“In papa Francesco quello che di definitorio sembra assente riemerge – e perfino con maggiore forza radicale – nel dato di esperienza. Non sarà che, sotto uno stile discorsivo, stia in realtà un non esibito, ma saldo, fondamento antropologico e teologico di nuovo tipo, più che una debolezza teoretica?”.
Questo l’interrogativo che l’autore, professore emerito di Letteratura cristiana antica all’Università Cattolica, si pone nelle conclusioni dell’editoriale dedicato all’enciclica “Fratelli tutti” e pubblicato nell’ultimo numero di “Appunti di cultura e politica”, rivista bimestrale dell’associazione “Città dell’uomo”, edita dalla Morcelliana (qui il sommario).
Lo riproduciamo qui integralmente per concessione dell’autore.
di Luigi Franco Pizzolato
La nuova enciclica di papa Francesco Fratres omnes (Fratelli tutti) riprende, in un quadro più spiccatamente antropologico, la visione cosmologica della Laudato si. Anche qui il legame che unisce è la dipendenza creaturale dell’umanità da Dio, che, in quanto Padre, rende fratelli e sorelle le Sue creature. Da secoli è in corso una frattura all’interno dell’unità, che qui si ristabilisce, tra Dio, esseri umani, mondo. La concezione medievale tendeva più spesso a tenere uniti, sotto una visione schiettamente creazionistica, gli esseri umani e il mondo, collocandoli, tremebondi, sotto il dominio di Dio, loro creatore e signore e giudice. Per vero, già Francesco d’Assisi aveva declinato quell’unità di tutti gli esseri creati come fraternità e sororità, nella dipendenza da un unico principio che era Padre, donde scaturiva legittimamente il dirsi figli e fratelli.
Con l’Umanesimo aveva avuto inizio una svolta antropologica, che era consistita in una divinizzazione dell’essere umano (si pensi al de hominis dignitate di Pico della Mirandola), che veniva separato dalla natura inferiore e collocato sopra di essa, facendolo diventare dominus e una specie di Dio del creato. Quel principio del primato dell’essere umano aveva agito a lungo, potenziandosi grazie alle scoperte scientifiche accelerate, fino a rendere il mondo mancipio dell’uomo, e fino a rendere poi l’uomo stesso indipendente da Dio e padrone assoluto di sé, oltre che del mondo. Questo processo di secolarizzazione dell’essere umano, producendo un distacco suo e della realtà creata dalla trascendenza divina, faceva perdere progressivamente il senso della dipendenza creaturale da Dio e inseriva, nello sviluppo che da Bruno conduce a Spinoza, mondo e uomo dentro l’ambito di una Natura divinizzata, dove le realtà si accomunano in quanto partecipi di questo principio, che però non ha il volto di un Padre, ma di un’entità astratta: Deus sive natura. Nell’assenza di un padre, la fraternità tra esseri o scompariva (non si è figli, ma prodotti tutti di un principio impersonale) o diventava una pura metafora.
Papa Francesco riprende l’antico sentiero interrotto, ma non by-passando i nuovi per corsi intrapresi sul rapporto uomo-mondo e uomo-uomo dai tempi moderni, bensì proponendo, con il suo stile, una visione che si fonda sulle risultanze esperienziali più che sulle deduzioni teoretiche. Egli ama narrare esperienze e, per la loro fondazione teoretica, di cui rispetta il valore ma che non predilige, lascia volentieri la parola ad altri, magari ai suoi predecessori (nn. 273-274). E vi si mette al riparo.
La Laudato si’ tornava a proporre la comunanza dell’essere umano con la natura, considerando, francescanamente, fratelli e sorelle le realtà del mondo, sotto lo sguardo di Dio, Padre di ogni cosa. Questo dato fonda un comportamento fraterno verso il mondo, che diventa consapevole e responsabile nell’essere umano, il quale, da custode e coltivatore, accompagna il fratello mondo a realizzare quella che per tutti è la volontà di Dio Padre (è quella che un tempo si chiamava la consecratio mundi). La Fratres omnes riprende quel discorso declinandolo propriamente nel rapporto tra uomini, posto sotto lo stesso sguardo. Ma papa Francesco è consapevole che la scelta di fraternità oggi, laddove non sia giudicata ininfluente (e, anzi, talora ingenua e dannosa: per l’economia, per lo sfruttamento delle risorse, per lo spirito di potenza… ), corre lungo questa alternativa: fraternità naturale o creaturale? Siamo, cioè, fratelli e sorelle in senso metaforico, in quanto derivanti dalla Natura, o fratelli e sorelle in senso proprio, in quanto derivanti da uno stesso Padre? La nostra religione – si sa – invita alla seconda, tanto da chiamare Dio non solo Padre, ma addirittura abbà, “papà” (Rm 8,15), con un colore perfino affettivo, tanto estraneo al cerebrale Paolo.
