L’articolo è apparso sul numero del 12 settembre di “VIA PO”, inserto del quotidiano della Cisl “Conquiste del lavoro”
La classe politica italiana del secondo dopoguerra in trent’anni è riuscita a collocare il paese tra le principali nazioni industrializzate del mondo e quindi tra le “società del benessere” in termini di livelli di consumo e Pil procapite. Dopo il “boom economico”, gli anni 60/70 sono stati caratterizzati da grandi mobilitazioni collettive, in primo luogo sindacali, che hanno svolto un ruolo rilevante nello sviluppo sociale e nella modernizzazione del paese. Esse sprigionarono nuove energie, sia per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, sia per i diritti di libertà delle donne e di tutti i cittadini: depenalizzazione dell’adulterio, legge di parità uomo-donna sui posti di lavoro, diritto di famiglia, riforma sanitaria, riforma psichiatrica, organi collegiali della scuola, vittoria del “No” nel referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio. Il sindacato esercitava a pieno titolo la sua funzione di soggetto politico e le sue azioni contribuivano ad estendere quel welfare state affermatosi con la vittoria laburista del 1945 in Gran Bretagna. La conquista delle 150 ore di diritto allo studio permise a oltre 200 mila lavoratori di ottenere la licenza di scuola media. Categorie professionali, un tempo chiuse nelle proprie torri d’avorio (magistrati, medici, insegnanti, poliziotti), si aprivano alla società e costituivano proprie associazioni che dialogavano col mondo del lavoro. Tra i fenomeni sociali più rilevanti di questo periodo non dobbiamo mai dimenticare gli oltre 270 mila espatri annui dei nostri connazionali all’estero (in maggioranza nei paesi europei), le cui rimesse hanno contribuito ad aumentare la qualità della vita del paese.
Ma nel definire la società del benessere dobbiamo tener presente alcuni caratteri strutturali, che spesso vengono dimenticati. I fondamentali dell’Italia, afferma Alberto Quadrio Curzio, sono buoni: la ricchezza privata netta delle famiglie italiane è 5 volte il PIL ed è quasi tre volte la somma del debito pubblico e di quello delle imprese non finanziarie; essa ammonta a circa 8.600 miliardi di euro, di cui il 62% deriva da attività reali espresse principalmente dal possesso di abitazioni. Il rapporto tra debito pubblico e ricchezza finanziaria netta privata è intorno al 67%, a livelli simili a quelli della Francia e della Germania. La vera anomalia italiana, rispetto alla media europea, è l’enorme spesa per interessi. Sul versante imprenditoriale abbiamo il 95% delle imprese con meno di 10 dipendenti, con una media di 9 addetti per azienda a fronte dei 36 della Germania. Le imprese manifatturiere fino a 49 addetti sono circa 450mila con 2,5 milioni di occupati. Nelle aree definibili di distretto industriale, nei cui territori prevalgono sistemi di relazioni industriali di tipo collaborativo, vengono occupati il 40% dei lavoratori del settore manifatturiero.
Due sono le parole chiave che ci aiutano a capire la contemporaneità: da una parte la globalizzazione, dall’altra la frantumazione sociale. Per definire la prima mi avvalgo della bella metafora “effetto farfalla” del matematico Edward Norton Lorenz (1917-2008): “Il battito d’ala di una singola farfalla in Brasile può scatenare un tornado nel Texas”. Nei sistemi complessi, la minima variazione di un dato, in ogni parte del sistema, può avere effetti consistenti sui risultati. Per uscire da questa situazione, oggettivamente critica, ancora oggi in Italia qualcuno si affanna a proporre la formazione di una “coalizione sociale” che è il termine più moderno per riproporre antiche ideologie basate sul “blocco sociale”, cioè su una manichea semplificazione della realtà sociale: da una parte i gruppi sociali portatori di istanze progressiste, dall’altra i conservatori. Sappiamo invece che ogni processo sociale per sua natura è complesso e prende forma e si evolve non in maniera lineare, ma con una molteplicità di espressioni e di contraddizioni. Nella frantumazione vengono ridimensionate le letture dicotomiche in termini di “inclusione” o “esclusione” perché esiste una zona grigia sempre più consistente che può passare dall’uno all’altro fronte a seconda di improvvisi eventi esterni (malattia, perdita del posto di lavoro) producendo enormi disuguaglianze. Prevale l’incertezza e la paura di perdere diritti acquisiti o stili di vita consolidati. A causa del predominio incontrastato della logica finanziaria su quella industriale, non esistono centri decisionali forti localizzati in luoghi precisi e visibili, contro i quali combattere; esistono invece tanti centri di potere finanziario sparsi nel mondo. Un generico appello alla coalizione sociale nello Stato nazione unisce soltanto il malcontento dilagante che si annida in diversi ambiti. La frantumazione sociale non cerca una rappresentanza politica, non è alla ricerca di dirigenti in grado di rappresentarla, tutt’al più diventa anch’essa un talk show televisivo: da una parte la piazza che protesta, dall’altra i governanti di turno, sempre colpevoli delle peggiori nefandezze.
