Il presidente Obama ha detto con grande chiarezza che i raid aerei statunitensi contro l’Isis non sono legati a una guerra all’Islam. Ricordava i toni usati da Bush dopo l’11 settembre, per giustificare quella che allora fu lanciata come una nuova grande battaglia globale contro il terrore. Torniamo insomma a quel clima, dopo più di dieci anni? L’offensiva del gruppo ultraradicale Isis in Siria e Iraq sembra effettivamente aver riportato indietro molti orologi della storia. Si pensi al fatto che solo un anno fa il tema era «come armare l’opposizione siriana», se non «come intervenire contro Assad» in Siria: oggi quasi quasi si arriva a dar credito alla volontà del regime di essere d’aiuto contro gli estremisti, oppure a sopire ogni polemica contro il governo degli ayatollah di Teheran, perché anch’esso è un potenziale alleato (nel gioco di specchi contrapposti tra sunniti e sciiti).
Tali dinamiche però sono fortemente rischiose, e riflettono probabilmente un approccio occidentale a queste problematiche che è del tutto oscillante e condizionato dal rilievo mediatico e dall’ansia del breve periodo, più che non dalla sostanza delle questioni. Non si vuole qui negare la brutalità intollerabile dei nuovi nemici, né tanto meno sottovalutare la penosa condizione di persecuzione delle minoranze religiose in quei luoghi, comprese le ultime comunità cristiane che tentano di sopravvivere in un clima tragico. Si vuol però sostenere che un approccio soltanto repressivo da parte occidentale non porterà molto lontano. Si raccolgono infatti oggi i frutti avvelenati di decenni di politiche e culture miopi da parte occidentale (e anche di scelte da parte cristiana) in Medio Oriente. Non era infatti immaginabile continuare a pensare che gli unici interlocutori nella zona fossero i cosiddetti «regimi moderati», che poi erano spesso – si veda in primis il caso saudita – sostenitori di versioni oscurantiste e antimoderne dell’islam, salvo che facevano una politica estera di compromesso con gli interessi americani e occidentali. Non era immaginabile per i cristiani mediorientali continuare a lungo a contare sull’interessata protezione di alcuni dittatori sanguinari e poco credibili (da Saddam Hussein agli Assad, appunto), per vivere in quelle zone dove il cristianesimo è radicato fin dalle origini.
In questo spazio di miope adattamento a situazioni insostenibili, si è lasciato crescere l’estremismo dell’islam radicale. L’islamismo politico e teocratico – come il caso iraniano prima di tutti ha mostrato, anche se il suo carattere sciita l’ ha confinato per decenni in un orizzonte geografico limitato – è stato ed è soprattutto una reazione radicale interna alle società abitate prevalentemente da mussulmani, contro le élites autoritarie e corrotte, percepite come subordinate agli interessi occidentali, che non hanno saputo tutelare le condizioni di vita della popolazione e avviare percorsi minimali di sviluppo e benessere. E’ il caso di Hamas contro Al Fatah, è il caso dei Fratelli musulmani in Egitto contro il regime di Mubarak, e di tante altre esperienze in contesti analoghi. Solo all’interno di questo conflitto primario, i gruppi islamisti hanno scelto di legittimarsi anche con la guerra del terrore contro il «grande Satana» occidentale. La vicenda dell’Isis – per quanto ne possiamo capire finora – appare solo un’ulteriore variante, imbarbarita da un decennio di scontri civili, tribali e etnici dopo la sconsiderata invasione di Bush, oltre che nutrita da ambigui flussi di denaro di una geo-politica intra-islamica quanto mai complicata. Evidentemente, la radicalizzazione politica di tutti questi organismi è stata e continua a essere un problema drammatico, ma essa ha origine proprio nella decomposizione dei cadenti equilibri del passato, e non poteva essere evitata abbarbicandosi a quegli assetti insostenibili. Quasi che le masse islamiche fossero da considerare sempre e soltanto passive e imbelli.
Le cosiddette «primavere» degli scorsi anni hanno mostrato definitivamente che i vecchi equilibri non erano difendibili. Ma appunto, nella fase rivoluzionaria e nel vero e proprio caos che spesso è seguito, le incertezze hanno offerto il campo a sviluppi radicalizzanti problematici. Per cui molti oggi sono passati a parlare tranquillamente di «autunno» e a tornare a fidarsi soltanto di qualche militare che sembra aver riportato la calma. Possiamo quindi chiudere di nuovo gli occhi – come occidente e come cristiani, senza appiattire l’una identità sull’altra, anzi – e considerare la nuova lotta all’estremismo come l’unica scelta possibile, dando spazio a soluzioni militarizzate e repressive. Ma quanto sarà lungimirante tale scelta? E’ evidente che non si poteva immaginare che una democrazia pluralista e matura fiorisse spontaneamente in situazioni arretrate e conflittuali. Ma i casi sono due. O si trovano seri interlocutori nell’islam più genuino e radicato nelle popolazioni, disposto al dialogo e ad un percorso di modernizzazione degli esiti politici della religione, sostenendo anche economicamente con opportune partnership gli sforzi per uscire dalla povertà di popoli giovani e inquieti. Oppure, non ci sarà via d’uscita dal circolo vizioso tra estremizzazione e repressione: un circolo in cui sia i veri credenti che i sinceri democratici hanno tutto da perdere.
Guido Formigoni
28 Settembre 2014 at 16:14
Il quadro di Formigoni è come al solito lucido. Manca un unico particolare su cui ci sarebbe da fare una riflessione molto articolata. Al centro del dilemma islamico c’è , anche in forme inconscie, entro il problema dei diritti, la questione femminile, che rende viscerale, più identitario che mai, lo scontro fondamentalista, caricandolo di una ulteriore violenza. Davvero si gioca ormai qui il futuro della storia.
Bisognerebbe almeno renderlo più esplicito e far capire alle nuove generazioni, islamiche e no, maschi e femmine, che questo è divenuto il vero centro soggettivo del conflitto fra guerra e pace, fra ricorso alla violenza e costruzione di un mondo altro.
7 Ottobre 2014 at 22:29
Sono d’accordo con Paola, soprattutto perché l’uguaglianza tradizionale prevede che le donne confermino il modello unico fin qui maschile e perfino negli Emirati, dove la donna non ha autonomia, può diventare pilota militare e andare a bombardare l’Is. Aggiungo che le guerre si debbono tempestivamente prevenire. Se arrivano, non è mai per caso e sono sempre e inesorabilmente “la guerra”: dopo non vale invocare la pace che non si è costruita con l’informazione e il coraggio delle mediazioni.