costituzionale su cui, mi pare, si dirotti sempre il dibattito: anche se non bisogna mai dimenticare che le tecniche non sono mai neutrali! E non è neanche nella c.d. “razionalizzazione del Parlamento”: bruttissima parola che evoca “tanta razionalità… ma poca realtà”. E cioè molto “monismo” nel governo della cosa pubblica, e poco rispetto di un sano pluralismo, quest’ultimo identificato erroneamente col parlamentarismo deteriore, se non con l’ostruzionismo. Un pluralismo che, a bene vedere, riflette però la vera struttura sociale, ed è l’autentica realtà culturale e politica del Paese, ma che temo si stia invece sacrificando sull’altare di un maggioritario trasformato in ideologia. E di una governabilità in real-time: come se si dovesse dichiarare una guerra al giorno, o far fronte ad un terremoto o maremoto imprevisti, carestie, pestilenze, calate di barbari, ecc.
Arrivo ai punti caldi. Avverto dialogando con alcuni amici, che l’elettorato Pd non sia tanto scandalizzato della fine del bicameralismo perfetto. Io, per esempio, mi sarei solo aspettato l’elezione diretta, e la presenza di uomini di cultura e studiosi nominati dal Presidente della Repubblica, previsti nella prima bozza. Ma se non ci sono non mi impicco! Anche sull’Italicum sono convinto che il partito (il partito, bada bene, nel suo insieme, col suo segretario, e non il segretario da solo!) abbia il dovere-diritto di esercitare la sua legittima funzione nella selezione della (sua) classe politica. Valutando competenze, moralità, esperienze, praticando deleghe per scelte decentrate. E soprattutto assumersi responsabilità nel vaglio dei meriti del personale politico, senza affidarsi alla retorica delle primarie e alle “magnifiche sorti” del web. Ritengo peraltro che solo in questo modo il partito, con la sua organizzazione territoriale, con la sua dirigenza nazionale e locale, con i suoi valori e programmi, possa recuperare identità (e dignità) nell’offrirsi sul mercato politico senza pilatescamente lavarsi le mani mettendosi nelle mani dei primaristi e dei sondaggiologi. Tutto questo però ad una condizione: che è quella di avere fiducia nella democrazia rappresentativa e nel Parlamento che la interpreta. E di non tifare fra le righe, come a me sembra, per un Presidente forte e per la “democrazia del pubblico”. Quest’ultima , necessariamente leaderistica, che mette in rapporto diretto, grazie ai media vecchi e nuovi, il leader con gli elettori. Senza corpi intermedi, e senza il dissenso e la dialettica arricchenti, con le mediazioni al minor male che ne conseguono. E’ stato un filosofo tedesco filonazista a teorizzare che il decisionismo è una virtù. Specie in tempi non normali e di “eccezione”. Ed è stato questo pensatore a sostenere che la politica è sempre uno scontro tra nemico e amico con un “sovrano” al centro che decide. Senza alcuna possibilità di incontro e dialogo. Ma con i tragici risultati storici che conosciamo!
Le cose a questo punto si complicano per due ordini di motivi.
Il primo è quando si insiste oltre ogni misura sulle esperienze straniere supponendo, attraverso un uso troppo positivista della politica comparata, una sorta di omologazione anche dal punto di vista antropologico. In altre occasioni l’ho definito il “complesso dello straniero”! E ricordo che Romano Prodi a proposito della Terza Via di Tony Blair, avanzò analoghe preoccupazioni. Che gli italiani nonostante l’Euro siano (un poco?) diversi dai tedeschi lo dobbiamo mettere nel conto. Che poi i napoletani e i calabresi vanno distinti dai renani e dagli abitanti della Bassa Sassonia è un dato di elementare antropologia culturale. Diversità e distinzioni che tuttavia acquistano una loro valenza significativa quando si scaricano , ahimè e come ben sappiamo, sul libero voto: capilista bloccati, collegi uninominali, preferenze, primarie, o scelte partitiche che si voglia. Quale è il mio modesto parere? E’ quello che solo con molta cautela si possono proporre modelli eguali per contesti storici, economici, sociali e culturali differenti. In attesa di una Europa politica integrata, anche culturalmente, si potrebbero suggerire solo esperienze. Ma niente di più.
Il secondo è che nel praticare e difendere le sicuramente troppo attese riforme, si incorre in un errore cognitivo. Che è quello che i cambiamenti si pesano con la propria testa e con i propri valori e attese sulla persona, sul bene comune, sulla giustizia sociale, sulla pratica della democrazia, sulla idea di etica, sui legami sociali e umani, sull’illegalità, sul gattopardismo, sulla corruzione, ecc. Ma soprattutto si misurano avendo come metro il proprio contesto sociale e storico. I propri “mondi vitali” con le proprie esperienze comunitarie di gruppo, principi, valori ecc. che diamo per scontati. Se solo facessimo però lo sforzo di immaginare, mettendo fra parentesi la nostra realtà e il nostro presente, il governo del combinato disposto Italicum-Senato nelle mani di un probabile Grillo o Salvini premier, o del pur bravo Landini che ha scippato ai cattolici la “Questione Sociale”, ma anche di un futuro sosia di Berlusconi, la prospettiva delle nostre valutazioni sulle riforme potrebbe cambiare. E si cercherebbero forse quei contrappesi e bilanciamenti più robusti di quelli che circolano, pensando a cosa potrebbe succedere un domani. Deriva autoritaria? Io non ci credo e non ci ho mai creduto. Così come però non ho mai creduto al leader senza squadra e senza collegialità, su cui, grazie a Bergoglio, una istituzione millenaria come la Chiesa sta rivisitando il suo centralismo.
Aggiungo infine che Renzi col suo scoutismo, indubbiamente un poco guascone, mette paura solo ai timidi. Non ai democratici coraggiosi, non essendo certamente l’incarnazione della deriva antidemocratica che si descrive.
Tutto allora sta ad intenderci in quale misura la riserva di Cuperlo sulle nomine coi capilista bloccati sia fisiologica o patologica. E soprattutto quali timori di “rottamazioni” si nascondono! E se sono o meno giustificati.
Nino Labate