Il sociologo tedesco Ulrich Bech (recentemente scomparso), aveva descritto con anticipo (1986) la “seconda modernità”, caratterizzata dalla “società del rischio” o “società dell’incertezza”: i rischi sono causati dallo sviluppo stesso, sono l’altra faccia del progresso. L’inquinamento deriva dalla industrializzazione, la disoccupazione dall’eccessiva produttività e dai miglioramenti tecnologici organizzativi, la crisi dei sistemi previdenziali dall’aumento della speranza di vita, il maggiore individualismo dalla maggiore libertà, l’aumento della produzione agricola dall’uso di fertilizzanti chimici. In poche parole, le contraddizioni della società moderna non derivano dalle sue sconfitte, ma dai suoi successi. Lo “sguardo cosmopolita” ci consente invece di individuare in ogni rischio, oltre all’anticipazione di una catastrofe, il principio di una trasformazione da attuare con proposte concrete e condivise dalle popolazioni (per esempio il reddito di cittadinanza continentale). Da ciò nasce soprattutto la necessità di sviluppare una consapevolezza ecologista planetaria, come afferma oggi Papa Francesco.
Altri studiosi mettono in risalto come la crisi colpisce proprio quei “ceti medi” che per la loro estensione hanno sempre costituito il cuore pulsante delle società occidentali. Il loro svuotamento, e l’aumento delle disuguaglianze, provoca le più disparate reazioni: elettoralmente si esprime attraverso il diffuso consenso, anche di strati operai, verso la destra populista. La società del rischio provoca mutamenti antropologici e di stile di vita. Basti pensare alla grande questione demografica. In Italia il 50% dei nuclei familiari è costituito da persone sole (30%) e coppie senza figli (20%) e il 34% da coppie con figli. Secondo indagini dell’Eurobarometro l’Italia risulta essere il paese europeo con la massima percentuale di donne di età 25-39 anni senza figli. L’età media del concepimento del primo figlio è di 31,4 anni. Il numero di figli per donna non garantisce il ricambio generazionale, infatti, ogni anno la mortalità supera la natalità. L’età media degli sposi è di 36 anni per i maschi e di quasi 33 per le femmine, mentre assistiamo a un progressivo innalzamento dell’età della permanenza dei giovani adulti nella casa dei genitori. I matrimoni ufficiali nel 2013 sono stati soltanto 194.057 (di cui oltre il 42% con rito civile), a fronte di circa 140 mila tra separazioni e divorzi. Quasi il 26% dei bambini nasce da genitori non coniugati. Sono dati che recentemente hanno provocato l’interesse in prima pagina del giornale economico americano “The Wall Street Journal”. Sui livelli di scolarità degli occupati i segnali positivi riguardano le donne laureate che raggiungono il 16% a fronte del 10% dei colleghi maschi.
La società del disagio comunemente viene identificata con la diffusione del precariato e con l’aumento delle diverse forme di povertà (assoluta e relativa), ma negli ultimi anni si è estesa anche a quei lavoratori a tempo pieno e indeterminato, quando sono i soli a sostenere la famiglia. Tutto ciò, come si può facilmente constatare, mette in seria discussione le fondamenta stesse del modello sociale europeo.
Salvatore Vento