Per quindici anni, la discussione e persino la polemica politica che ha attraversato il campo del centrosinistra, ha visto tra i suoi protagonisti dalemiani e prodiani. Le personalità che danno nome a quelle sigle, intendo D’Alema e Prodi, sono state entrambe attori-protagonisti di quella stagione. Un tempo che, a dispetto della stucchevole retorica nuovista e del fastidioso mantra secondo il quale negli ultimi venti anni non si sarebbe combinato nulla e solo oggi si farebbero miracoli, non fu affatto privo di buoni risultati. Due soli esempi: l’aggancio all’euro e l’approdo a una democrazia competitiva e dell’alternanza grazie alla quale per la prima volta, dopo mezzo secolo, la sinistra italiana assunse responsabilità di governo. Un guadagno per la democrazia italiana (incompiuta, difficile, bloccata). L’approdo cui mirava la “terza fase” patrocinata da Aldo Moro, dopo il centrismo e il centrosinistra.
E tuttavia quella disputa vi fu e fu vivace. Al netto di qualche idiosincrasia tra i protagonisti, si trattò di discussione genuinamente politica, del confronto tra due diverse visioni circa l’assetto del sistema politico, circa lo sviluppo della democrazia italiana. Semplifico: l’una di stampo proporzionali stico, che privilegiava il principio di rappresentatività e imperniata sul primato dei partiti; l’altra di natura maggioritaria, che privilegiava l’esigenza della governabilità, della semplificazione del sistema politico, di un bipolarismo basato su coalizioni di partiti. Con il corollario del rapporto problematico tra peculiarità politica italiana ed esigenza di interazione con le grandi famiglie politiche europee. Insomma, un confronto teorico- pratico maiuscolo. Da non derubricare a mediocre contesa personale.
Avendo avuto una piccola parte in quel confronto dal versante dei prodiani o, meglio, dei cultori dell’Ulivo, certo non sono sospetto di simpatie politiche dalemiane. Anzi: senza indulgere a letture maliziose sulla caduta del governo dell’Ulivo presieduto da Prodi nel 1998 (la teoria della congiura o del complotto), non posso che confermarmi nell’opinione che lì si perse un treno prezioso, che quella rottura non solo pose le premesse per la sconfitta del 2001 cui seguirono lunghi anni segnati dalla egemonia berlusconiana, ma soprattutto che quella cesura produsse un pesante ritardo nell’approdo al PD, quale naturale sviluppo dell’Ulivo. Come progetto politico e come programma di governo audacemente riformatore. Di più: rammento che, asceso a palazzo Chigi, D’Alema si circondò di collaboratori (i cosiddetti Lothar) che si adoperarono per anticipare una sorta di partito personale del premier, trasmettendo l’idea che lo stesso Ds fosse un ingombro dal quale marcare le distanze.
Ciò detto, tuttavia, non mi piace questa generale corsa a imbastire un tardivo processo politico a D’Alema. Troppo facile, troppo ingeneroso, talvolta persino vile, quando vi si applicano suoi antichi seguaci. Un po’ più giovani di lui e tuttavia maturi abbastanza per averne condiviso visione e scelte che oggi gli imputano a colpa. E poi cosa ha detto D’Alema di così blasfemo e riprovevole? Che la battaglia politica conosce le sue durezze, che le opposizioni PD devono fare fronte comune, che esse devono darsi una qualche organizzazione, che nel PD renziano gli eredi della sinistra devono avere voce e cittadinanza, che un partito pigliatutti può essere calamita di opportunisti e fattore di trasformismo. Che Renzi abbia risposto per le rime ci può stare. Ho inteso meno la polemica dei suoi ex sodali. Mi è sembrato di scorgere, in loro, una doppia subalternità. Da un lato un complesso psicologico, quasi il bisogno di “uccidere il padre”. Palese indizio di dipendenza alla rovescia. Dall’altro, una subalternità paradossale al mito e alla pratica renziana della rottamazione. Quasi che lo scarto di età assicuri di stare dalla parte della ragione, che esso esoneri dal motivare politicamente uno smarcamento, il quale, a sua volta, abilita a prospettive di carriera dentro il nuovo corso. Congedarsi con clamore da D’Alema come imperativo categorico per partecipare in qualche modo al tempo nuovo. È troppo chiedere a chi si è a lungo riconosciuto nella sua leadership di argomentare le ragioni di una così ostentata e, in qualche caso, astiosa presa di distanza?