La scelta di papa Francesco non può che essere quella creaturale, cioè della fraternità basata sul concetto di creazione di Dio che affratella gli esseri e che all’essere umano, fatto a sua immagine, chiede imitazione, in quanto e nel senso che è chiamato a esercitare il suo principatus sulle realtà al modo del Padre. Ma non rifiuta di prendere in considerazione un aspetto di comunanza solo naturale, che si prende cura dell’uomo e del mondo non per un’identitaria ispirazione religiosa, bensì per un senso di prossimità naturale, per cui «siamo tutti sulla stessa barca» (n. 30). Come ha fatto il buon Samaritano, superiore perfino all’atteggiamento dei religiosi indifferenti. Anzi, proprio dall’icona del buon Samaritano, con i suoi gesti tutti umani e non motivati religiosamente, parte l’enciclica. E, simmetricamente, si chiude con la spiritualità nazarena di Charles de Foucauld, che contrae con l’uomo un rapporto d’amore non religiosamente esibito, ma vissuto come dialogo e donazione che precedono lo stesso annuncio kerygmatico. AI modo in cui, nella vita, cosiddetta nascosta, di Gesù nei trent’anni di Nazaret, Egli non ha predicato né declinato generalità religiose, ma è vissuto da fratello e concittadino tra uomini. In questa fraternità si vive la fede, non per la fede, come diceva Hermann Broch.
Papa Francesco sembra quasi più preoccupato di trovare il senso cristiano di questa umanità che di fondare una umanità cristiana. Anche se «la fede colma di motiva zioni inaudite il riconoscimento dell’altro» (n. 85). Ma viene da pensare che il nostro Dio è un grande e inaudito Dio, se è vero che gli piace – o almeno gli basta – giudicare l’uomo a partire più dai gesti di prossimità verso l’uomo-fratello che non verso di Sé. Non c’è solo una sovrana estraneità rispetto alla tradizionale «invidia degli dei» (phth6nos theon), ma una implicazione per spogliazione di Sé, quando Egli indica agli esseri umani l’identità tra amore di Sé e amore degli uomini (i due precetti sono simili) e, anzi, pone a fondamento del Suo giudizio di accoglienza e dell’agire umano la pista preferenziale dell’amore fraterno, più ancora che dell’amore verso Dio (Mt 25,31 ss.).
Dalla necessità di tenere presenti le due visioni di fraternità, senza contrapporle, discende lo stesso linguaggio di papa Francesco, che non pretende la concatenazione logica della dimostrazione e nemmeno un linguaggio dottrinale. Certo, anche la Fratres omnes risente nel suo corpo di una certa elefantiasi: sembra che un papa sia tenuto dalla tradizione pontificia a includere in una enciclica tutto un universo, per timore che appaia dilettantesca o parziale. Però, mentre le classiche encicliche sociali – e pressoché tutte le encicliche moderne in genere – hanno bisogno di mediatori linguistici che ne rendano fruibile il ragionamento tecnico, di fronte a questa enciclica la mentalità intellettualistica occidentale potrebbe richiedere stavolta, casomai, mediatori alla rovescia, verso l’alto, che forniscano un inquadramento e un ispessimento culturale (una glossa, cioè una ermeneutica), per paura che un linguaggio così diretto e comprensibile faccia passare per superficiali e banali realtà profonde agli occhi raffinati della cultura occidentale. Nel mondo antico, era la parola la molecola del discorso teologico, e poi lo diventò la proposizione, ora in papa Francesco lo è la narrazione. La Fratres omnes è scritta veramente in un sermo humilis, non solo perché linguisticamente comprensibile, ma anche perché concreto e narrativo, epidittico, cioè «che mostra» (non di-mostra). La Fratres omnes è scritta da quel Francesco che sa che le pecore ormai sono più numerose al di fuori del recinto occidentale dove prosperano le glosse e si preoccupa di più che una sofisticata elaborazione non diventi il nascondiglio in cui si cela, fino a scomparire, la potenza e la carica impegnativa del messaggio. Tale è l’ evidenza e tanta la pervasività di questo stile nella enciclica che ci sentiamo esentati dal segnalarne esempi particolari.
Allo stesso modo papa Francesco ha paura che un cristianesimo culturalizzato screditi l’idea di popolo. Il concetto di popolo è in fatti un altro caposaldo dell’enciclica e su di esso a lungo vi insiste. Non si tratta di esseri umani e umanità come idee astratte illuministiche – e di lì poi liberal-massonico-borghesi e socialiste -, ma di esseri umani nel loro radicamento in un territorio fisico e culturale e, più comprensivamente, in una relazionalità, di cui il papa, accreditando le piste di una teologia contemporanea, vede i fondamenti nella stessa Trinità (n. 85).
Con questa categoria della relazione papa Francesco entra nel dibattito sulla fraternità politica e, anzi, pone essa al culmine. Tramontato ormai il pericolo marxista – che, dopo Berlusconi in Italia, solo Trump ormai va agitando -, la fraternità politica è messa oggi in discussione dal liberismo individualistico (n. 105), che sbandiera sì i princìpi di libertà fraternità uguaglianza, ma non tiene conto della diversa o insussistente possibilità storica di accedervi per tutti (n. 110), trasformandoli in astratte declamazioni. Si ripropone, a ben vedere, la stessa ragione che ha messo in moto alla fine del sec. XIX la «questione sociale» dentro la Chiesa. E che ha fatto prendere nuova coscienza alla Chiesa del discorso della destinazione sociale dei beni del mondo, e della loro proprietà, considerata non un diritto assoluto e giudicata di diritto naturale «secondario» (n. 120), mentre è l’uso comune dei beni a essere naturale e originario, perché li mette al servizio di tutti gli uomini e, aggiunge di suo papa Francesco, del rispetto del mondo (n. 122). Sembra che al proposito papa Francesco, consapevole di essere classificato un “papa comunista”, si tuteli: lo fa citando continuamente, per questa parte, suoi illustri predecessori, esenti da tale pericolosa nomea: Paolo VI e soprattutto Giovanni Paolo II. In realtà, il principio della destinazione universale dei beni è da sempre dottrina della Chiesa, che a partire dalle sue origini arriva dentro il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes. E la destinazione vale non solo per il superfluo, ma anche in certi casi per il necessario: «Si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (Gaudium et spes, 69).
La presenza, in un passato che tuttora ricordiamo, di un bipolarismo ideologico, social-marxismo e liberal-capitalismo, faceva sì che la dottrina sociale della Chiesa, che entrambi condannava sotto differenti aspetti, fosse scambiata per una «terza via» ideologica e non come l’esplicitazione di un criterio morale di valutazione di ogni invenzione umana. Ora, decaduta politicamente l’opzione comunista, la critica di papa Bergoglio si appunta di più contro il liberismo e il populismo. Ma queste non sono due posizioni omogenee, perché solo il liberismo è una ideologia (di ascendenza antirelazionale, russoiana e idealistica), mentre il populismo è, per il papa, un modo di fare politica che può inquinare ogni tipo di ideologia, di destra o di sinistra (n. 159). Non c’è nella enciclica una vera definizione di populismo, che per altro è difficile formulare con precisione, ma si avverte che papa Francesco lo intende, in senso morale più che istituzionale, come un’abile strumentalizzazione dei bisogni o dei desideri del popolo, ai fini di acquisire un potere personale o di gruppo. Non ci stupisce. Questo è un papa nelle cui vene scorre il sangue dell’America Latina, percorsa da tanti peronismi, che, nel nome del pueblo, lo usavano come massa di manovra contro i propri avversari; legandolo direttamente al leader più che promuovendolo nelle sue espressioni articolate e relazionali. Ma il papa Francesco, che ha conosciuto i lati negativi del populismo sudamericano, vede anche il pericolo che oggi è connesso con il termine «populismo» in Occidente: di essere un mantello, o una maschera, che l’ideologia borghese, che ormai ha perso per strada l’antagonista storico – cioè il comunismo-marxismo-, getta volentieri addosso, per squalificarla, a qualsiasi idea o azione che attentino all’individualismo e al capitalismo. Come una volta per offendere l’avversario politico l’ideologia borghese usava – a proposito e a sproposito – il termine e l’epiteto di «comunista». Sicché «populismo» rischia di diventare l’offesa infamante che è lanciata «verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società» (n. 165). Anche per questo il papa vuole sottrarre al concetto di «populismo» l’idea di «popolo», che incarna in sé i valori depositati e le pulsioni d’una comunità di base. Per cui il popolo è una realtà comunitaria – più che un’idea – che si forma, attraverso storiche esperienze, nel senso della relazionalità del personalismo (n. 182), e valorizza anche i fatti istituzionali e gli organismi di mediazione.