Confesso che quelle ragioni non mi sono chiare. È sorprendente che io, spesso in dissenso con la sua visione, debba rimpiangere il tempo nel quale appunto su diverse visioni ci si confrontava. Rispetto a un tempo – questo – contrassegnato da riposizionamenti… di massa motivati più da calcoli personali che non da riconoscibili posizioni politiche. Con una conclusione paradossale: da un lato l’apprezzamento per una personalità che certo non difetta di testa politica e di spirito combattivo, dall’altro semmai la conferma di un suo limite, quello di essersi circondato in passato di collaboratori e seguaci che, da lui, hanno assimilato il vizio del politicismo (che confina con il machiavellismo e può degenerare nell’opportunismo) ma non le virtù e la statura, lo spessore politico e il temperamento pugnace, certo non servile. In breve, mi confermo nell’idea che mi ha sempre accompagnato: decisamente meglio D’Alema dei dalemiani.
Franco Monaco
24 Marzo 2015 at 16:04
Sì, ma al netto di tutto io non capisco una cosa.
Mettiamo che:
a) D’Alema sia sempre stato coerente in questa sua visione proporzionalistica e da democrazia mediata iche sia allea con un presunto centro da tenere vivo e separato e al netto di qualche deviazione non proprio irrilevante (la Bicamerale dove si eleggeva direttamente il Presidente della Repubblica e si legittimava anche direttamente il Presidente del Consiglio col premio di coalizione: troppa grazia);
b) che dall’ulivismo si tragga sempre e comunque in tutti una coerenza maggioritaria e da democrazia governante;
c) al netto di tutto siamo di fronte a un bivio o consultellum o Italicum sul pano elettorale, status quo costituzionale o questa riforma costituzionale ormai al 90% immodificabile perché già votata in modo conforme dalle due Camere;
se ne dovrebbe dedurre che D’Alema fa sì bene per sua coerenza a dichiararsi contro l’Italicum e contro la riforma, ma al tempo stesso Monaco non dovrebbe essere a favore per le stesse ragioni di coerenza interna? Cari saluti
24 Marzo 2015 at 20:20
Condivido in pieno questo articolo. Purtroppo, l’opportunismo e la prospettiva della poltrona o poltroncina è più allettante rispetto all’essere semplicemente fedele ai valori della sinistra e al rispetto della storia del partito.
24 Marzo 2015 at 21:07
D’Alema è intelligente? Ma sì, onore al merito: però in questo mi ricorda De Mita, altro intelligentissimo, ma buono solo per se stesso, incapace di generosità politica e incline a circondarsi di servi proni al suo volere. Capisco bene la strumentalità delle repliche che D’Alema ha ricevuto, e forse una certa dose di ingratitudine da parte di chi, cresciuto alla sua scuola, ora lo rinnega. Ma c’è un ma: la legge di Edipo, della nuova generazione che uccide la vecchia, è una legge di natura, mentre innaturale è il perpetuarsi della venerazione di vecchi barbagianni (e magari anche di sepolcri illustri) indipendentemente da quello che dicono o che fanno, solo perché rappresentano un passato glorioso. A me pare che se a sinistra i figli riscoprono questa legge dovremmo solo rallegrarcene, perché vuol dire che la vita riprende a fare il suo corso. Semmai io mi preoccupo perché a casa nostra, nel cosiddetto cattolicesimo democratico, non siamo capaci di fare la stessa cosa.