All’interno del popolo, un papa che viene dal Sud del mondo e da quella idea di popolo (pueblo) che non è estranea alle pulsioni post-moderne, riporta in auge la sostanza piacevole e viscerale della fraternità, che oggi può dare sangue e cuore a una politica che ha lasciato l’esclusiva delle emo zioni all’antipolitica (questa sì «populista») o al vitalismo irrazionale delle destre nazional-sovraniste (se non addirittura razziste). La moderna mentalità occidentale in sede politica ha elaborato di più una carità imposta e mediata razionalmente dalle istituzioni politiche, il papa vede il bisogno di «poeti sociali» e di «artigiani delle pace». Apprezza sì la programmazione e l’istituzionalizzazione politica della fraternità (n. 196), ma la vuole valorizzare ancor di più nella sua forza primigenia che emerge nei movimenti (n. 169), dove l’amore «imperato » (cioè ordinato e comandato dalle strutture politiche) è preceduto e reso amabile, al di là dell’obbligo che le istituzioni impongono, da un amore «elicito», cioè da una spinta verso l’altro che nasce spontaneamente dal senso ingenito di fraternità umana (n. 186): «Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza [.. .] “i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno ‘diritto’ di prenderci l’anima e il cuore”» (n. 194).
La forza della fraternità contrasta anche una visione tecnocratica della politica (questo mi pare che papa Francesco intenda per politica come «fisica»: n. 210), che calcola «vantaggi e svantaggi» (ibi), più che «bene e male». Questa politica fisica cura quello che chiamiamo l’interesse generale (la maggior forza numerica o contrattuale dei vari interessi) e non il bene comune, che è ciò che promuove tutti; e così riesce a fare solo perché conserva aperto con tutti un dialogo e una graduazione nelle possibili «diverse normative pratiche» che la politica deve assumere.
La negoziazione di papa Francesco conosce i percorsi costruiti «alla scrivania» (che chiama «architettura della pace»), ma si sente più vicino a un «artigianato della pace», cioè a «trasformazioni artigianali operate dai popoli» (n. 231), soprattutto mediante atti di memoria e di perdono, che sono atti personali comunitari, più che politici; senza l’ingiustizia della smemoratezza e senza cadere nel circolo della vendetta (nn. 252-253). Il papa in qualche misura ci invita a correggere la nostra mentalità di occidentali, più adusa a cogliere la primarietà delle ideologie nei processi storico-politici, e ci propone invece esemplarità personali e il valore dei gesti personali. Anche se una corretta distinzione tra idea e soggetto è proprio ciò che rende possibile sia il ricordo, come atto cognitivo che non dimentica, sia il perdono, come atto volitivo, che prova misericordia per chi ha compiuto quell’atto.
La radicalità di papa Bergoglio, veramente Francesco, riconduce dentro la Fratres omnes l’utopia della pace assoluta e della condanna assoluta della guerra (n. 260), che fu di papa Giovanni. Quel principio, confinato – come si sa – solo in una nota della Gaudium et spes (80, nota 2), era stato proclamato nella Pacem in terris (n. 67): «In questa nostra età, che si vanta della potenza atomica, è estraneo alla ragione che la guerra sia ormai uno strumento idoneo a risarcire i diritti violati». Papa Bergoglio aggiunge di suo il motivo della interconnessione tra popoli, che porta le guerre parziali a diventare inevitabilmente guerre mondiali compiute «a pezzi» (n. 259).
Dovremmo abituarci e, anzi, essere già abituati: in papa Francesco quello che di definitorio sembra assente riemerge – e perfino con maggiore forza radicale – nel dato di esperienza. Non sarà che, sotto uno stile discorsivo, che sembra così allergico alla definitorietà (e la lascia volentieri ad altri, senza contestarli, anzi utilizzandoli), non stia in realtà un non esibito, ma saldo, fondamento antropologico e teologico di nuovo tipo, più che una debolezza teoretica? Non si potrebbe forse ripresentare con papa Bergoglio l’enigma di papa Roncalli e del suo Concilio? Un enigma che forse è più comprensibile oggi nell’epoca post-moderna della liquidità e della destrutturazione dei valori, ma che continua a scandalizzare gli Scribi e i Farisei.
Luigi Franco Pizzolato
professore emerito di Letteratura cristiana antica – Università Cattolica del Sacro Cuore